Quello che è accaduto sabato primo ottobre durante la partita tra l’Arema FC e il Persebaya Surabaya (i primi di Malang e i secondi, appunto, di Surabaya, città situate entrambe nella Giava orientale), in uno dei match più sentiti dal tifo in Indonesia, è una delle più grandi tragedie che la storia dello sport ricordi: 131 morti e più di 300 feriti, recita il terribile bilancio di questa strage, le cui cause partono da un’invasione di campo di alcuni ultras dell’Arema (più di un migliaio) che al termine del match (3 a 2 per gli storici rivali del Persebaya) hanno iniziato a lanciare oggetti sia contro i giocatori avversari che contro i propri, provocando come ovvia conseguenza il panico generale, sul terreno e sugli spalti.
L’intervento della polizia ha peggiorato le cose: le forze dell’ordine indonesiane hanno iniziato a lanciare gas lacrimogeni (il cui utilizzo è proibito dal regolamento internazionale della FIFA) contro la folla in campo. Molti spettatori sono morti o si sono gravemente feriti nel tentativo di cercare una via di fuga disperata dallo stadio che, anche a causa del sovraffollamento dell’impianto (c’erano in totale 42.000 spettatori quel giorno, con il Kanjuruhan Stadium dell’Arema che ha una capienza di 38.000 posti), si sono ritrovati calpestati e investiti da altre persone, mentre fuori dallo stadio polizia e tifosi continuavano a scontarsi ferocemente.
Le autorità locali conoscevano perfettamente la pericolosità di questo incontro, visto che le violenze tra le due tifoserie erano ormai abitudine nel “Super–derby della Giava orientale”. Per questo, tentando di prevenire gli inevitabili disordini, le forze dell’ordine avevano vietato ai tifosi ospiti di presentarsi a Malang. Ma il divieto è rimasto inascoltato.
Mentre il capo dello stato Joko Widodo ha annunciato la sospensione del campionato e l’inizio di un’indagine approfondita sulla questione, in collaborazione con il ministero dello Sport, il presidente delle Federazione calcistica e il capo della polizia nazionale, qualcosa sulle cause profonde della strage è emerso in questo mese.
Oltre a rimarcare le responsabilità dei poliziotti, come sottolineato anche dal responsabile di Amnesty International per l’Indonesia, Usman Hamid, e di coloro che hanno venduto (senza criterio) i biglietti per il match, i principali responsabili sembrano essere stati “identificati” negli addetti alla sicurezza, colpevoli di non aver sbloccato i cancelli dello stadio in tempo per “favorire” la fuga di massa dei tifosi, che si sarebbero così trovati intrappolati dentro lo stadio.
Questa ricostruzione non è stata però condivisa dalla polizia, secondo cui i cancelli in realtà erano stati aperti subito: a detta loro, erano troppo stretti per far uscire tutti e in fretta. Ad ogni modo, gli addetti alla sicurezza del Kanjurhuan Stadium sono stati licenziati in tronco dalla federazione e banditi a vita dalla loro professione, mentre all’Arema è stato vietato, in attesa di una ripresa del campionato, di giocare nel proprio stadio fino alla fine della stagione.
La violenza è sempre stata presente nel calcio indonesiano, anche prima che il gioco stesso diventasse ufficialmente uno sport professionistico (1993). Torneremo più avanti a parlare della massima serie indonesiana e dei suoi continui problemi organizzativi, perché anch’essi sono una delle cause del disordine in cui versa il calcio locale. Ritornando al nostro problema fondamentale, la violenza negli stadi e fuori, il Paese del sud-est asiatico detiene un primato per nulla invidiabile: l’Indonesia è infatti la nazione con più morti e feriti legati ad eventi calcistici. Le stime sono incerte nel contare il numero totale dei decessi, ma secondo l’organizzazione no-profit del Paese dedicata a questo tipo di indagine “Save our Soccer”, il numero delle vittime dovrebbe oscillare tra i 75 e gli 80. Un dato comunque limitato, visto che il “tragico conto” è iniziato a partire dal 1995.
Chiaramente un evento così terribile come quello accaduto il primo di ottobre non si era mai verificato, ma è importante capire che non si è trattato di un episodio casuale o raro per la storia del calcio e del tifo in Indonesia.
Iniziando dal già menzionato “Super–derby della Giava orientale” tra Arema e Persebaya, gli scontri tra i due gruppi ultras (gli Aremaia da una parte e i Bonek dall’altra) nascono subito dopo l’inizio del campionato professionistico a metà anni Novanta. Dopo l’inizio dell’era professionistica però le cose degenerano in fretta. Ironicamente, qualche anno prima, nel 1988, le due tifoserie avevano stretto un accordo per prevenire comportamenti violenti, sancendo un divieto di trasferta alle rispettive tifoserie: mai rispettato.
