Tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta l'hockey su ghiaccio ha avuto un padrone assoluto: la Russia. Tre nomi hanno fatto la storia: Valerij Charlamov, Vjaceslav Fetisov e Vladislav Tretiak.
Lo sport invernale più popolare del mondo, l’hockey su ghiaccio, vede da sempre i russi recitare il ruolo di dominatori europei, contendendosi con i canadesi l’egemonia internazionale. URSS. CSI. Federazione Russia. Tre nomi per definire lo stesso popolo, unito da un identico comune denominatore: la vittoria. Se l’URSS si è appesa al collo 7 ori olimpici, record che condivide con il Canada, su 9 edizioni disputate ed ha conquistato 19 mondiali su 30 eventi a cui ha preso parte; dall’aprile del 1992, la Russia, anno in cui ha rimpiazzato la rappresentativa della C.S.I che vinse l’oro Olimpico ai Giochi del 1992, ha finora vinto 3 Campionati Mondiali in diciassette anni di storia. Grandi nazionali sostenute da grandissimi nomi. Tre di loro possono essere considerati tra i più grandi sempre: Valerij Charlamov, Vjaceslav Fetisov e Vladislav Tretiak.
Figlio di un operaio russo e di una spagnola fuggita dai Paesi Baschi durante la guerra civile, Valerij Charlamov è nato a Mosca il 14 gennaio del 1948. Di costituzione glaciale e malaticcia, nemmeno l’anno trascorso in Spagna quando era ancora un bambino sembrava essere riuscito a guarire quelle tonsille troppo deboli che gli avevano causato un difetto cardiaco. Incurante delle raccomandazioni dei tanti dottori consultati, non appena Valerij tornò a Mosca il padre decise di fare di testa sua e lo iscrisse alla scuola di hockey del CSKA. La diagnosi dei medici sportivi fu rassicurante: il cuore di Valerij era sano. L’analisi degli allenatori si dimostrò ancor più entusiasta: quel bambino possedeva un talento fuori quotazioni.
Appena quattordicenne venne inserito nelle formazioni giovanili del CSKA Mosca ed a vent’anni era già la punta di diamante dell’Armata Rossa tanto che, alla sua prima stagione, realizzò 37 reti in 42 partite. Se le incredibili abilità tecniche gli consentivano un impareggiabile controllo del disco, la modesta altezza, 1 metro e 75 cm, gli permise di portare sul campo da hockey una velocità fuori dal comune. Insieme all’ala destra Boris Mikhailov ed al centrale Vladimir Petrov, Valera formò la linea offensiva che dominò gli anni ’70. La presenza di Charlamov fu determinante tanto negli 11 titoli sovietici vinti del CSKA quanto negli 8 Campionati del Mondo e forse ancor di più per le 2 medaglie d’oro alle Olimpiadi agguantate dall’Unione Sovietica a Sapporo nel 1972 ed a Innsbruck nel 1976.
Valerij Charlamov incantò anche il Nord America durante la Summit Series; ossia un evento organizzato nel settembre del 1972 tra le nazionali dell’URSS e del Canada. In quell’occasione Valera mise a segno due reti incredibili ed il coach canadese, Harry Sindem, affermò di «non aver mai visto in tutta la sua vita qualcuno in grado di liberarsi di due difensori NHL» come aveva fatto Charlamov in gara I. In tutte le partite giocate Charlamov fu sempre il bersaglio di colpi sporchi, ma all’epoca vigeva un detto: «se Charlamov è fuori, non può creare problemi». Valerij, che aveva sempre accusato i canadesi di essere scorretti e di usare le mazze come fossero delle spade da brandire contro i nemici, non era comunque un giocatore tenero e durante la manifestazione totalizzò 16 minuti di penalità, il peggiore tra i Sovietici; questo finché Clarke non gli spezzò volontariamente una caviglia.
