Jonny Wilkinson è uno dei più grandi marcatori della storia del rugby, e la sua storia sportiva è legata a doppio filo con la Coppa del Mondo.
Guglielmo il Conquistatore divenne re d’Inghilterra nel 1066 dopo aver sconfitto l’esercito anglosassone nella battaglia di Hastings. Trattandosi il buon Guglielmo di un normanno abbiamo a che fare quindi con il Crunch più grosso e importante mai portato a casa dai francesi. Ma siccome siamo partiti da molto (troppo, forse) lontano, andiamo al sodo: tra i vari poteri annoverabili dal nuovo re d’Inghilterra, sin dalla sua nascita, figura quello della guarigione dalle scrofole. Abbiamo davanti quindi un re taumaturgo, signore e signori, in grado di guarire, in linea teorica, malattie e ferite infette. In linea teorica, perché poi nulla risulta dal personale score del re alla voce “guarigioni”. Dicono però la taumaturgia fosse ereditaria. E allora ci piace pensare che, nel corso degli anni, qualche parente alla lontana del vecchio normanno sia andato ad abitare nel Surrey, poco distante da Londra. E che questi parenti negli anni ’70 abbiano messo insieme il DNA e il sangue necessari per creare un altro erede in grado di guarire con la sola imposizione delle mani. Saremmo allora in grado di spiegare tante cose successe in questo pazzo mondo ovale negli ultimi 20 anni. Saremmo in grado di capire come nel 2007 una Nazionale spenta, abulica, senza una vera e propria guida sia riuscita ad arrivare ad una finale di Coppa del Mondo contro gli Springboks forse più forti di sempre. E a giocarsela per gran parte di quegli ultimi 80 minuti. Saremmo in grado anche di capire anche come questo nuovo taumaturgo sia riuscito in qualche modo a imporre le mani pure su sé stesso, prima di prendere in mano e per mano i suoi. Forse riusciremmo a capire qualcosa di questo biondino, che di nome fa Jonathan Peter Wilkinson e che nel 2003, a 24 anni, era sul tetto del mondo.
Poi però qualcosa va storto. Più di qualcosa: una spalla, un ematoma al braccio, due volte i legamenti mediali del ginocchio, un attacco di appendicite, un’ernia, ancora una volta i legamenti del ginocchio, un rene, innumerevoli caviglie storte. Mancano giusto le cavallette. No, non è finita qui. Perché insieme a questa serie di infortuni, infortuni che avrebbero abbattuto chiunque, arriva anche la cosa peggiore che possa colpire un uomo nel ventunesimo secolo: Jonny cade in depressione, si avvicendano attacchi d’ansia che colpiscono più duro di un Brian Lima in volo e attimi di sconforto. Ne prende coscienza in tempo utile ed ha il coraggio di ripartire, di farsi aiutare. E poi di tornare a giocare.
Il primo match con la maglia bianca e la rosa sul cuore dopo il Mondiale 2003 è la Calcutta Cup del 2007. 3 anni e mezzo senza incontri internazionali, se escludiamo il tour dei Lions del 2005 (e prima di andare in Nuova Zelanda troverà il tempo di salvare i britannici da una clamorosa sconfitta contro i Pumas). Era tornato a giocare un match in Premiership appena due settimane prima. Segnerà 27 punti, con tanto di meta in bandierina. Sette giorni dopo batterà quasi da solo una grande Italia, segnate altri 15 punti. Ma non è una grande Inghilterra, se dobbiamo dirla tutta. E siamo buoni. Scordatevi quella armata di filibustieri meglio conosciuta come Dads’ Army, quella che tra 2002 e 2003 mise a soqquadro il mondo del rugby, soprattutto a sud dell’equatore. Sono rimasti due o tre eroi decorati, c’è ancora Lawrence Dallaglio, ci sono ancora Mike Catt e Josh Lewsey, c’è l’eterno Simon Shaw, ma non è più la stessa cosa.
