444 milioni di sudditi uniti da football, rugby e cricket.
Nel 1870, intervenendo nella lezione inaugurale come Slade Professor a Oxford, John Ruskin parlava così dell’espansione coloniale inglese nel mondo: «Si apre in verità innanzi a noi un sentiero di gloria benefica, quale mai fu offerto sinora a qualsiasi umile gruppo di mortali creature. Ma deve trattarsi, si tratta ora per noi di “Regnare o morire”….e questo [l’Inghilterra] deve fare, o perire: deve fondare colonie quanto più rapidamente può e nei luoghi più lontani, formate dai suoi uomini più energici e più degni; afferrando ogni pezzo di terra fertile lasciata incolta su cui può posare il piede.»
Ventisette anni dopo, la regina imperatrice Vittoria governava sul più vasto impero nella storia dell’uomo. L’Impero britannico, alle soglie del XX secolo, si estendeva su oltre un quarto della superficie terrestre. Era tre volte l’impero francese, dieci volte quello tedesco. Come scrisse la “St James’s Gazette” nel 1897, la regina dominava di fatto su “un continente, un centinaio di penisole, cinquecento promontori, un migliaio di laghi, duemila fiumi, diecimila isole”.
Tuttavia la percezione diffusa sul finire dell’Ottocento era quella di un impero destinato, come tutte le grandi potenze nella storia umana, a finire in maniera più o meno violenta. Lo scriveva già Matthew Arnold sul finire del XX secolo, quando descrisse la Gran Bretagna come
«Lo stanco Titano, che, l’orecchio
Sordo, la fatica che appanna lo sguardo…vacilla ormai verso la meta;
e sulle spalle immense
Degne d’Atlante, regge
Il peso,
L’impossibile peso
Del troppo vasto orbe del suo fato.»
Ci si interrogava già allora su quali fossero gli strumenti per rallentare o arrestare l’inevitabile decadenza dell’impero, rinnovandone in qualche modo la vitalità, consolidando i legami economici e spirituali che univano ognuno dei 444 milioni di sudditi della Gran Bretagna nel mondo. «È come se… avessimo conquistato e popolato la metà del mondo in un momento di distrazione», scrisse John Robert Seeley nel 1883, proponendo quindi una più stretta unione dei legami tra la Gran Bretagna e le colonie di popolamento bianco e anglofono. Nel 1872 iniziò così a circolare il termine Greater Britain e si affermò una nuova generazione di colonialisti, desiderosi di imprimere una svolta in senso imperiale al dominio britannico nel mondo.
Ancora oggi, molte delle ex-colonie sono parte del reame del Commonwealth, di cui il sovrano è il monarca del Regno Unito, che è di diritto anche monarca dei singoli regni. Elisabetta II, Regina d’Australia. (Rob Griffith-Pool/Getty Images)
Ad alimentare un simile processo fu la nascente macchina celebrativa e propagandistica, che istituìfeste nazionali (l’Empire Day in tutte le colonie), e tramite racconti mitici e resoconti esotici cercò di creare un immaginario e una letteratura imperiale. Eppure l’indottrinamento non passava solo dai romanzi, né dalle scuole; invero, come sottolineato da Niall Ferguson:
«A rendere gli allievi delle scuole private capaci di eroismo in nome dell’Impero non era quello che imparavano in classe, ma quello che imparavano sui campi da gioco. Considerato da questo punto di vista, l’Impero britannico degli anni Novanta dell’Ottocento assomiglia a un enorme complesso sportivo».
L’impero si manifestò pertanto, soprattutto, nella grandiosa popolarità dell’attività sportiva. Ogni sport esprimeva una diversa sfumatura dell’anima stessa dell’universo britannico. La prima era quella che guardava al cuore dell’aristocrazia inglese: a fine Ottocento era allora la caccia il passatempo preferito delle classi alte, incentivato dall’aumento smisurato dei territori, degli animali e dei mezzi a disposizione, trasformatosi infine in una vera e propria guerra di sterminio contro prede che spaziavano dal gallo cedrone scozzese alla tigre indiana; dai leoni africani, passando per gli orsi, le pantere e le iene.
Come riportato da Ferguson, il viceré dell’India Curzon raccontava ad esempio a suo padre di come la caccia alla tigre fosse da lui considerata il massimo vantaggio offerto dalla propria carica. Simili intrattenimenti, pur estremamente apprezzati dalle élites britanniche, non erano però in grado di cementare lo spirito di unità dell’impero. In verità, esso fu maggiorente incarnato dai giochi di squadra, elementi di coesione di sforzo comune.
Le crude immagini di inizio secolo con Re Giorgio V a caccia di Tigri indiane a dorso di elefante. (Hulton Archive/Getty Images)
Il 26 ottobre del 1863, presso la Taverna dei Frammassoni nella Great Queen Street di Londra, comparvero per la prima volta le regole del football, già affermatesi nel resto del paese. Tra simbolismo massonico ed aristocrazia inglese, la nascente Football Association stabilì il regolamento comune di questo beautiful game, destinato ad un grandioso avvenire. Eppure il football, gioco proclamato for gentlemen, divenne molto presto lo sport di squadra delle masse. Fu giudicato pertanto eccessivamente promiscuo, giacché attirava gli operai delle città industriali, politicamente sospetti, e piacque anche ai rivali geopolitici continentali della Gran Bretagna, ai tedeschi in primo luogo.
Il suo successo fu però roboante, tanto che già nel 1872 la prima nazionale di calcio dei maestri inglesi sfidò la compagine dei vicini scozzesi, in un incontro tutto interno alle isole britanniche. Quasi cinquant’anni dopo, il 28 aprile del 1923, Giorgio V inaugurò un nuovissimo impianto londinese, destinato per i decenni avvenire ad accogliere le finali della Football Association Cup: al secolo Wembley Stadium, all’epoca fu battezzato con il nome di Empire Stadium. Questa grandezza e questa visibilità raggiunte in pochissimi anni dal soccer non devono però ingannare.
