Il riscatto argentino contro gli Inglesi, prima della Mano de Dios.
Tokyo, Stadio Nazionale, domenica 9 dicembre 1984. Scendono in campo due squadre, una in giallo, l’altra in maglia rossa e pantaloncini neri. A giudicare dalle presenze sugli spalti, sembra di assistere a un match di cartello dell’allora Japan Soccer League. Una coppa luccicante a bordo campo fa però sospettare qualcosa di particolare. Di molto importante.
La squadra in rosso attacca da destra a sinistra dei teleschermi, quella in giallo procede ovviamente in senso contrario. A guardarlo con attenzione, il trofeo sul quale ogni tanto una telecamera si sofferma è in realtà quanto di meglio un calciatore professionista possa desiderare. Equivale per certi aspetti al premio Oscar per un attore, è come il Nobel per un medico o un artista.
Quella partita potrebbe essere tutto: l’incontro della pacificazione fra due parti che ancora vivono i postumi bellici, la revancha di una squadra o il final masterstroke di un’altra.
Chi alza quella coppa al cielo è campione del mondo per squadra di club. Si tratta della Coppa Intercontinentale, trofeo allora sponsorizzato dalla Toyota e che ogni anno veniva assegnato in gara unica alla vincente tra la detentrice della Coppa dei Campioni e la titolare della Copa Libertadores. Sfide affascinanti che in quel decennio vedono il netto dominio delle formazioni sudamericane.
Ma quell’edizione, la ventitreesima, ha in sé qualcosa di particolare. Quelle che sono appena uscite dagli spogliatoi non sono due squadre qualsiasi e non provengono da luoghi indistinti della terra. I gialli sono quelli del Liverpool, i rossi sono i giocatori dell’Independiente. È la prima volta che due squadre, una inglese l’altra argentina, si incontrano dopo la guerra per le Isole Falkland (o Malvinas, a seconda dei punti di vista) del 1982. Quella partita potrebbe essere tutto: l’incontro della pacificazione fra due parti che ancora vivono i postumi bellici, la revancha di una squadra o il final masterstroke di un’altra.
Una guerra brutta, assurda, mai dichiarata sul piano formale eppure spietata, quella che inglesi e argentini combattono gli uni contro gli altri per il possesso delle Falkland/Malvinas. Si tratta di un gruppo di isole situate all’altezza dello Stretto di Magellano, che in Occidente nessuno conosce ma che diventano un punto d’onore sia per l’Inghilterra, che vuole mantenere il rango di potenza navale, sia per l’Argentina, che rivendica il possesso storico di quelle terre.
Quella partita potrebbe essere tutto: l’incontro della pacificazione fra due parti che ancora vivono i postumi bellici, la revancha di una squadra o il final masterstroke di un’altra.
Dopo la vittoria militare britannica e la susseguente caduta della dittatura di Buenos Aires, che proprio con quella guerra aveva cercato di rivitalizzare il consenso interno, le due diplomazie non intrattengono rapporti fra di loro. In seguito infatti alla disfatta della junta militare, nel 1984 in Argentina è al potere un radicale di sinistra, Raúl Ricardo Alfonsin. Cambiano le politiche e i rapporti di forza ma almeno su un punto milioni di connazionali sono d’accordo: Las Malvinas son Argentinas. E non si discute.
Il 9 dicembre di 35 anni fa, lo sport potrebbe dunque riavvicinare le parti. Il Liverpool è la squadra campione d’Europa e nel 1984 è già riuscita a compiere il suo primo vero masterstroke: ha vinto la Coppa dei Campioni a Roma, contro la Roma. Non era affatto semplice. Il Liverpool di quegli anni è una squadra che vive una singolare contraddizione: è agli occhi del pubblico internazionale la squadra inglese per eccellenza ma a ben vedere cinque undicesimi in campo contro l’Independiente sono scozzesi.
Il portiere Grobbelaar è cittadino dello Zimbabwe, il centrocampista Jan Mølby è danese mentre la punta di diamante, il centravanti Ian Rush più volte capocannoniere della First Division, viene dal Galles. A conti fatti gli inglesi in campo quella domenica contro l’Independiente sono solo tre: il capitano Neal, Kennedy e Johnston. La formazione argentina è invece una delle più celebri del Sud America. È una delle tre squadre di Avellaneda, le altre due sono il Racing Club e l’Arsenal de Sarandì.
A conti fatti gli inglesi in campo quella domenica contro l’Independiente sono solo tre.
Avellaneda non è esattamente il centro della Capitale ma fa parte della Gran Buenos Aires, l’hinterland cittadino. L’Independiente ha vinto la Coppa dei Campioni sudamericana 1984, la Libertadores, battendo nella doppia finale i brasiliani del Grêmio di Porto Alegre. Le due finaliste dell’Intercontinentale hanno un aspetto comune: gli uni sono i reds, gli altri vengono chiamati los diablos rojos. Almeno il colore accomuna le due squadre.
