Se la Francia è arrivata fin qui, il merito è anche e soprattutto del 4 basque.
«Fai un paradiso un giorno, in un colpo di genio». Uno scenario sussurrato con ruvido romanticismo in Lo stemma, cronaca illuminatadal papà dei cantautori del Novecento: Georges Brassens. È quello in cui spera fortemente il condottiero dell’armata transalpina nelle notti a matrioska, Didier Deschamps: il paradiso in novanta minuti, il 15 luglio, Stadio Luzniki, Mosca, da mordere con un colpo di genio.
A separarlo dalla giacobina strategia di cavalcare il mondo è il Belgio della generazione d’oro, con lo spadaccino Martinez pronto a duellare in semifinale. Il Marchese Didier, come il suo alter ego storico, Gibert du Motier La Fayette – che fu il propulsore della Rivoluzione Americana e della Rivoluzione Francese –, è pronto a ghigliottinare i nemici servendosi di un trio di gendarmi in grado di rimandare in fiamme la Bastiglia: Mpappè, Griezmann, Pogba.
Tutta la Russia smania per farsi conquistare epicamente: non ci riuscì Napoleone, fu troppo arduo il generale avverso. Oggi possiamo dire, a piene mani, che Deschamps può conquistarla, tra l’altro con il benestare dello zar, Vladimir Putin. Se le sue ottime chance di portare sotto l’Arco di Trionfo l’opera di Gazzaniga diventassero realtà, egli diverrebbe – tra le poltrone da caffè letterario del calciofilo più fine – il Marchese La Fayette del pallone conficcato nella Tour Eiffel.
Didier è un autentico totem dentro il tirchio l’almanacco forgiato da Platini e Zidane. È stato l’unico capitano ad aver sollevato la Coppa dei Campioni tra le file di una squadra francese: il Marsiglia, 26 maggio 1993, Olympiastadion, Monaco di Baviera, contro il Milan degli invincibili di Fabio Capello.
È stato l’ultimo capitano della storia dei galletti bleu a sollevare la Coppa del Mondo e la Coppa d’Europa in serate melodrammatiche e goderecce: 12 luglio 1998, Stade de France, Parigi, contro il Brasile del fenomeno, Ronaldo; 2 luglio 2000, Feijenoord Stadion, Rotterdam, contro l’Italia dai grandi attributi di Dino Zoff.
È stato l’ultimo allenatore a portare un’equipe francese in finale di Champions League: il Monaco, 26 maggio 2004, Veltis-Arena, Gelsenkirchen, contro il Porto di José Mourinho. E poi una carriera costellata di successi nazionali e internazionali, con Marsiglia e Juve – in campo e in panchina – e a domicilio di Elisabetta, al Chelsea, al culmine della sua carriera da tuttocampista.
Mediano di marmo, frangiflutti davanti la difesa, che suonava con piedi d’ottone e infondeva enorme carica ai suoi compagni: un profilo di alacre lotta, all’italiana, con arguzia degna di Napoleone III. È stato il recupera-palloni della Juve lippiana padrone di tutto. È stato il gregario dai polpacci famelici che portava la borraccia a Zinedine Zidane, azione sistematica ripetuta per stringere forte tra le braccia il mondo del football, sedotto in casa.
Con la bandiera blu-bianco-rossa ha combattuto 103 battaglie, siglando 6 reti. Il suo carisma da uomo-squadra non poteva che portarlo a guidare l’intera nazione verso un’altra impresa spaccacuore: sono troppo pochi un Mondiale e due Europei nella bacheca eretta dianzi la Gioconda: ai tifosi d’Oltralpe serve un nuovo orgasmo. Deschamps ha cominciato un progetto di costruzione di gruppo granitico in Brasile, nel 2014, portando una nazionale giovane e gonfia di talento ai quarti di finale. Due anni dopo, nel festoso Europeo francese, il gruppo di freschezza calcistica e stoici veterani (privo di Benzema e Ribery) esegue una cavalcata entusiasmante: la Francia torna in finale dopo 16 lunghissime primavere. L’epilogo è beffardo: vince il Portogallo senza CR7, ai supplementari, all’ultimo respiro.
Quella sconfitta è stata il secondo passo verso il compimento di una vittoria più grande. La France è pronta: matura, assetata di sacrificio, fortissima. I galletti d’oggi sono lo specchio del loro Marchese: tosti, difensivamente scaltri, pronti a colpire in ogni momento a fari accesi e spenti, agendo di manovra o di contropiede. Il pragmatismo di Deschamps è razionalità acuta, cura dei dettagli, stoicismo romano sul tappeto verde. Il suo mantra, che riecheggia continuamente nello spogliatoio amico, è stato introiettato durante il Mondiale russo da tutta la spedizione: organizzazione di gioco, con anima per i compagni e la propria gente; professionalità dentro e fuori dalle contese; non mollare mai nelle avversità di un match, uscendo alla distanza con tempra alla Charles de Gaulle.
Intanto il Marchese La Fayette, da qualsiasi dimensione si trovi, gusterà uno chateau Petrus osservando quella che ha tutta l’aria di essere la finale anticipata del torneo scritto da Dostoevskij: Francia-Belgio, San Pietroburgo, ennesima notte bianca, quella tanto desiderata da Brassens. Ma Jacques Brel, da buon tifoso dei rossi, non è d’accordo, spera che Deschamps venga congedato come un partigiano qualunque, lasciando il testimone a Zidane e determinando il popolo belga a un passo dalla gloria assoluta. Diavoli e bleu, storie di barche, che dopo tante delusioni, afferrano la rotta della navigazione suprema:
Conosco delle barche
che non hanno mai smesso di uscire una volta ancora,
ogni giorno della loro vita
e che non hanno paura a volte di lanciarsi
fianco a fianco in avanti a rischio di affondare.
Conosco delle barche
che tornano in porto lacerate dappertutto,
ma più coraggiose e più forti.
Conosco delle barche straboccanti di sole
perché hanno condiviso anni meravigliosi.
Conosco delle barche
che tornano sempre quando hanno navigato.
Fino al loro ultimo giorno,
e sono pronte a spiegare le loro ali di giganti
perché hanno un cuore a misura di oceano.
Conosco delle barche, Jacques Brel
Foto copertina by Alexander Hassenstein/Getty Images.