Tuttavia, come accennato, il suo essere sport proletario e amato anche dai nemici teutonici, non lo rese da subito ben accetto alla causa imperiale britannica.
Ben più rinomata fu la sua nemesi, il rugby, sorto nel 1871 dalle richieste di un gruppo di associati della FA. Le mani più dei piedi. Una fisicità certo più pronunciata, tale da ritenerlo spiritualmente più adatto alla Greater Britain. Il rugby divenne il diretto rivale del football, anche nella terminologia: uno sport da teppisti, ma giocato da gentiluomini. Era lo sport delle élite, fondamentale alla loro formazione fisica e morale. Inoltre, a differenza del football, conquistò immediatamente le colonie di popolamento del Sudafrica, dell’Australia e della Nuova Zelanda.
La prima squadra di rubgy della Nuova Zelanda. Dopo il tour britannico del 1905 sarebbe stata nota al mondo come ‘All Black’, cambiando la storia dello sport. (Hulton Archive/Getty Images)
Il 1905 fu l’anno in cui per la prima volta fecero la loro comparsa i New Zealand All Blacks, che in una tournée fecero fuori tutte le altre compagini dell’Impero, tranne il Galles. Solo il Sudafrica rifiutò di sfidarli. Il rugby era ritenuto infatti da Città del Capo (almeno fino alla fine dell’Apartheid) esclusivamente lo sport dei bianchi, degli Afrikaans e dei coloni inglesi, per cui l’immissione dei maori all’interno delle compagine zeolandese non fu considerata minimante accettabile.
Se dunque il football conquistò le isole britanniche e il mondo non britannico, ma fu sport di proletari, se le colonie della Greater Britain Sudafrica, Australia e Nuova Zelanda su tutte furono contraddistinte dal successo del rugby, ma limitatamente alle élite coloniali, il vero ed unico sport dell’impero e di tutti i suoi sudditi divenne, di fatto, il cricket. Sottolinea in tal senso Ferguson che esso fu al di sopra di qualsiasi pregiudizio, quale evidenziato nel rugby:
«Fu il cricket – con i suoi ritmi lenti, ingegnosi, il suo spirito di squadra sul campo e i suoi eroismi solitari sulla linea bianca – a trascendere tali suddivisioni razziali, diffondendosi non soltanto nelle colonie bianche ma in tutto il subcontinente indiano e nei Caraibi britannici.»
Nel diciannovesimo secolo, il cricket fu istituzionalizzato in tutto l’impero. Nel 1873-74 uno dei primi fuoriclasse del gioco, W.C. Grace, condusse una squadra inglese di dilettanti e professionisti in tournée in Australia, sbaragliando tutte le compagini incontrate. Solo tre anni dopo però, gli australiani ricambiarono il favore travolgendo una squadra di professionisti giunta a Melbourne.
Ben presto, nel 1882, fu l’impero a prevalere sulla vecchia Inghilterra, per il momento a livello unicamente sportivo, laddove gli australiani ottennero una vittoria al The Oval di Londra destinata ad entrare nella leggenda. Paragonabile per importanza al 6-3 rifilato dall’Ungheria di Puskas ai danni degli ormai ex-maestri inglesi a Wembley nel 1953, fu il Times a sintetizzare – con british humor – questa sconfitta, scrivendo un finto necrologio sulla fine del dominio degli inglesi nel cricket:
«Nell’affettuoso ricordo del cricket inglese che è morto all’Oval il 29 agosto del 1882, pianto da una vasta cerchia di amici e conoscenti di gramaglie. R[equiescant] I[n] P[ace]. Nota bene – le ceneri verranno cremate e le ceneri traslate in Australia.»
Per gli inglesi non fu la prima né l’ultima sconfitta. Nei fatti la Greater Britain fu anche il progressivo prevalere dell’impero sulla madrepatria, dapprima in termini sportivi, in seguito in termini di risorse e di contributi militari in difesa della patria britannica, nel corso delle due guerre mondiali. Quale elemento di attrazione, coagulante naturale e forse perfino più efficace degli scritti del citato Seeley, lo sport fondò pertanto l’identità imperiale britannica, contribuendo alla conservazione della sua potenza.
L’Inghilterra ha vinto l’ultimo campionato del mondo di cricket, tenutosi nel 2019, in finale contro la Nuova Zelanda. Ma detentrice del record di vittorie è l’Australia, la sfida è ancora aperta. (Clive Mason/Getty Images)
Se ne può trovare ulteriore esemplificazione nella parabola di Robert Stephenson Smyth Baden-Powell, fondatore dei Boy Scout, propugnatore della trasposizione dello spirito di squadra degli sport in un nuovo ideale di vita totale. Baden-Powell fu il prototipo dello sportivo britannico trapiantato nel ruolo di primo servitore dell’Impero, capitano della prima squadra di football del Charterhouse e con una brillante carriera militare in India, Afghanistan e Africa, il quale paragonò nel 1899 l’assedio della roccaforte di Mafeking nel corso della guerra anglo-boera, proprio ad una partita di cricket.
Scrisse così una celebre lettera ad uno dei comandanti nemici, descrivendolo come il resoconto di una finale sportiva ed esemplificando così la commistione tra animo sportivo ed imperiale, fino anche alla sua dimensione più brutalmente militare ed espansionista, dell’impero coloniale britannico:
«Proprio adesso è il nostro turno di giocare e finora abbiamo segnato per 200 giorni contro le squadre di Cronje, Sijman, Botha… e il gioco è molto piacevole.»