Maestri, Episodio V: Dino Buzzati.
Atto quinto di Maestri, la rubrica più letteraria e impermeabile allo Zeitgeist del giornalismo sportivo nazionale. Oggi vi proponiamo un estratto di uno dei più grandi scrittori novecenteschi italiani, quel Dino Buzzati che con la sua prosa è riuscito a scavalcare l’obbligo dell’impegno politico, lasciando un segno indelebile sulla letteratura del XX secolo. Anche in questo capitolo, intitolato I misteri del Golf e tratto dal libro “Il Golf” (edizioni Henry Beyle), Buzzati spinge sulle emozioni, sul lato sensoriale e intellettuale – che poi sono la stessa cosa -, sulle esperienze originarie dell’uomo sapientemente e dolcemente rievocate: ecco allora una rilettura profonda del golf che disgrega il pregiudizio dello “snobbismo” per associarlo invece all’humanitas stessa dell’uomo, al suo lato più antico che è anche il più autentico e che fa un tutt’uno con la natura, consapevolezza che gli stracittadini hanno sepolto ormai da tempo.
A voi Buzzati, che anche in un racconto sul golf è capace di trasferire con immagini e stati d’animo la parte più dolce della nostalgia, quel «dolore causato dalla vicinanza del lontano» che, ogni tanto, ci fa fermare a riflettere e a sentire.
I MISTERI DEL GOLF
Altro che snobismo. Nulla, assolutamente nulla è più lontano dalla mente dei veri golfisti quanto le fatue vanità mondane. Può darsi che di tanto in tanto capiti sul campo qualche vero snob, maschio o femmina, che in cuor suo del golf se ne frega altamente, ma ritiene opportuno, per chi sa quale suo prestigio sociale, mantenere periodici contatti con il nobile gioco. Costoro alle volte compaiono, ma per rari e brevissimi assaggi; le stesse magre figure a cui si espongono li sconsigliano a ritornare più spesso. State pure certi che non insisteranno.
Il loro animo è sordo agli incanti del golf, per cui non si spenderanno mai sufficienti elogi.
Essi non sanno godere la pura fanciullesca gioia di vedere la propria pallina guizzar via come rondine, in un bel mattino d’estate, fra le austere cortine dei boschi risonanti di uccelli, e sparire lontano entro il limpido cielo; e di sapere che adesso è là che ci aspetta, duecento metri più avanti, appollaiata sopra un ciuffetto d’erba, tutta soddisfatta di avere terrorizzato un ramarro che stava assopendosi al sole.
Il gusto di lanciare più o meno lungo e diritto la pallina, di impiegare quattro colpi anziché otto a fare una buca, non basta assolutamente a spiegare il profondo fascino di questo gioco, la sua riconosciuta bellezza e complessiva nobiltà. Ci deve essere un elemento nascosto ad alimentare il suo inesauribile interesse, un motivo fondo ed umano che rende intelligente e degno ciò che a prima vista potrebbe sembrare un trastullo da perditempo, un motivo di cui i giocatori in genere non si rendono conto, pur subendone il potente influsso.
E il motivo è questo: il golf (come in diversi ambienti altri sport quali l’alpinismo, lo sci, la vela, la canoa fluviale, la caccia e la pesca) permette un diretto e intimo contatto con la natura.
La gente che vive in città, a lungo andare, ha finito per dimenticare che cosa sia veramente un prato, un bosco, un cespuglio selvatico; non sa più quale sia il silenzio della campagna, la sua vita segreta, le sue mille misteriose voci. Fra uomo e natura si è creato un profondo distacco che una distratta passeggiata domenicale in un parco non basta certo a colmare. Ora il golfista, inoltrandosi negli agresti meandri del campo, incontra e ricomincia ad amare tutte quelle cose dimenticate. Ed è proprio la pallina, senza che lui se ne accorga, intermediaria di questo ritrovamento. Attraverso le vicissitudini della piccola sfera bianca, così strettamente legate alla nostra vanità sportiva, ci si rivela lentamente l’intimo poetico mondo della campagna, miniera da tanti anni abbandonata.
