Vorresti scrivere epinici e ti toccano, invece, gli epitaffi. Ah, porca vita, che ti prendi i ricordi e li sbricioli, distillandone il veleno e non l’elisir. Ci hai tolto anche Alberto Bucci, i suoi occhiali sempre da raddrizzare, con la montatura che aggiustava con le dita. Serve usare le parole di Joseph Conrad in “Lord Jim” per dire della sua perdita:
“In un’assolata mattina, lungo una strada orientale, vidi passare la sua forma – piena di fascino, densa di significato – oppressa da una nube, in un silenzio perfetto. Era quello che doveva essere. Era uno di noi”.
Lo piangono le grandi città della pallacanestro, quelle per cui ha vinto, e pure le altre, sconfitte e arrese alla sua intelligenza, che non era soltanto cestistica. Se c’è stato un coach che ha insegnato a giocare, in Italia, ebbene, questo è stato Bucci. Era un bolognese allegro ma non guascone, e di certo rappresentava l’antitesi del “pataca”, il gaglioffo irridente che si nutre di bugiarde vanterie. Bucci è stato la Virtus – sebbene la sua carriera sia iniziata alla Fortitudo, con cui debuttò da allenatore capo nel 1974, appena venticinquenne –, che condusse in due separati periodi, vincendoci tre scudetti e, tra questi, quello della sospirata stella, appiccicata sulla canottina al termine di una stagione antologica, chiusa battendo alla “bella”, al Madison di Piazzale Azzarita, la Milano di Dan Peterson.
Era la Bologna marchiata Granarolo, con Roberto Brunamonti, Renato Villalta, Marco Bonamico gli americani Elvis Rolle e Jan van Breda Kolff. Aveva conquistato anche la Coppa Italia, sconfiggendo in finale la Juve Caserta di un guru montenegrino con cui Bucci si sarebbe confrontato per l’intera carriera, Bogdan “Boscia” Tanjevic. Quando Bologna lo vide partire, sapeva che quel coach che zoppicava vistosamente a causa di una gamba malata sarebbe tornato. Bucci sarebbe passato per vie sterrate e, come il mago di Oz, segnò alle Dorothy della pallacanestro la strada dai mattoni gialli che avrebbero consentito loro di accedere a un regno dorato.
Accadde con Livorno, l’Enichem che, nel 1989, per mezz’ora fu campione d’Italia, prima che un arbitro dall’udito tanto fino da suonare chirurgico decidesse di aver sentito, nel budello delle migliaia di voci di un palasport strillante, che la sirena aveva urlato con una stilla d’anticipo rispetto al tiro di Andrea Forti che aveva siglato il sorpasso sulla solita Milano. Fu Bucci a far sgomberare lo spogliatoio, preso d’assalto dalla stampa per registrare le reazioni dei (presunti) vincitori. Fu lui a guardare negli occhi quei ragazzi per dire che il Sogno per cui stavano ridendo e piangendo assieme era stato frantumato. Devi essere un vero uomo e un maestro per avere la forza morale per farlo. Che Alberto Bucci fosse sia l’uno che l’altro, mai è stato in dubbio.
Diceva di sé:
“Sono uno che lotta. Ho iniziato a farlo quando avevo sei mesi, con una gamba che non voleva saperne di funzionare come l’altra. Ci ha provato a mettermi in difficoltà, già quando mi rapportavo ai coetanei, e forse l’ho capito fin da bambino che nella vita la vera sfida è cercare di battere sempre sé stessi. È un pensiero che ho sempre cercato di trasmettere ai giocatori che allenavo. Se uno da tutto, non perde mai. Può andargli storta una partita, ma dal campo uscirà sempre a testa alta”.
Dopo Livorno andò a Verona, ripartendo dall’A2. Firmò con un club che era l’emanazione della Glaxo, la multinazionale del farmaco che aveva la sede italiana in città e il cui principale dirigente, Mario Fertonani, era un cultore del basket che non lesinava gli investimenti, con l’obiettivo di creare un nuovo grande polo della pallacanestro nazionale. Bucci sfiorò la promozione il primo anno e la colse, infrangendo ogni record, il secondo.
