Recensioni
15 Aprile 2019

Il tifo è una malattia giovanile che dura tutta la vita

Il Pasolino calciofilo, calciatore e amante dello sport più bello del mondo. L'opera di Curcio diventa essenziale nelle nostre biblioteche sportive.

 

Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l’ultima rimastaci.

 

Poeta, scrittore, regista, giornalista. Pensatore in tutta la potenza che questa parola esprime. Definire Pasolini è talmente semplice che ogni volta che ci si prova sembra sempre che manchi qualcosa. Élite intellettuale idealmente lontana da qualsiasi essere umano ma allo stesso tempo fragile, vera. Uomo come ciascuno di noi. L’osservava, l’amava, si sentiva parte di quella massa. A lui interessavano solo loro, o solo lei. La società. Le sue metamorfosi, i suoi vizi ed i capricci. Le esigenze, tacite o esplicite che fossero. La risposta alla motivazione per cui un uomo così profondo dovrebbe appassionarsi ad un gioco così banale, come quello di prendere a calci una palla, trovatela nelle prime righe di questo elogio.

 

 

Quando non sapete come giustificare il vostro comportamento di fronte ad una partita di pallone, non sentitevi in difficoltà. Non capiranno o non vorranno capire, l’affare non vi riguarda.

 

Anzi, se devo dirvela tutta non è neanche colpa loro. Sono stati indottrinati, sono figli di un calcio, pardon pallone, neanche lontano parente di quello polveroso, fisico, umano e cittadino giocato da Pier Paolo durante il liceo, ma anche ogni qual volta ne aveva l’occasione. E se questa non c’era, la si trovava. Era il momento più intimo, dove lasciava che quell’impenetrabilità del suo animo ritornasse liberamente alla fanciullezza. Non importa se si gioca con una palla sgonfia o in mezzo ai rifiuti, perché rimane calcio nella sua essenza primordiale, una sorta di linguaggio universale che permette di comunicare con i piedi e pallone” (cit. p.73).

 

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PPP

 

Leggere questo libro è una continua goduria, un perenne immedesimarsi nelle idee e nelle parole che scorrono di fronte ai propri occhi. Valerio Curcio – che mastica calcio quotidianamente lavorando nella redazione de Il Romanista di cui è anche il responsabile dell’area digitale – dona questo libro a chiunque abbia un minimo interesse per Pasolini. Il gioco del pallone fa soltanto da cornice e viene unicamente utilizzato come motore della narrazione e strumento che permette di entrare ancora più in profondità nella vita di questo personaggio tanto amato e talmente discusso che ancora oggi in molti si sentono dubbiosi quando ne parlano.

 

Il gioco del pallone ha accompagnato la vita di PPP fin dai primi anni. Nato a Bologna, emigrò immediatamente dalla città emiliana. Eppure i colori per i quali tenne tutta la vita furono proprio quelli rossoblù ma, attenzione, non perché ci fosse nato. No, per Pasolini quello dell’appartenenza alla città non era un requisito importante. Non ha importanza, non è determinante dove si è nati, conta quando e dove si sono avuti i primi approcci col calcio, per diventare un appassionato, un tifoso. Il tifo è una malattia giovanile che dura tutta la vita(cit. p.14). Con questo concetto libera metaforicamente, ma neanche troppo, tutti quei ragazzi che si sentono in minoranza sia quando vincono che quando perdono perché vivono in un altro contesto, e non riescono neanche a spiegare il perché di quell’amore così viscerale per una squadra che non dovrebbe appartenergli per una mera questione territoriale.

 

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Pier Paolo e Gianni Morandi prima di una partita a scopo benefico al Dall’Ara di Bologna.

 

 

Pasolini, come noi, amava il calcio nudo in tutta la sua purezza. Era realmente se stesso solo quando si alzava i pantaloni del vestito e si arrotolava le maniche della camicia tra una pausa e l’altra che si concedeva sul set. Non è un libro sul calcio, è un libro sulla vita. A chi ancora ci crede, ancora, ed ha voglia di cambiarlo questo sport. Di farlo tornare a quel bambinesco gioco del pallone senza tutte le sovrastrutture economiche che oggigiorno lo accompagnano. Un calcio malato, privo di emozioni se non quelle regalate dai tifosi, che quotidianamente vengono messi alla gogna attraverso una generalizzazione medievale. Pasolini starebbe dalla loro parte, come sempre.

 

 

Il libro viene diviso per sezioni dall’autore, dal tifoso all’intellettuale passando per il calciatore e giornalista, ed è proprio nella sua vita di cronista per l’Unità che viene esaltata la massa. Un inviato totalmente inusuale, che prediligeva sedere e vivere la partita tra i tifosi, parlare dei loro modi di dire piuttosto che narrare l’evento in sé e si faceva anche condizionare su ciò che avrebbe scritto per il quotidiano da quello che loro, umilmente ma con una capacità artistica quasi fuori dal comune, gli suggerivano (Er morto puzzerà tutta la settimana). Era fortunato, perché si godeva un qualcosa che era di proprietà esclusivamente della gente. Ma già all’epoca aveva visto i primi inizi di un cambiamento e se ne allontanava, li ripudiava.

 

 

Un libro semplicemente articolato e pieno di insegnamenti (meritano la prefazione di Antonio Padellaro e l’intervista a Dacia Maraini) che Valerio Curcio ha saputo riportare fedelmente, non andando a toccare niente ma lasciando andare la sua penna mossa dalla passione. Che accomuna noi e Pier Paolo. Uomo, prima di tutto.

 

 

 

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