Quarant’anni fa i rossoneri, guidati da Nils Liedholm, conquistarono il decimo scudetto, l’unico della storia milanista vinto con una rosa tutta italiana.
Arrivò alla fine degli anni ’70 l’agognato decimo scudetto, sfumato per ben tre volte all’inizio di quel decennio. Con il titolo conquistato il 6 maggio 1979, il Milan raggiunse Juventus e Inter, già stellate da tempo. Anzi, tre anni dopo la Vecchia Signora avrebbe cucito sulle sue maglie anche la seconda stella del ventesimo tricolore. Alla guida del Milan 1978/79 c’era lo svedese Nils Liedholm, il presidente era Felice Colombo, l’imprenditore brianzolo subentrato a Vittorio Duina due anni prima. La stagione precedente, il Barone creò i presupposti per la conquista dello scudetto, rilanciando i rossoneri dopo gli stenti del campionato ‘76/77 dove l’ultimo diavolo guidato dal Paron Rocco si era salvato solo alla fine del campionato, battendo il Cesena grazie ad una doppietta di Rivera. Liedholm plasmò la squadra, esaltando le caratteristiche dei giocatori che la società – con mezzi economici limitati – gli aveva messo a disposizione.
Il capolavoro tattico dello svedese fu la fase offensiva, impostata su un solo attaccante effettivo di ruolo – Stefano Chiodi, ex giocatore del Bologna – e puntando sugli inserimenti in avanti del terzino sinistro Aldo Maldera e del centrocampista offensivo Albertino Bigon. Quel Milan, nell’arco del campionato, dovette spesso rinunciare a Gianni Rivera, la cui ultima annata da calciatore registrò soltanto 13 presenze su 30 partite. L’unico gol del Pallone d’oro ’69 arrivò nella partita di San Siro contro il Verona, alla quart’ultima giornata: una rete che ristabilì la parità in un incontro complicato dal gol dell’ex Calloni e infine risolto nel finale da un colpo di testa di Walter Alfredo Novellino. Fu l’ultimo snodo prima del rettilineo d’arrivo. La maglia numero 10 in quel campionato finì spesso sulle spalle di Ruben Buriani, sette polmoni, corridore instancabile, soprattutto sulla fascia destra, con un’elevata capacità di produrre cross invitanti in area avversaria.
“Mai vista correre così tanto la maglia numero 10 rossonera”
ricordò Liedholm per evidenziare le capacità atletiche del biondo giocatore originario della provincia ferrarese.
In difesa, il tecnico svedese ebbe il grande merito di promuovere titolare Franco Baresi, giovanotto che aveva fatto esordire in A, non ancora diciottenne, il 23 aprile ’78. Il ragazzo di Travagliato, scartato dall’Inter dopo un provino ed approdato al Milan grazie all’insistenza di Guido Settembrino, mostrò subito grandi qualità, carattere, determinazione ed un talento in dosi molto elevate. A Roma, dopo un sombrero su Pruzzo, tutto l’Olimpico applaudì a scena aperta quel ragazzo dalla faccia seria. La linea arretrata comprendeva anche il friulano Fulvio Collovati, prodotto del vivaio milanista, un difensore di grandi qualità già nel giro della nazionale maggiore di Enzo Bearzot. Liedholm puntò anche sullo stagionato Aldo Bet, impiegato nel ruolo di stopper, mentre tra i pali il titolare inamovibile fu Ricky Albertosi che si avviava verso i suoi primi 40 anni, reduce da due ottime stagioni ed escluso dalla lista dei convocati al Mondiale argentino per non turbare la serenità di Zoff.