I primi scontri risalgono addirittura ad un celebre concerto tenuto nel 1992: quello dei Sepultura, gruppo heavy-metal brasiliano, in tour nella Giava Orientale in quel momento. Tuttavia la rivalità calcistica più accesa dell’Indonesia (e di conseguenza la più violenta) non è tra Arema e Persebaya, ma tra il Persija Jakarta (il principale club della capitale, Giacarta) e il Persib Bandung (la cui sede è ovviamente a Bandung), anch’essi situati nell’isola di Giava. Questo derby è noto come l’“Old Indonesia Derby”, “El Clasico Indonesia” e “Old Firm Indonesia” – con evidenti richiami eurocentrici.
Nel 2012 un tifoso del Persib viene ucciso dentro lo stadio da alcuni supporter del Persija; nel 2016 alcuni ultras del Bandung uccidono un tifoso del Jakarta; nel 2018 un altro tifoso del Persija viene ucciso da un gruppo di ultras del Persib – l’evento porterà alla sospensione del campionato, con il Bandung che viene condannato a pagare una pesante multa e a giocare tutte le restanti partite della stagione a porte chiuse.
Che il problema sia esteso e radicato lo dimostra anche il fatto che le notizie di cronaca ultras non si riferiscono unicamente ai club ma si estendono anche agli ultras della Nazionale Indonesiana: nel 2019, in un match di qualificazione ai Mondiali in Qatar, giocato contro la Nazionale della Malesia, i supporter indonesiani hanno tirato razzi e bombe carta contro i tifosi malesiani, causando la sospensione della partita per circa dieci minuti. Il mistero si infittisce: per quale motivo i tifosi/ultras indonesiani sono così violenti?
La risposta più istituzionale la fornisce Dex Glenniza, celebre giornalista sportivo locale: “Il tifo calcistico nel Paese è dominato da persone con un basso, se non inesistente, livello di istruzione, che vedono in questo sport una via di fuga dalla loro difficile condizione esistenziale”. Per Glenniza il calcio per gli indonesiani “è tutto, e quando la passione si trasforma in ossessione, succedono queste cose”. Un po’ come il movimento ultras delle origini, solo con molta più violenza (e morte).
L’utilizzo dei gas lacrimogeni contro i tifosi non è certo una novità per le forze dell’ordine indonesiane: nel 2016 infatti degli agenti vengono accusati di aver provocato la morte di un giovane tifoso del Jakarta, probabilmente a causa dei troppi pestaggi subiti. L’episodio scatena una serie di importanti manifestazioni da parte delle tifoserie indonesiane (unite nel dolore), che chiedono rispetto e chiarezza al governo. Le cose però, sotto il profilo della repressione, sono solo peggiorate. Anche per una (tristemente celebre) concomitanza sportiva.
L’odio che i tifosi indonesiani hanno per le forze dell’ordine è infatti legato anche al nome di una squadra, il Bhayangkara FC, di proprietà proprio del corpo di polizia indonesiano.
Al loro debutto in massima serie il Bhayangkara riesce a vincere subito il campionato, arrivando a pari punti con il Bali United (favorito però dalla differenza reti). Il Bhayangkara è considerato dalle tifoserie indonesiane un “club elitario”, pensato e creato unicamente per favorire (e ripulire) l’immagine dei poliziotti nel Paese, senza alcuna tradizione e senza nessun vero tifoso al seguito: pensavate che nulla potesse essere peggio dell’Istanbul Basaksehir e del Red Bull Lipsia? Vi sbagliavate di grosso.
Malgrado la vittoria della Liga 1, comunque, il Bhayangkara non è riuscito ad ottenere la licenza per partecipare alla Champions League asiatica. Da quel giorno, la squadra della Polizia non vincerà più nulla nelle successive annate (per la gioia di tutti i tifosi locali). Non solo: cambierà città (della sede del club) più volte a costo di cercare di conquistare una minima fetta di pubblico, visto che gli spalti dell’impianto di casa (situato a Giacarta) sono quasi sempre deserti.
Dopo aver affrontato il problema della violenza dentro e fuori dagli stadi, è giunto il momento di parlare di quello che è il vero male del calcio indonesiano, ovvero chi lo gestisce: la Federazione calcistica del Paese, il PSSI. Si è già accennato in precedenza alla totale confusione organizzativa che ha segnato (e continua a segnare) il calcio locale, ma ora è il momento di approfondirla. Nel 1931 nasce il “Perserikatan”, il primo campionato nazionale del Paese, su iniziativa proprio del PSSI, di carattere amatoriale, che avrà vita sino al 1994.
Nel frattempo nel 1979 la stessa federazione dà vita ad un secondo campionato nazionale, il “Galatama”, che malgrado il carattere semi-professionistico non gode del successo sperato, visto che la maggior parte del pubblico continua a seguire unicamente il “Perserikatan”. Il PSSI allora, per incrementare il seguito (e di conseguenza il denaro) intorno al campionato, decide di fondere le due leghe e dare vita così, nel 1994, alla professionistica “Liga Indonesia”. Problema risolto? Tutt’altro, poiché la nuova competizione subisce continui cambi di formato. Un travaglio che durerà fino al 2008, quando vedrà la luce la ”Indonesian Super League”, con 18 squadre partecipanti.