L’emisfero Sud ha cambiato marcia, Springboks in testa. Nel 2004 questi ultimi cambiano ct. Al posto di Straeuli arriva l’ex allenatore della Nazionale under 21, si chiama Jacob Westerduin, ma il mondo lo conosce con un altro nome, meno boero e più inglese: Jake White. Il nuovo coach, tra le altre cose, comincia ad avvalersi di una eminenza grigia del rugby, uno che il Mondiale l’ha perso nel 2003 da allenatore e che nel 2015 proprio agli Springboks farà uno sgambetto di quelli da ricordare: si chiama Eddie Jones, uno a cui ogni amante del rugby dovrebbe come minimo una birra. Ne viene fuori una generazione di talento, forza fisica e cattiveria agonistica incredibili, irraggiungibili per gli standard dell’emisfero nord. Se ne accorgono subito, gli inglesi, che fanno l’errore di testare alcuni nuovi innesti negli incontri precedenti al Tri Nations. A questo aggiungete del cibo avariato e qualche notte in bagno, fanno 113 punti in due incontri, è un vero massacro. Jonny Wilkinson è in campo entrambe le volte, ma non è cosa. Poi si infortuna alla caviglia e deve saltare i primi due match del girone, che può andar bene se debutti contro gli Stati Uniti, meno se dopo qualche giorno ti ritrovi davanti ancora gli Springboks. Anche perché l’unica vera alternativa a questi livelli in cabina di regia si chiama Charlie Hodgson, ma è a casa infortunato. Le alternative non mancherebbero, ci sarebbe Andy Goode, ma l’opinione pubblica inglese storce il naso. Si punta tantissimo su Olly Barkley, che da ragazzino era un fenomeno e va in cerca di conferme. Contro gli americani è lui il 10 titolare, ma non convince fino in fondo. È diventato infatti nel tempo un primo centro con grandissime mani e grandissimi piedi, ma in cabina di regia non riesce a far fruttare al meglio le grandissime abilità di cui dispone. Finisce con una vittoria, ma non arriva il punto di bonus. Sommate: Barkley si infortuna. Con gli Springboks tocca al veterano Mike Catt. Non va a finire bene: i sudafricani sono ovunque, erodono il terreno, ogni volta che prendono palla sono pericolosi. Gli inglesi non ne vengono fuori, nella ripresa in regia va addirittura Andy Farrell, ma non segnano nemmeno con la matita.
E ora che si fa?
Quattro punti in due partite per i campioni del mondo in carica sono pochi, troppo pochi. I giornali inglesi, che in caso di sconfitta sanno essere molto critici, associano questa Inghilterra a quella del Tour of Hell, quella che nel 1998 uscì dall’emisfero sud con le ossa rotte. Il ct Brian Ashton è subissato di critiche, ma finalmente Jonny è pronto a uscire dall’infermeria. Contro Samoa, in un mondo perfetto, se ne starebbe comodo in panchina, pronto magari a raddrizzare la barca nel finale, in caso stia andando tutto per il peggio. No, numero dieci titolare, in tanti hanno annusato che il XV della Rosa rischia parecchio grosso. Va subito in meta Corry, poi il numero 10 di bianco vestito si presenta: drop in mezzo ai pali, 10 a 0 dopo 6 minuti. Sembra una strada in discesa, ma i samoani stupiscono e fanno le formichine: a ogni infrazione inglese si va in piazzola, i fratelli Tuilagi, il cervello di Mapusua e il piede di Crichton (che a fine carriera passerà anche per l’Aquila) tengono a galla gli isolani. Solo che dall’altra parte Jonny ha preso già confidenza: calcia un grabber che è praticamente uno Swarovski, Paul Sackey raccoglie da terra e porta i suoi sul 23 a 6. Crichton ricuce, poi Schwalger brucia i trequarti inglesi e schiaccia il 26 a 22 ad inizio ripresa. È il momento più duro per gli inglesi, perché questi non si scollano dalla scia. Mancano 10 minuti al termine, ci pensa Jonny: altro drop, altro centro.
Capiamoci, però: questo non è il più grande Wilkinson mai apparso, dalla piazzola sbaglia cose che prima degli infortuni non avrebbe calciato fuori nemmeno da bendato. Però siamo davanti all’uomo giusto al momento giusto: è un leader, prende per mano tutti i suoi e li tira fuori dal baratro. E come fai a non seguire ciecamente uno che a 19 anni è uscito vivo e vegeto da un tour nell’Emisfero Sud, tour che ha stroncato carriere e che avrebbe ammazzato gente ben più navigata? Come fai a non farti guidare da uno così? I samoani si sciolgono, arrivano altre due mete e pratica chiusa. Per la qualificazione bisogna però giocarsi tutto con Tonga, la vera sorpresa del girone: ha battuto Samoa e Stati Uniti e messo in grossa difficoltà gli Springboks, perdendo solamente di 5 punti. Contro gli inglesi partono fortissimo, vanno avanti 10 a 3, poi subiscono 2 mete di Sackey e due calci di Jonny. Pierre Hola segna il calcio del 13 a 19, ma Wilkinson e compagni non sono più quelli dei primi due incontri e la chiudono col bonus.
Si va ai quarti contro l’Australia, segnate 12 punti per il numero 10 in bianco e una prestazione mostruosa della prima linea (per piacere, guardatevi cosa fa Sheridan a Shepherdson e a Baxter nel secondo tempo). Semifinale contro la Francia, e scusate se diciamo che non è mai uno scontro banale. Anche perché Lewsey buggera Traille e segna la meta del vantaggio dopo soli 78 secondi.