Al suo dodicesimo, Antonio Rigamonti, l’ex portiere del Cagliari lasciò solo un tempo contro la Fiorentina. A centrocampo, Walter De Vecchi agì sulla linea mediana mostrando buone qualità anche nella conclusione da fuori. Uno dei giocatori più convincenti di quel campionato fu Roberto Antonelli. Il Dustin della Brianza si distinse in zona gol, dando un apporto notevole in termini di fantasia e dinamismo e rivelandosi elemento di grande importanza nelle strategie tattiche dell’allenatore svedese. Il difensore Simone Boldini si fece trovare pronto nelle circostanze in cui venne chiamato in campo. Le altre alternative furono i giovani Alberto Minoia (difensore) e Giovanni Sartori (attaccante), non tralasciando i veterani Giorgio Morini e Fabio Capello, due giocatori ormai a fine carriera ma che seppero dare un discreto contributo in quel campionato.
La corsa scudetto partì ad inizio ottobre ‘78. Il calendario propose il battesimo in serie A dell’Avellino proprio contro il Milan. I rossoneri sudarono le proverbiali sette camicie per piegare la squadra di Rino Marchesi, battuta soltanto da una fortuita deviazione di stinco da parte di Buriani ad una manciata di minuti dal termine. Più netta fu la vittoria contro la Roma, strapazzata a domicilio (3-0) dalle reti di Maldera e una doppietta su rigore di Chiodi.
Un’altra matricola, l’Ascoli, riuscì nell’impresa sfiorata dagli irpini, bloccando sullo 0-0 il diavolo a San Siro. Dopo due vittorie nette contro Atalanta e Fiorentina, la prima sconfitta arrivò sul campo della Juventus. Fu la partita del fallaccio di Tardelli su Rivera dopo 3 secondi di gioco. Il gol decisivo lo siglò Bettega nei minuti iniziali, lesto nell’anticipare Bet e battere Albertosi. Non mancarono le polemiche. “La Juve ha trasformato la gara in corrida, se noi avessimo risposto ci sarebbe scappato il morto”, tuonò Rivera. Dalle colonne del quotidiano torinese La Stampa gli rispose il giornalista e scrittore Giovanni Arpino.
“Accusare la Juventus di gioco intimidatorio, di caccia all’uomo, – scrisse l’autore di Azzurro Tenebra – è un atto di per sé inqualificabile, denuncia i limiti di un uomo che non sa trattenere la lingua”.
In quella domenica d’inizio novembre, il Perugia balzò solitario al comando della classifica. Il grifo umbro aveva già sorpreso tutti qualche settimana prima, battendo la Juve a domicilio. La forza della squadra umbra, che addomesticava le imprese impossibili con una grande determinazione, fu il feeling perfetto tra il presidente Franco D’Attoma, l’allenatore Ilario Castagner e il direttore sportivo Silvano Ramaccioni. Quel Perugia passerà alla storia del calcio italiano come la provinciale capace di chiudere imbattuta il campionato ma senza ottenere il sigillo imperituro dello scudetto che avrebbe anticipato di sei anni l’impresa del Verona di Osvaldo Bagnoli.
Nel derby d’andata arrivò il riscatto rossonero grazie ad un colpo di testa di Aldo Maldera. Fu vittoria anche in trasferta contro il Lanerossi Vicenza mentre la partita del San Paolo di Napoli finì in parità come l’inedito scontro al vertice contro il Perugia, capace di passare in vantaggio con Vannini, dopo tre giri d’orologio, e raggiunto a metà ripresa da un guizzo di Antonelli. Torino, Inter e Juventus rimasero vicine alle due di testa, mancando alcune occasioni per l’aggancio. Tra dicembre e gennaio, i rossoneri piazzarono una decisa accelerazione. Superato il Toro di misura, il diavolo rifilò tre gol al Verona e quattro al Catanzaro per poi conquistare il titolo d’inverno a Bologna, in una partita decisa dal solito Maldera.