La maglia gialla di quel giorno è per il Liverpool un fatto abbastanza occasionale. Diego Armando Maradona sta giocando il primo campionato con la maglia del Napoli, ma dall’Italia sta tifando per i connazionali, anche perché in campo c’è un suo idolo di gioventù. Con il numero 10 è sul terreno di gioco una vecchia volpe del calcio argentino che ha compiuto 30 anni e che ha ancora parecchio da dare: il suo nome è Ricardo Enrique Bochini e nel suo Paese è un mito.
Quando Maradona era un calciatore a inizio carriera, non aveva occhi che per lui, per el bocha. Piccolo di statura, pochi capelli, incedere elegante, tecnica ineccepibile, visione di gioco. Bochini ha già vinto l’Intercontinentale nel 1973, all’età di 19 anni contro la Juventus allo Stadio Olimpico di Roma. Stavolta, 11 anni dopo, l’impresa appare più complicata perché il Liverpool gode dei favori dei pronostici e, almeno sulla carta, appare più forte. Ma i diablos non hanno solo el bocha, vanno temuti per la loro compattezza.
In porta c’è l’uruguaiano Goyen, uno che farà la storia del club di Avellaneda. La difesa è un reparto di gente dura e a guardare in faccia Clausen, Trossero, Enrique e Villaverde si può avere un certo timore fisico. A centrocampo Marangoni, Burruchaga e Giusti coadiuvano Bochini, mentre in attacco l’allenatore Pastoriza schiera Barberón e il giovanissimo José Alberto Percudani. L’inizio della finale appare indegno di una partita di quell’importanza: entrate pesanti a centrocampo, rinvii a casaccio, incapacità di costruire gioco da parte di entrambe. Forse qualche ruggine di natura extracalcistica.
Ma i diablos non hanno solo el bocha, vanno temuti per la loro compattezza.
Poi, dopo 6 minuti l’Independiente si ricorda di essere una squadra che sa giocare al calcio e in un attimo tutto cambia. Perfetta combinazione Bochini-Burruchaga, allungo a Marangoni, che lascia per un attimo la guardia di Rush e in modo forse casuale lancia il contropiede. Percudani prende d’anticipo la difesa avversaria ed è protagonista di uno scatto folgorante, che lascia sul posto Neal e Gillespie. Entra in area osserva il piazzamento del portiere e trafigge Grobbelaar con un sinistro affilato che incrocia sul secondo palo.
In quel momento in Argentina anche chi non tifa Independiente salta di gioia. La possibilità di battere gli inglesi è la revancha del pueblo argentino. Al gol Percudani esplode di gioia e il labiale “puta madre” mentre esulta tradisce in realtà il sentimento di milioni di connazionali. La partita ricorda per certi aspetti la finale di Coppa dei Campioni 1983 fra Juventus e Amburgo. Bianconeri favoritissimi, brutto inizio partita da parte di entrambe, Amburgo in gol all’improvviso con Magath e poi non succede quasi più nulla.
Un riassunto dell’impresa
Il Liverpool cerca di riorganizzarsi ma la difesa dell’Independiente, imperniata sul libero Trossero, ha buon gioco nell’annullare le iniziative di Dalglish, Wark e Rush, mentre in avanti le giocate di Bochini consentono alla squadra di mantenere il possesso del pallone e far respirare il reparto arretrato. Come in Juventus-Amburgo, la partita non ha nulla di spettacolare, dopo il gol succede abbastanza poco ealla fine per gli uomini di José Omar Pastoriza è il trionfo. L’allenatore inglese Joe Fagan deve accettare la sconfitta. La revancha è compiuta, le Falkland, almeno sul piano sportivo, possono tornare a chiamarsi Malvinas.
Ma ciò che avviene il 9 dicembre di 35 anni fa salda soltanto la prima rata della vendetta. Il 22 giugno 1986 le nazionali di Inghilterra e Argentina si trovano l’una contro l’altra per i quarti di finale dei Campionati del Mondo in Messico. Non gioca Bochini, al suo posto c’è Maradona e per gli inglesi non è certo meglio. El bocha siede in panchina, mentre Giusti e Burruchaga, due “eroi” di Tokyo, sono regolarmente in campo.
Ma ciò che avviene il 9 dicembre di 35 anni fa salda soltanto la prima rata della vendetta.
Con un gol di mano e con la rete forse più bella della storia del calcio Maradona darà al calcio inglese il secondo grave dispiacere in due anni per mano argentina. Almeno per una volta la prime minister Margaret Thatcher deve subire una sconfitta, quella che nei primi anni 80 né l’esercito di Buenos Aires né i minatori inglesi in sciopero avevano saputo infliggerle.