Nel 1976 un gravissimo incidente stradale, placcò «l’inarrestabile Valera». Eppure, nonostante le gravissime fratture subite sia alle gambe che alla braccia, Charlamov si sottopose a una durissima riabilitazione e, dopo due anni riuscì a rientrare ad altissimi livelli. Charlamov non era però più quello di prima e quando nel 1981 il commissario tecnico della nazionale, Viktor Tirkhonov lo escluse dalla squadra che avrebbe partecipato alla seconda edizione della Canada Cup, il grande campione cadde in depressione.
Il 27 agosto del 1981 il mondo dell’hockey fu sconvolto da una tragica notizia: sulla strada che collega Mosca a San Pietroburgo Valerij Charlamov, a soli trentatré anni, era rimasto vittima di un terribile incidente in cui aveva perso la vita anche l’adorata moglie. Come segno di rispetto il CSKA e la Nazionale Sovietica ritirarono il numero 17. Solo al figlio Alexander fu concesso di indossare la maglia del padre, ma diventato maggiorenne decise di optare per il numero 22: come se non bastasse il cognome di per sé troppo ingombrate, l’onere che corrispondeva a quel 17 superava di gran lungal’onore.
Con 293 goal nel campionato sovietico e 188 con la maglia della nazionale, Valerij Charlamov è stato probabilmente il miglior talento mai prodotto dall’hockey russo seppure la classifica all-time stillata dalla rivista Hockey News, lo inserisce al terzo posto dietro Vjacheslav Fetisov e Vladislav Tretiak. La nascita di un palazzetto dello sport in suo onore costruito a Mosca nel 2003, precede di due anni il suo ingresso nella Hockey All of Fame. Leggenda numero 17 diviene anche un film, ma a rendere maggior giustizia a Valerij Charlamov è stato lo scultore, anonimo, che ha eretto una statua nel luogo del tragico incidente con sopra inciso: «qui è caduta una stella».
Era figlio di operai anche Vjaceslav Aleksandrovic Fetisov e così come era accaduto con Charlamov, non appena i selezionatori del CSKA di Mosca lo videro con la mazza in mano lo additarono come un «predestinato». Nato a Mosca il 20 aprile 1958, Slava era un ariete non solo per gli astri: madre natura lo aveva dotato di un fisico massiccio, instancabile, e ben presto iniziò a circolare la voce che «quel ragazzino sarebbe stata una garanzia per la difesa dell’URSS». Ma c’era dell’altro: chiunque si era occupato della sua formazione aveva avuto modo di appurarne l’innata tempra agonistica.
Se in Russia l’hockey è sempre stato prima ancora che uno sport vero e proprio costume, identità nazionale, mito; Vjaceslav Fetisov era molto di più che un difensore. Oltre alla grandissima mobilità e all’eccezionale senso della posizione, che gli permettevano di proteggere il proprio portiere in maniera perfetta, Slava possedeva una visione di gioco ineguagliabile. Semplicemente, il gioco corale dell’URSS di Fetisov era la fusione tra il balletto e le tattiche di occupazione della scacchiera: non a caso il campione di scacchi Anatolij Karpov era stato assunto come consulente della nazionale e l’allenatore, Anatolij Tarasov, si era ispirato ai ballerini del Bolscioj per rendere armonico il pattinaggio dei suoi pupilli. Semplicemente Fetisov era considerato il primo ballerino, il Re, o meglio lo «c’zar».
L’unione Sovietica degli anni ’80 poteva contare sulla Linea KLM, la quale derivava dalle prime lettere dei cognomi dei tre attaccanti Vladimir Krutov, Igor Larinov e Sergej Makarov; i quali erano coperti da due eccelsi difensori, Aleksej Kasatonov e per l’appunto l’immenso Vjaceslav Fetisov. Il quintetto più vincente e temuto del mondo era noto come l’Unità Verde poiché erano soliti vestire negli allenamenti delle divise verdi. Eppure non mancò anche una clamorosa caduta, vissuta in patria come una vera e propria tragedia e ribattezzata in ogni angolo del pianeta come il “miracolo sul ghiaccio”. Avvenne il 22 febbraio del 1980 durante i Giochi Olimpici di Lake Placid quando l’URSS si inchinò agli Stati Uniti.