I francesi si trovano davanti ad uno Stade de France improvvisamente muto. Dopo aver buttato fuori gli All Blacks tutto sembrava possibile, nonostante i Pumas li avessero spennati al debutto. Poco a poco però i padroni di casa tornano sotto con Beauxis e sorpassano prima della fine del tempo. È una partita dura, poco spettacolare, vincono a mani basse le difese. Beauxis allunga dalla piazzola, adesso è 9 a 5. L’apertura francese prova a più riprese il drop, vuole allungare, sa che portarsi in volata questi inglesi con quel biondino lì, quello che se scalda il piedino accende sono volatili per diabetici, diventa dura. Niente da fare, ne prova tre, nessun centro. Tra gli inglesi a dare la scossa è Jason Robinson, in vero e proprio stato di grazia per tutto il Mondiale, tra i pochi a predicare nel deserto dall’inizio. E poi c’è Jonny: butta dentro due calci nei momenti più duri e riporta avanti i suoi, 11 a 9. Poi al 75′ riceve palla da Richards, biondo come Matt Dawson, prende la mira e spara il drop che assicura la vittoria ai suoi. Come 4 anni prima, ma senza tutta quella bellezza e quella facilità nel percorso. Ma forse per questo ancora più bello nel suo essere all’improvviso costretto all’umanità, tra aliti caldi e nient’affatto angelici e ovali che non filano più lisci come un tempo. È finale, davanti ancora gli Springboks, che hanno dato 37 punti ai meravigliosi Pumas di Loffreda.
Sembra già tutto scritto, ma l’abbiamo detto, è una finale, e allora ci sta che sia una partita diversa sotto tanti aspetti. Gli inglesi non sono più quelli timidi e impacciati di inizio torneo, ma in touche contro Matfield e Bakkies Botha è sofferenza vera. E quello Schalk Burger in terza linea sembra quel mostro che pensavamo si nascondesse nei nostri armadi quando eravamo bambini: grosso, cattivo, tremendamente efficace. Montgomery passa, pareggia Wilkinson, poi ancora Montgomery, due volte. Il Sudafrica ne ha di più, si vede, ha ancora qualche carta da giocarsi, ma all’improvviso Tait recupera un brutto passaggio di Gomarsall a metà campo e si invola. Si mangia 50 metri di campo, si beve tutti, pure Montgomery. Poi appare Matfield, quasi dal nulla. Palla fuori immediata, Cueto riceve in bandierina e schiaccia. Solo che il piede tocca la linea bianca, rimessa sudafricana. Gli Springboks per qualche minuto sbandano, si rendono conto che il Mondiale lo possono anche perdere. Wilkinson centra i pali di nuovo, solo tre punti di ritardo. I bianchi però finiscono la benzina, soprattutto davanti, e allora Montgomery allunga ancora. Poi Frans Steyn dà una spolverata alla catapulta che si trova sotto la caviglia e sigilla la vittoria. Vincono loro, giusto così, le ultime testate inglesi sono i colpi del pugile in difficoltà, i colpi di chi sa già che sta perdendo incontro e lucidità, ma che metti mai che lo prendo bene per una volta.
Non succederà.
La Coppa va ai più forti, com’è giusto che sia.
Gli inglesi, dietro agli sguardi delusi e corrucciati, nascondono una discreta contentezza. Non lo diranno mai, anche perché arrivare secondi brucia sempre e comunque, a tutti i livelli, ma sono quasi sollevati dopo un inizio a dir poco traumatico. Neanche ci speravano alla finale dopo quel 36 a 0 sul groppone. Si sentono come guariti da qualcosa, da qualcuno.
Ma in fondo dicono che la taumaturgia fosse ereditaria. Dicono che l’ultimo regnante ad attribuirsi poteri di guarigione e di taumaturgia al di là della Manica sia stata Anna Stuart, passata ad altra dimensione nel 1714. Dicono che il buon Guglielmo il Conquistatore, vincitore del più grosso Crunch tra Inglesi (Anglosassoni) e Francesi, non avesse mai manifestato questi poteri in terra inglese, ma solo portato ad Hastings e dintorni i lasciti delle sue radici, oltre che a quel che è praticamente la nonna della lingua inglese che conosciamo. Al resto ci penserà un suo omonimo, bardo nativo di Stratfod-upon-Avon, ma questa è un’altra storia.
Ci piace pensare però che, nel corso degli anni, qualche parente alla lontana del vecchio normanno sia andato ad abitare nel Surrey, poco distante da Londra. E che questi parenti negli anni ’70 abbiano messo insieme il DNA e il sangue necessari per creare un altro erede in grado di guarire con la sola imposizione delle mani sé stesso e una Nazionale lontana dai fasti di quattro anni prima.