I problemi però, anziché diminuire, aumentano. Nel 2010, il campionato viene boicottato dalla maggioranza dei club a causa dei troppi problemi finanziari, gestionali e persino arbitrali di cui la “Super League” è triste protagonista: per questo i club “ribelli” decidono, di comune accordo e supportati da un imprenditore locale, Arifin Panigoro, di creare una loro lega, la “Liga Primera Indonesia”, indipendente dalla Federazione e totalmente gestita dai club, che si sarebbero spartiti i diritti televisivi in maniera maggiormente equa (vi ricorda qualcosa?).
Il problema è che il PSSI era l’unica autorità calcistica riconosciuta dalla FIFA, e dunque la competizione non ebbe mai validità legale, costringendo gli stessi club ad interrompere il “loro” campionato a metà stagione, in mancanza di un riconoscimento ufficiale.
Ad aumentare ancora di più il caos totale legato al campionato di calcio e alla sua confusa organizzazione, è uno scisma interno nella stessa federazione: dopo il fallito esperimento della “Liga Primera Indonesia” da parte dei club, Sihar Sitorus, un membro del Comitato Esecutivo della Federazione (nonché politico di spicco del Paese) annuncia la nascita di una nuova, ennesima, lega calcistica, denominata “Indonesian Premier League”, che parte ufficialmente nell’agosto del 2011 e che stavolta viene ufficialmente riconosciuta dallo stesso PSSI e dalla FIFA come competizione principale del Paese in sostituzione della “Super League”. Il problema è che non tutti i membri del PSSI riconoscono la validità di questa nuova lega. Nella stagione 2011/12 in Indonesia si sono infatti giocati ben due campionati (!), uno legale e l’altro “illegale”, o non riconosciuto come tale.
Il caos che stiamo raccontando si è risolto nel 2013, quando un nuovo comitato straordinario del PSSI decide di ritornare sui propri passi e di espellere Sitorus dalla Federazione, insieme ad altri cinque membri e abbandonando così il progetto della “Premier League” per ritornare alla “Super League” come campionato principale del Paese. Sicuramente adesso i lettori staranno pensando che un evento peggiore di questo, nella malandata struttura federale calcistica indonesiana, è impossibile che si sia verificato, ma non è affatto così, perché il peggio doveva ancora venire.
Nel 2015 il Ministero dello Sport decide di sciogliere il Comitato dirigenziale del PSSI, dopo il rifiuto di questi di approvare un decreto dello stesso ministero che imponeva alla Federazione di sospendere dal campionato due squadre (che, ironia della sorte, erano proprio l’Arema FC e il Persebaya Surabaya) per irregolarità amministrative. Il PSSI, a questo punto della storia, cessa di esistere.
La FIFA sospende per un intero anno tutte le attività calcistiche nel Paese (incluse quelle della Nazionale), avendo considerato l’intervento governativo come una violazione dell’indipendenza organizzativa della Federazione. Dopo la fine della sospensione, nel 2016, viene creato un campionato provvisorio, l’”Indonesian Soccer Championship”, nel 2017 si arriva invece alla creazione dell’ultima e definitiva (ma per quanto ancora?) lega calcistica nazionale, la “Liga 1”.
Quella che abbiamo trattato era solo la parte relativa al caos amministrativo e burocratico federale, ma ci sarebbe anche da parlare degli scandali di corruzione di cui il calcio locale è afflitto sin dalla sua fondazione. Solo nel 2007, quindi di recente, l’allora presidente del PSSI Nurhan Halid è stato condannato per corruzione. Egli ha però continuato ad amministrare la Federazione per altri quattro anni, malgrado fosse in carcere (!) fino a che nel 2011 non gli venne impedito di ricandidarsi per le nuove elezioni federali.
Non a caso, allora, ai problemi sopracitati del calcio indonesiano, Dex Glenniza aggiunge che “il livello di fiducia che la gente ha nel PSSI, nella Polizia e nei dirigenti è molto basso”.
Questo però, per chi conosce davvero la realtà politica nazionale, non è del tutto sorprendente. L’arcipelago ha infatti vissuto per più di trent’anni, sino al 1998, una delle dittature più brutali (milioni di morti causati tra perseguitati politici e l’occupazione illegale dell’isola di Timor Est) e corrotte della storia moderna: la cleptocrazia del generale Suharto, all’epoca il dittatore più ricco del mondo con un patrimonio personale di circa 30 miliardi di dollari.
L’Indonesia da allora ha fatto enormi passi avanti, ma le tragedie sportive nazionali testimoniano che ancora tanta è la strada da fare (per istituzioni e forze dell’ordine). Difficile comunque immaginare un futuro roseo per il calcio locale. La tragedia di Malang ha aperto gli occhi, ma il cuore ha bisogno di più tempo.