Tornati a Mosca i giocatori furono segregati per quattro anni: «Stavamo in ritiro 330 giorni all’anno. Potevamo vedere la famiglia negli altri 35. Quattro allenamenti al giorno. Esercizi che ci portavano a 220 pulsazioni al minuto. Un solo telefono in tutto il centro sportivo per chiamare casa, tutti quanti in fila. Agenti del Kgb che ci controllavano ad ogni trasferta all’estero. Eppure non ho mai pensato di disertare. Volevo giocare per il mio paese, riportare l’oro olimpico in Urss».
Avrebbe fatto molto di più. Andando per ordine: appena sedicenne, oltre ad essere inserito nella formazione giovanile del CSKA Mosca, ha debuttato nella Nazionale Juniores, per la quale ha vinto il Mondiale nel biennio 1977-1978. Il 22 aprile 1977 ha disputato la prima partita con la Nazionale maggiore contro la Finlandia ed ha realizzato una rete. A vent’anni era già considerato uno dei migliori difensori del mondo e in breve tempo divenne il capitano e leader sia del CSKA nelle cui file vinse 12 Campionati Sovietici, sia dell’URSS, che trascinò alla conquista di 7 titoli Mondiali, un Canada Cup e 2 medaglie d’oro alle Olimpiadi, la prima a Sarajevo nel 1984, la seconda a Calgary nel 1988. A livello individuale Fetisov fu eletto 9 volte All-Star del Campionato Sovietico, 3 volte miglior giocatore, ricevette 4 volte il trofeo Leningradskaya-Pravda, assegnato al difensore con più reti segnate, oltre all’Ordine di Lenin, consegnato dal governo sovietico e all’Ordine Olimpico, consegnato dal CIO.
Per comprendere meglio la storia di Slava è però necessario aprire un excursus. La National Hockey League, nota anche con l’acronimo NHL, ossia l’organizzazione professionistica composta da squadre di hockey su ghiaccio degli Stati Uniti e del Canada, si interessò a Fetisov e tentò di convincerlo a trasferirsi Oltreoceano sin dal 1978. In quegli anni il passaggio al professionismo era però un’utopia per i campioni russi, attanagliati dal regime comunista. Quando però il 2 gennaio 1989 il CSKA sconfisse per 5-0 il New Jersey Devils, insieme all’amico Igor Larinov, Slava si schierò apertamente contro il regime comunista ed il tecnico Viktor Tikhomnov che ostacolavano qualsiasi apertura verso l’Occidente. Il culmine della guerra tra le due fazioni avvenne quando Tikhonov, escluse il Capitano dalla formazione che avrebbe partecipato ai Mondiali. Al che i compagni si ribellarono, il tecnico fu obbligato a richiamare Slava ed a maggio L’URSS permise all’Unità Verde di prendere parte al Campionato NHL.
Oltreoceano i russi si fecero valere. Se nel 1990 Sergej Makarov si aggiudicò il Calder Memorial Trophy, un premio assegnato al miglior giocatore nel suo primo anno di competizione nella NHL, Fetisov e Igor Larinov vinsero rispettivamente due e tre volte la Stanley Cup con i Detroit Red Wings. Nel 1997 i Detroit poterono contare sulla prima linea russa nella storia della NHL; i leggendari Russian Five formati da Viacheslav Fetisov e Vladimir Kostantinov in difesa, e da Slava Kozlov, Igor Larinov e SergeiFedorov in attacco. Con la prima vittoria alla Stanley Cup nel 1997 Slava ed il suo miglior amico Igor Larionov realizzarono un poker di vittorie incredibile: titolo mondiale, medaglia d’oro ai Giochi Olimpici, Canada Cup e Stanley Cup.
