Concentrarsi sul singolo fatto per non mettere in discussione un sistema marcio.
“Perché abbiamo lasciato il pallone in mano agli ultrà/…/quando basterebbe un decreto per scioglierli tutti? La prima e l’ultima frase del corsivo di Gramellini sul Corriere della sera saldano a perfezione e danno in maniera limpida, limpidissima, la misura del disagio del nostro giornalismo nell’affrontare un problema come quello della violenza “negli stadi”, riassumibile nella frase standard che più standard non si può: questi sono violenti non sono tifosi. Una frase pronta a tornare a galla puntualmente in ogni occasione, come la famosa citazione di Churchill sulla democrazia… e sentita poco fa ripetere -chissà come ne sarà contento Gramellini- dallo stesso ministro dell’Interno Salvini.
Indicare le frange estremiste del tifo come uniche responsabili dei misfatti del nostro calcio, significa assolvere tutti gli altri, significa dimenticare le responsabilità di chi (federazione, lega, politica, le stesse società calcistiche che ben conoscono i loro tifosi) in questa situazione ci ha precipitato negli anni rivendicando la famigerata “autonomia dello sport”, di chi ha creduto, con disarmante pressapochismo, che bastasse introdurre il DASPO per risolvere i problemi che assediano da decenni il nostro sport più popolare; significa far finta di credere che i guai degli stadi siano risolvibili dentro gli stadi e possano risolversi con un qualche decreto legislativo, significa assolvere le nostre istituzioni.
Istituzioni conservatrici nel senso più affaristico della parola, che invece di riformare -prendendo per esempio a modello il sistema tedesco (il più pulito, il più serio, il più protetto e il più “sano” tra quelli europei)- si sono preoccupate di salvaguardare i propri interessi spesso con guerre intestine badando solo alla parte repressiva, secondo un pensiero tristemente ottocentesco; significa ignorare pervicacemente tutte le crisi e i commissariamenti che pure attanagliano da sempre il settore; significa soprassedere sui tanti rinvii, sui bilanci, sulle retrocessioni a tavolino, sui punti di penalizzazioni che accompagnano regolarmente campionati di B e di C, perennemente in crisi di tutto: di investimenti, di credibilità e di spettatori; significa, in una parola, fregarsene di tutto, salvo poi strillare il solito grido di dolore-stupore quando avviene la tragedia di turno. Come, appunto, successo a Milano.
Nessuno può dire che campanelli…ma che dico campanelli, piuttosto cannonate di allarme non ci siano state: dall’omicidio Raciti a Catania al derby Lazio-Roma del 2004 quando tutti ma proprio tutti (giocatori compresi) s’inginocchiarono al volere dei tifosi sospendendo la partita, fino all’indimenticabile “Genny la carogna” col quale le autorità andarono a trattare all’inizio della finale di Coppa Italia -lui dall’alto della cancellata, loro sotto in giacca a cravatta, spettacolo stupendo- Fiorentina-Napoli, ottenendo in quell’occasione, bontà sua, il permesso di giocare, dopo che un episodio per certi versi simile a quello milanese si era verificato nelle vicinanze dello stadio Olimpico. Spiace molto dirlo, ma con buona pace di Gramellini e dei tanti veri o finti benpensanti come lui, l’esperienza ha ampiamente dimostrato che il calcio italiano è irredimibile, e allo stesso tempo profondamente ipocrita. La frase pronunciata da Gravina, degno successore di Tavecchio alla presidenza della Federazione offre la sintesi perfetta:
“Queste cose non devono succedere più, ma andiamo avanti”.
Fantastico. E viene in mente la battuta di un comico come Abatantuono (comico volontario, lui, al contrario di Gravina): “se vuoi ammazzare tua suocera, fallo allo stadio”.
Cosa deve succedere mai perché tutti i problemi del sistema calcistico italiano siano affrontati dalla parte del buon senso? La domanda è retorica, perché la risposta c’è già: nulla. Perché intorno ai giganteschi interessi economici, con la complicità della politica e di tanto “giornalismo” che anche l’altra sera ha esibito la propria colpevole indifferenza a tutto ciò che succede sugli spalti o fuori degli stadi, si è come costruita una cupola come quella che nel film dei Simpson grava sulla comunità di Springfield, cupola sotto la quale sta anche la giustizia sportiva, sempre in nome della santa “autonomia”. Solo che qui non c’è nulla ma proprio nulla da ridere.
Se il sistema desse segni di ravvedimento, non si vedrebbero capriole verbali, ridicolaggini organizzative e guerre intestine nell’organizzazione sportiva, non si vedrebbero arbitri che nonostante errori su errori, figuracce su figuracce continuano imperterriti ad arbitrare come Mazzoleni, uno che per quel che mi riguarda avrebbe dovuto già essere espulso nel 2008, dopo un Modena-Salernitana rovinata con le sue manine (l’allora centravanti del Modena Sasà Bruno sicuramente se la ricorderà…). Proprio lo stesso Mazzoleni, guarda guarda, che pur ascoltando con le sue orecchie per tutta la partita i fischi razzisti rivolti a Koulibaly, non ha battuto ciglio né ai ripetuti inviti lanciati dall’altoparlante né alle richieste di sospensione dell’allenatore del Napoli Ancelotti, e senza nemmeno consultare il delegato alla sicurezza ha pensato bene di proseguire, alla faccia del tanto riverito, ossequiato, propagandato anche, politicamente corretto.
I fatti ancora da chiarire di Milano (chi era alla guida del Van? Perché non erano nel gruppo di tutti gli altri tifosi? Era un agguato o un appuntamento guerriero?) sono lì a farci toccare, insieme a un’altra morte che ha insanguinato il nostro calcio, l’impotenza (o mancanza di volonta? o incapacità? fate voi) nel mettere ordine, nel riformare un intero sistema che fa acqua da tutte le parti ma che esprime regolarmente la famosa “tolleranza zero” senza rendersi conto di sfondare il muro della ridicolaggine. Un sistema dove un arbitro può sospendere una partita per condizioni meteo ma non per quelle -magari anche più pericolose- umane, dove il degrado è arrivato da tempo a livelli che dire allarmanti è dire poco.
Un sistema da sempre adiacente alla politica ma che ora, di fronte alle intenzioni espresse da un Giorgetti, pretenderebbe di rivendicare la solita “autonomia”; un sistema per il quale il presidente del consiglio Conte – lo ha appena ventilato nella conferenza stampa di fine anno – non disdegnerebbe una pausa di riflessione; “ci penseranno gli organismi competenti”, ha aggiunto poi. Ecco, visti i risultati, è proprio questo a preoccupare.
Quarant’anni fa i rossoneri, guidati da Nils Liedholm, conquistarono il decimo scudetto, l’unico della storia milanista vinto con una rosa tutta italiana.