Il girone di ritorno si aprì con lo scivolone di Avellino: la strada verso il titolo era lastricata di pericoli improvvisi. Il vantaggio dei rossoneri sulla seconda salì a quattro lunghezze (la vittoria allora valeva 2 punti, nda). Il Perugia ebbe il torto di non approfittare di alcuni passi falsi del Milan, bloccato in casa sul pari dalla modesta Atalanta di Titta Rota. Il 20 febbraio ’79 fu il giorno del decesso di Nereo Rocco: il Paron non riuscì a vedere i rossoneri fregiarsi di quella stella che il tecnico triestino aveva più volte mancato d’un soffio all’inizio di quel decennio. Marzo fu il mese fondamentale per lo scudetto. Alla sofferta vittoria di Firenze, propiziata dalle grandi parate di Albertosi, seguì lo 0-0 contro la Juve, bloccata dalle strepitose parate del portiere milanista in maglia gialla.
Il derby di ritorno fu un condensato di emozioni e colpi di scena, concentrati tutti nel secondo tempo. Albertosi respinse un rigore di Altobelli, facendo esplodere Enrico Ameri. “Il vecchiaccio ha fatto una cosa eccezionale”, commentò la prima voce radiofonica di Tutto il calcio. I gol di Lele Oriali e dello stesso Altobelli illusero l’Inter. Negli ultimi dieci minuti, dal cilindro milanista uscirono due sventole di De Vecchi, l’avvocato del diavolo che vinse una causa che sembrava ormai persa, come disse Beppe Viola, consentendo al Milan di conquistare un punto utile a tenere il Perugia a distanza di sicurezza.
Stanca e incerottata, la squadra di Liedholm sembrò boccheggiare contro Vicenza e Napoli, respinse l’assalto del Perugia, nello scontro diretto in terra umbra, superando l’ostacolo Toro con una vittoria netta. Domenica 22 aprile ’79, quando Egidio Calloni portò in vantaggio gli scaligeri ormai retrocessi, evitando di esultare in segno di rispetto verso i suoi ex tifosi, a San Siro calò il gelo. In tanti rividero le streghe della “Fatal Verona”. In avvio di ripresa, sistemò le cose il preciso diagonale di Rivera, al suo rientro in campo dopo un’assenza di alcuni mesi. Dallo stadio di Catanzaro, dove era di scena il Perugia, giunse la notizia del pari calabrese che riportò i rossoneri da soli al comando.
L’incubo veronese lo scacciò Novellino: Milan 40 punti, Perugia 37. Fu l’allungo decisivo. La vittoria esterna di Catanzaro e il pari casalingo contro il Bologna chiusero i conti. Il 6 maggio ’79, prima del calcio d’inizio della partita tra rossoneri e felsinei, Rivera convinse i tifosi, microfono alla mano, ad abbandonare quella parte di stadio non agibile, dando all’arbitro Menicucci la possibilità di dare inizio alla partita. Fu l’unica emozione in un pomeriggio che, per il resto, riservò novanta minuti soporiferi, con il pari ad accontentare entrambe le squadre. Si compì, così, il capolavoro tattico di Nils Liedholm che pochi giorni dopo ufficializzò il suo passaggio alla Roma di Dino Viola.
Si concluse un’annata che aveva regalato gli ultimi tocchi di classe pura di Gianni Rivera, le grandi parate di Albertosi, i gol di Bigon e Maldera, la spinta di De Vecchi, l’estro di Novellino e il dinamismo di Antonelli, Chiodi “falso nueve” ed infallibile rigorista, l’alta affidabilità di Collovati, la sicurezza di Bet, l’esperienza di Capello e Morini, le sgroppate di Buriani e l’ottimo rendimento del PiscininFranco Baresi. In quell’ultimo campionato degli Anni 70, Liedholm guidò la squadra con grande sapienza, sfruttando al meglio le caratteristiche dei suoi giocatori. S’inventò i suoi uomini gol di volta in volta come cavandoli da un cilindro magico. Il Milan della Stella, con una rosa di diciotto giocatori, trovò sul campo la sua fisionomia tattica originale, centrando un successo che fu frutto della necessità.
In occasione del quarantennale del decimo scudetto rossonero, è uscito in questi giorni il libro di Sergio Taccone “Milan 1979, l’anno della Stella”, edito da Urbone Publishing.