“Si tratta di un indovinello, avvolto in un mistero all’interno di un enigma”. E’ la reazione a caldo di Winston Churchill in merito all’annessione della Polonia da parte dell’Unione Sovietica. Quel castello di carta costruito sulla manipolazione e lo spionaggio aveva già iniziato a prendere forma, e il mondo occidentale ne avrebbe potuta carpire solamente la facciata. Il mosaico etnico dell’URSS si rifletteva, ovviamente, anche all’interno del KGB, il cuore pulsante proprio di quell’arduo dilemma politico. In particolare, l’enclave azera era guidata da Heydar Aliyev, la sintesi personificata dell’Azerbaijan. Una nazione sempre più vicina alla Turchia che al Medio Oriente, riluttante e austera verso il mondo arabo, ma soprattutto distante tanto dall’Europa quanto dalla Russia.
Eppure, l’unica spiegazione al fatto che l’Azerbaijan era ed è il maggior partner economico proprio di queste compagini è riconducibile ad Aliyev. L’ascesa di un uomo partito dal villaggio del Nakhichevan che ha seguito di pari passo il corso del calcio locale, indissolubilmente legato alla capitale Baku. Come spesso capitava ai tempi sovietici, il primato sportivo a livello di club apparteneva al Neftci, la squadra del già potente ministero energetico petrolifero, le cui fortune videro la luce a partire dagli anni ’60, quando Heydar Aliyev divenne Segretario della RSS Azerbaijan.
Il campionato sovietico, perennemente dominato dalle moscovite, accolse d’improvviso i bianconeri che ottennero, nel 1966, uno storico terzo posto ai danni della Dinamo di Lev Yashin. Da quel momento il pallone cerchiato con la petroliera si affermò come presenza fissa fra le posizioni importanti del torneo, sotto l’egida del bomber Javadov. Persino il Politburo di Mosca, nella persona di Leonid Breznev, sembrava non disdegnare i cugini abbronzati del Mar Caspio. Ne è una prova la promozione di Aliyev come Vice-Primo Ministro dell’Unione Sovietica, l’unica volta di un musulmano al Cremlino. Come anticipato, politica e pallone attorno al Patto di Varsavia hanno camminato su binari paralleli, e cambiando il capo stazione il tragitto dell’intera carovana è cambiato drasticamente.
Con Gorbacev al potere, per Aliyev e il suo Neftci giungono momenti bui: è l’era di Chernobyl e del crollo del Muro, un panorama generale capovolto. Lo spartiacque della “Terra del Fuoco” si trova in concomitanza con questi eventi e il successivo crollo dell’URSS, poiché a prendere le redini dell’Azerbaijan indipendente ci sarebbe potuto essere soltanto lui, Heydar Aliyev. Cessata l’Unione, le vecchie ostilità di carattere centenario con l’Armenia scoprirono il velo, rivelando il conflitto del Nagorno Karabakh, scontro bellico in cui gli armeni ebbero la meglio nel controllo della zona, scatenando una proto guerra civile nel resto del Paese. Un’occasione d’oro per Heydar, al quale bastarono una tregua e tante trivelle ai vicini cristiani per salire al governo.
Dal terzo Millennio, ad Aliyev sono stati dedicati: un centro culturale, un aeroporto, una moschea, un monte e persino uno stabilimento di acque profonde, solamente nella città di Baku. Il motivo sta nella modernizzazione efferata che il suo establishment ha perpetrato proprio nella capitale, tra costruzioni avveniristiche come le celebri Flame Towers. Baku è stata assalita dal libero mercato e dai potenti magnati russi. Un lungomare gremito di yacht che affacciano direttamente sul circuito targato Formula 1 definisce la nuova linea del Paese, dove ormai la cultura islamica va pian piano emarginandosi. Persino i templi zoroastriani si sono trasformati in una remota meta turistica, la stragrande maggioranza dei visitatori si riversa nella zona di Nizami street, la via Montenapoleone dell’Eurasia.
Baku sembra non rientrare minimamente nell’immaginario collettivo occidentale, e soltanto la scorsa finale di Europa League ha portato alla ribalta virale l’Azerbaijan intero, ma per due motivi ben contrapposti fra loro. La bellezza strutturale dello stadio Olimpico Nazionale ha colpito ogni singolo spettatore durante quell’Arsenal-Chelsea con colori e forme slanciate, eppure una volta spostatasi la telecamera all’interno dell’impianto, il gelo. Spalti semivuoti e un silenzio incombente per l’intera gara, tanto per questioni geografiche quanto per l’incompatibilità del luogo con il livello della kermesse. Difatti, visitare la struttura è praticamente impossibile data la stretta sorveglianza, nonostante sulla carta sia la dimora ufficiale del Qarabag.
Presenza fissa in Europa League da qualche tempo, nonché avversaria anche dell’Inter nel 2014, la compagine sarebbe originaria proprio del Nagorno, e quindi tifata anche da una certa minoranza armena. L’unica ragione plausibile alla totale assenza di qualsivoglia riferimento al club tra le strade di Baku, siano vessilli o magliette, come se si cercasse di nascondere la presenza forzata di un ospite malvoluto. Ancor più curioso è il trattamento riservato al Neftci, i cui unici stralci si trovano nei dintorni della fatiscente Bakcell Arena. A detta degli azeri, i “Petrolieri”, guidati in panchina dal nostro Roberto Bordin, costituirebbero una tifoseria paragonabile alle turche. Difficile sia da credere sia da costatare, soprattutto dato il controllo poliziesco che la popolazione subisce nella vita quotidiana e peculiarmente sui media.
Una gestione statale normalizzatasi col passare del tempo, ma che dall’esterno è rilevabile con poche e sparute pubblicità al di fuori della Socar, la potentissima compagnia petrolifera in possesso di chilometrici oleodotti che dominano la campagna azera. Il sommario dell’Azerbaijan non è però intuibile né dai celebri tappeti né dalle risorse energetiche, bensì in un cognome, quello dell’attuale Capo di Stato. Heydar è morto nel 2003, lasciando il mandato dopo 10 anni; per la fredda cronaca, a oggi l’attuale Presidente si chiama Ilham, di cognome Aliyev. Come il Kazakistan, Turkmenistan e altri Paesi post sovietici, anche l’Azerbaijan si è illuso di aver conosciuto la democrazia.
Le ultime due foto presenti all’interno dell’articolo sono a cura dell’autore Alberto Maresca, che ringraziamo.