La specie dell’erba, se più o meno ruvida o irsuta o secca, la pendenza del prato dove bisogna mettersi in posizione, il ramo d’albero che ostacola il prossimo tiro, lo sterpo secco che bisogna tener sollevato per poter dare il colpo, l’acqua del ruscello dove è scomparsa la pallina, le foglie morte, i muschi, le macerie vegetali del sottobosco che l’occhio perlustra pazientemente per ritrovare il bianco proiettile uscito di pista, le infossature dei banchi di sabbia, il vento che devia la traiettoria, il sole che stampa qua e là ombre irritanti, la improvvisa pioggia, la nuvola che ci passa sopra:
tutti questi elementi da cui dipende la bontà del punteggio e che per un cittadino non hanno di solito il minimo interesse, assumono improvvisamente una smisurata importanza. Tra loro e noi si stabiliscono a volta a volta rapporti di alleanza o inimicizia.
E così, sia pure involontariamente, si ritorna un po’ nel cuore della verde natura, madre nostra, si ritrovano le fresche sensazioni di quando eravamo bambini e un angolo di prato, un albero, un fiumiciattolo erano i romanzeschi compagni delle nostre favolose avventure. Un giorno lontano, a chi ci parlava di golf, anche noi, miserabili bruchi, rispondevamo ridacchiando. Si viveva nell’incosciente banalità dei luoghi comuni: il golf è un gioco di vecchietti, il golf è un pretesto snobistico per fare una passeggiata, meglio il popolaresco gioco denominato «la lippa». E così passavano, sprecati, i più begli anni della vita.
Ma il caso un giorno portò l’ignaro entro i confini di un campo da golf. Egli era andato unicamente per accompagnare un amico, da poco tempo redento. Alla piazzuola di partenza della prima buca (si chiamano buche in senso lato le 18 o 9 piste erbose in cui è diviso il percorso), alla prima piazzuola di partenza l’amico, com’è di regola, infilò nel terreno un affarino simile a un grosso chiodo (detto tee) e vi depose sopra la palla, la quale, così rialzata dal suolo, offre più facile bersaglio. Impugnò quindi il legno numero 1 (uno di quegli strani arnesi che avevamo sempre osservato con diffidenza nelle vetrine dei negozi di sport), lo roteò lentamente sopra la testa, quindi lo sferrò con impeto in basso, ma urtò malamente la terra: appena sfiorata, la pallina schizzò di traverso, scomparendo nell’intrico del bosco.
Echeggiò una risata: il ragazzo portabastoni, avvezzo al galateo golfistico, alzò gli occhi indignato: l’ignorante, che per comodità chiameremo Giovanni, sghignazzava senza ritegno, senza neppur lontanamente immaginare che tale villania per anni e anni gli avrebbe poi consumato il cuore di rimorso e vergogna.
L’amico era un novizio, convinto della bellezza del gioco ma purtroppo incapace di dimostrarla praticamente. Su dieci colpi, sette spedivano la pallina a rotolare nel bosco, o nei fossi, o nelle apposite infossature sabbiose che gli inglesi chiamano bunkers. Giovanni ben presto si stancò di osservarlo e sulla terza buca, tanto per fare qualcosa, si fece prestare una mazza (ce ne sono nove con la testa in ferro, di numero crescente quanto più curva deve riuscire la traiettoria, tre in legno per i colpi più lunghi, e il cosiddetto putter per spingere la palla, sulle levigate piazzuole d’arrivo, a infilarsi nella buca propriamente detta: un foro rotondo nell’erba largo 10 centimetri).
Si fece prestare una mazza, si informò in che modo pressappoco la si dovesse impugnare, l’alzò in aria, l’abbassò con impeto, la infisse per una buona spanna nel terreno, sollevando una gigantesca zolla, mentre la pallina, mossa soltanto dal tremendo spostamento d’aria, procedeva in avanti per mezzo metro. L’amico, che aveva cuore umano, non rise. Vivaddio, Giovanni non poteva metterla via così. Provò un secondo colpo, con l’avvertenza di non abbassarsi troppo e con il risultato di non sfiorare neppure la palla. Ne provò un terzo, un quarto, invano. Finalmente, al quinto, per uno di quei miracoli che il misericordioso dio del golf elargisce anche ai paria, la paletta della mazza battè in pieno la pallina, si udì un piacevolissimo «tac!» di timbro metallico e la bianca sfera schizzò in avanti fischiando, in modo da percorrere almeno 130 metri.
Da “Il golf” (edizioni Henry Beyle), di Dino Buzzati.