Sport e gioco condividono una libertà sempre più compressa dalla spettacolarizzazione.
Lo sport è bello in sè. Chi lo guarda vede capacità naturali dell’Uomo spinte oltre il limite dell’ordinario: forza, resistenza, velocità e coordinazione variamente combinate. E soprattutto la sana e istintiva voglia di primeggiare sull’avversario o talvolta su se stessi, quell’agonismo che nasce alle radici dell’Europa: l’agone, la gara, che faceva della fatica e della bellezza degli atleti il tributo agli dei del pantheon greco. Rito, gestualità, magia e mistero: una danza.
Alla radice c’è il gioco, che Huizinga mette addirittura alla base di ogni organizzazione sociale: un atto libero e senza regole, la normalità tanto per il bambino quanto per l’animale, prima della cultura e del comando. Inserite le regole non c’è più gioco. V’è lo sport, si potrebbe aggiungere, che al gioco somma il dovere e l’impegno e ne dà quindi funzione culturale. Il gioco però, per quanto innato nel fanciullo, resta comunque un’aggiunta superflua per l’adulto, ed è facile misurare l’Uomo da come tratta le cose superflue.
Fino a poco tempo fa questo accessorio della vita che è lo Sport era riuscito a mantenere i caratteri di gioco che gli sono propri: su tutti, la purezza del restare incontaminato rispetto agli elementi esterni, tanto che la nascita novecentesca della società dello spettacolo non aveva alterato la sostanza di nessuna disciplina, anzi vi si era adattata: le uniche regole erano quelle interne.
I mezzi di informazione fino alla rivoluzione digitale davano spazio a molte specialità, e fino a pochi anni fa i canali televisivi – limitati a una decina – trasmettevano molti degli sport oggi assurdamente definiti minori: pallavolo, pugilato, nuoto, ciclismo (anche su pista), sport invernali (che il bob italiano fosse rosso lo sapevano tutti), scherma, pallacanestro e atletica leggera, per fare un elenco sommario, erano presenti in modo costante nelle colonne principali dei quotidiani, raccontati in diretta dalle radio e non comparivano certo in ritagli all’ultima pagina né risorgevano ogni quattro anni.
Interviste misurate condotte da giornalisti di spessore e approfondimenti non di gossip erano la normalità. Anzi, un’esposizione mediatica così a modo avvicinava molti fin da piccoli – e ciascuno per la sua inclinazione – alla pratica anche non competitiva, e il culto italiano per l’agonismo faceva primeggiare in tutto il mondo i giovani azzurri in moltissime discipline. Oggigiorno invece si è sacrificato all’aspetto dello “spettacolare” molto di quello che invece si era guadagnato in termini di umanità, e lo si è semplicemente perso.
I valori olimpici rimangono nella forma mentre nella sostanza quasi ogni sport agonisticamente inteso ha dimenticato il suo senso educativo e formativo, sia del giovane che dell’adulto. Senso che ha sempre avuto: il gesto fisico è una riproduzione in scala del gesto bellico (lanciare un giavellotto, atterrare l’avversario, i due schieramenti), e i giovani sono educati così anche al vivere sociale:si imparava ad aver a che fare con gli altri e con se stessi.
Purtroppo la deriva spettacolarizzante di tutto quello che è agonistico ha sostituito l’apparire alla socialità e fatto prevalere il Mercato sul gioco, trasformando lo sport in un’ulteriore occasione di consumo e omologazione: se tutti i canali trasmettono la stessa notizia a ripetizione, cosa guarderò? Lo stesso sport (solo il calcio in questo caso, essendo gli altri praticamente spariti se non rintracciabili – e nemmeno tutti – a caro prezzo sulle TV a pagamento) si è poi tecnicizzato diventando servo dei media, molto più guardato che partecipato.
Da un lato la statistica, l’algoritmo, lo “sportech” e l’ultratattica che si illudono di togliere l’incerto dal gioco, dall’altro calendari infiniti e infiniti collegamenti, pre/perì/post evento con macchiette mononota che parlano alla modella in studio: un voyerismo figlio della bramosia che etichetta l’epoca dell’accumulazione, sorella della frenesia che scioglie ogni peculiarità nel calderone delle inutilità. La metamorfosi è quasi completa tanto che sport dalla natura differente, vedendosi oscurati dalla pervasività dei colossi (il calcio in Europa e qualche sparuta americanizzazione), cercano di adattarsi cambiando regolamenti (tennis) o aggiungendo/togliendo discipline (atletica, Olimpiadi).
Il gioco è gruppo, è relazione, dentro e fuori il campo o la pista: non è solo una merce serissima su cui non si può scherzare, in cui ogni errore vale milioni. Non c’è qui alcuna lode del tempo che fu, anzi c’è tutta la voglia di prendere questi potenti mezzi che la tecnologia ci offre e farne degli strumential servizio della competizione.
Non il fine in cui liquefarsi ma la via per dare ancor maggiore e migliore contezza dello sport, che è già spettacolare di suo perché mette l’uomo in campo e non in scena, perché ci mette l’uno contro l’altro ma solo per scherzo; è, appunto, “soltanto” un gioco. Per Antimo Negri il gioco si contrappone alla serietà, ma uno non esclude l’altra, anzi l’uno nell’altra si convertono. Il che non esclude affatto che si giochi seriamente: è solo un gioco, ma mentre si gioca è il gioco stesso a possederci.
Il gioco sa innalzarsi a vette di bellezza e di santità che la serietà non raggiunge. (A. Negri)
Il gioco, si dice, è dei bambini, ma quanto sono seri i bambini mentre giocano! Kafka, in una delle lettere all’amata Milena, a loro si appella per darle una personale dimostrazione di resilienza, la virtù di rispondere agli urti della vita che lo Sport insegna meglio di ogni altra cosa:
“Se dieci volte non riescono a buttar giù, non perciò saranno convinti di non dover riuscire la volta seguente, anzi non ricordano nemmeno di aver fallito nei dieci casi precedenti.
I bambini sono seri e non conoscono l’impossibile.”
Di fronte a un'ingiustizia che sa di sconfitta, Nibali ci insegna a perseverare nella pazienza. Invece della burrasca, il mare calmo, prima che il sole sorga.