Più ancora, compì un’impresa epica, cogliendo la vittoria in Coppa Italia. Via via, Verona aveva eliminato la Phonola Caserta che poi sarebbe stata scudettata, la Virtus Bologna – disintegrata nel ritorno dei quarti al Madison, dopo che già all’andata le era stata impartita una lezione memorabile – e nella Final Four, Livorno e poi Milano. Negli istanti delle celebrazioni, Bucci aveva già deciso che se ne sarebbe andato, e anche in questo risiedeva la sua forza: lascia quando hai vinto, non permettere alla sconfitta, quella crudele Erinni, di inseguirti e vendicarsi di te.
Lo ingaggiò la Scavolini Pesaro, con cui perse una finale scudetto con la Benetton Treviso, e dopo il richiamo del focolare fu l’irresistibile calamita che lo riportò alla Virtus per allungare un ciclo vincente che era stato aperto da Ettore Messina, che era già stato suo assistente e che Dan Peterson chiamava “il numero uno dei numeri due”.
Erano delle Vu nere diverse da quelle che aveva lasciato: in società comandava Alfredo Cazzola, mister Motor Show, sul campo Brunamonti era di una crepuscolare grandezza, mentre esplodeva la devastante leadership di Sasha Danilovic. Sponsorizzata dalla Buckler, quella Bologna era la squadra più glamour d’Italia, e sulle tribune e nei posti Vip al Madison sfilavano tifosi eccellenti, a cominciare da Lucio Dalla, la buona borghesia cittadina, diamanti e pellicce, orologi d’oro e abiti d’alta moda.
La Virtus di allora era la corrispondenza italiana dei Los Angeles Lakers, Piazzale Azzarita era Inglewood, e intanto Bologna, con la Fortitudo che aveva attirato una proprietà ricca e generosa (Giorgio Seragnoli, imprenditore facoltoso e da sempre amante dell’Aquila), era diventata la depositaria del Graal della pallacanestro: Basket City, iniziarono a chiamarla, e per quell’appellativo icastico la città molto deve a Bucci.
Eppure non c’erano soltanto gli scudetti – altri due consecutivi, tra il 1993 e il 1995 – e le Coppe Italia a tracciare la fina imponenza di un coach che è stato, in questo Paese, seminale alla maniera di un Dean Smith, di un Jerry Tarkanian o un John Wooden. La piramide del successo, per Alberto Bucci, è cominciata a Rimini, con una squadra condotta dai dilettanti all’A2, e dopo a Fabriano, con cui salì in A1 e ci rimase. Ha “cucinato” mercuriali talenti: Domenico Zampolini, Augusto Binelli, Alessandro Fantozzi, Alberto Tonut, Paolo Moretti, Claudio Coldebella. Li ha cambiati tutti, e tutti in meglio.
Aveva l’empatia di Robin Williams-John Keating, il poetico professore de “L’attimo fuggente”, unita alla presenza morale del Gene Hackman che recita nella parte di Norman Dale, il coach della squadra di high school a Hickory, tra le sperdute lande agricole dell’Indiana, in “Colpo vincente”, il più bel film sul basket che sia mai stato girato, alla pari con “He got game” di Spike Lee, e in cui c’è una scena di imponente efficacia evocativa.
Arrivati alla finale di stato, a Indianapolis, gli studenti di Hickory entrano nel gigantesco Palazzo dello sport e ne sono suggestionati, intimiditi. Dale-Hackman prende un metro e fa misurare la grandezza dell’area e l’altezza del canestro. Quando chiede quale risultato abbia dato il calcolo e i giocatori gliele comunicano, sorride e dice: “Sono esattamente quelle della nostra palestra a Hickory”. Il basket è un gioco semplice. Il più grande segreto di Alberto Bucci era proprio questo.