Pochi giorni dopo aver stretto in pugno il prestigioso titolo Fetisov e Konstantinov rimasero coinvolti in un terribile incidente stradale: Slava rimediò qualche contusione, ma il suo connazionale rimase paralizzato. I sensi di colpa ebbero l’effetto di evocargli il dolorosissimo lutto che lo aveva colpito nel giugno del 1985 quando il fratello diciassettenne Anatoly, grande promessa dell’hockey, perse la vita in un incidente stradale, e di rimandare di un anno il ritiro in modo da poter rivincere e dedicare la Stanley Cup all’amico Konstantinov; il quale raggiunse gli ex compagni in campo per festeggiare, seppure in carrozzella.
Ormai quarantenne, Fetisov decise di ritirarsi. Ingaggiato come assistant coach dai New Jersey Devils, rivinse la Stanley Cup nel 2000 e pochi mesi dopo, il presidente della Repubblica Russa Vladimir Putin lo premiò con una Medaglia all’onore per i servizi fatti alla Madre Patria. Da lì a poco il suo nome avrebbe brillato nella Hockey Hall Of Fame di Toronto. Nel 2002 Fetsov ha guidato come head coach la Nazionale Russa ai Giochi Olimpici di Salt Lake City, conquistando la medaglia di bronzo, per quindi ricoprire la carica di Ministro dello Sport per il Governo della Repubblica Russa.
Risale però a due anni prima, l’ultimo grande momento di sport in cui è stato indiscusso protagonista. Il 25 agosto 2000 allo Stadio Olimpico di Mosca, Fetisov organizzò un’esibizione tra le Russian All-Stars e le World Stars, per celebrare davanti al proprio pubblico l’addio all’hockey giocato. La panchina russa venne assegnata a Viktor Tikhonov, il tecnico con cui Fetisov aveva ingaggiato una vera e propria guerra undici anni prima. La partita si chiuse 7-6 per i russi, che tra l’altro indossarono la divisa della CCCP, e la rete vincente fu realizzata proprio dallo c’zar” Slava Fetisov.
Pur essendo nato il 25 aprile del 1952 a Mosca, Vladislav Tretiak è cresciuto in Ucraina. Il padre prestava infatti servizio come pilota militare a Sumy, città del nord est dove la madre svolgeva invece il lavoro di insegnante di educazione fisica. L’importanza assegnata dal regime sovietico allo sport in ambito scolastico rese evidente come Valdislav fosse predisposto per svariate discipline. A scorgerne per prima le doti versatili è stata la madre che dopo avergli spiegato come «Qualsiasi cosa sceglierai, diventerai un campione», non ha dimenticato di ricordare al figlio che «per eccellere è indispensabile anche ferocia agonistica e spirito di sacrificio». Aspetti, pure questi ultimi, in cui Tretiak non era secondo a nessuno. Nonostante l’iniziale decisione di seguire le orme del fratello e di dedicarsi al nuoto, ad undici anni è scoccato il colpo di fulmine con l’hockey su ghiaccio. Tornato a Mosca, venne così consegnato a Vitaly Erfilov il quale vide in lui il coraggio e la personalità indispensabili per ogni portiere.
Tempo quattro anni ed Anatolij Tarasov decise di prenderlo sotto alla propria ala e di piazzarlo nella formazione Juniores del CSKA Mosca. Il debutto in prima squadra avvenne due anni dopo, nel 1969, mentre nel 1970 era già il portiere dell’Armata Russa. Il mito di Tretiak «la montagna» divenne di pubblico dominio nel 1972 in occasione della Summit Series: mentre Valerij Charlamov ipnotizzava la difesa canadese, Tretiak si è dimostrato un muro quasi invalicabile. Per Vladislav fu anche una sorta di rivincita personale in quanto era stato accolto con parole derisorie dal Team di casa e dai suoi supporter per via di una storia che aveva preso a circolare alcuni mesi prima dell’inizio dell’evento, ossia che nella terzultima giornata di campionato il portiere dell’Armata russa aveva incassato otto goal. Nessuno si era curato di approfondire come il campionato fosse già al sicuro nelle tasche del CSKA, che Tretiak si era sposato la sera prima della partita e che l’intera squadra aveva fatto baldoria insieme al loro numero 20.
A deporre a favore dell’essenzialità di Tretiak sono una serie di riconoscimenti personali come l’essere stato eletto per 14 volte consecutive All-Star del Campionato Nazionale, per 5 volte Miglior Giocatore Sovietico, così come allusive sono i 3 Golden Hockey Stick ricevuti come miglior giocatore Europeo. I numeri sono dalla sua parte ed indiscutibilmente significativi sono i 13 titoli Nazionali con la maglia del CSKA, i 10 Campionati Mondiali, il trionfo alla NHL Challenge Cup nel 1979, la Canada Cup afferrata nel 1981, le tre medaglie d’oro vinte ai Giochi Olimpici di Sapporo nel 1972, di Innsbruck nel 1976 e di Sarajevo 1984; ma forse ancor di più il mancato oro di Lake Placid nel 1980, quando il maledetto miracolo fu determinato, prima ancora che dall’egregia performance del Team statunitense, dalla scelta sconsiderata da parte del mai digerito Viktor Tikhonov, di sostituire Tretiak con Vladimir Myshkin. L’ennesima presa di posizione a muso duro dell’allenatore russo avrebbe non solo accentuato i malumori all’interno di una squadra ormai stanca del sistema dittatoriale che li costringeva ad accettare a capo chino qualsiasi volere proveniente dai gelidi corridoi moscoviti, caricò il povero Myshkin di una responsabilità che si sarebbe rivelata troppo gravosa per un fantastico secondo che mai però avrebbe potuto essere un numero uno, non quando davanti alla porta avrebbe potuto esserci Vladislav Tretiak.
Negli anni ’80, la dirigenza dei Montreal Canadiens cercò di ingaggiare Vladislav Tretiak, ma il regime comunista bloccò ogni trattativa. E fu così che il più grande portiere di tutti i tempi finì c 287esima e ultima partita in carriera con la maglia CCCP durante la Izvestia Cup, nel 1984, senza aver potuto giocare nel massimo campionato nordamericano. In Canada Vladislav Tretiak ci sarebbe comunque finito nel 1989, seppur non in porta, ma diventando il primo giocatore russo ad entrare nella Hockey All of Fame di Toronto. Un riconoscimento che appare ancora più importante se si considera che il museo canadese è, sostanzialmente, dedicato ai fuoriclasse della NHL.
Il contributo all’hockey che quell’uomo taciturno, ma che quando parlava sapeva imporsi come pochi, non si esaurì nemmeno negli anni ’90: ingaggiato dai Chicago Blackhawks come allenatore dei portieri, fu capace di forgiare Goaltender quali Ed Belfour, Dominik Hašek e Jocelyn Thibault. Tornato in patria, in occasione dei Giochi Olimpici Invernali di Nagano nel 1998 e di Salt Lake City nel 2002 Vladislav venne assunto come membro del coaching staff della Nazionale Russa che vinse rispettivamente un argento e un bronzo.
Freddo e calcolatore in porta, ha confidato di aver avvertito un leggero tremore alle gambe quando nel 1978 il Governo Sovietico lo decorò con l’Ordine di Lenin. Senza ombra di dubbio il suo cuore è stato vittima di un vero e proprio terremoto quando ha conosciuto Tatiana, diventata sua moglie nell’agosto del 1972 nemmeno un mese dopo dal fatidico incontro. Insegnante di letteratura russa, Tatiana è stata più volte definita da Tretiak «Il punto fermo della mia vita»; insieme ai figli Dmitri ed Irina, naturalmente. Così come è forse stata una conseguenza naturale l’essere stato designato come l’ultimo tedoforo, insieme all’ex pattinatrice artistica su ghiaccio Irina Rodnina, durante la cerimonia di apertura dei XXII Giochi Olimpici Invernali di Sochi 2014. Una scelta simbolica, l’ennesimo tributo nei confronti di un immortale che si è meritato un posto d’onore nell’Olimpo.