Dieci anni fa il saggio “Chav – The Demonization of the Working Class”, scritto dall’opinionista politico Owen Jones, diventava un testo di culto in Regno Unito grazie a una critica pungente alla demonizzazione della classe operaia bianca inglese – i chav, i nostri tamarri, per l’appunto – ed una copertina minimalista in cui un cappellino Burberry campeggiava su uno sfondo di un rosso intenso, quasi sangue.
Oggi, se il concetto di chav è entrato a far parte della pop culture inglese – oggettificato e gentrificato dall’industria della moda – a continuare ad essere demonizzato dalla cultura ufficiale è un certo approccio alla vita proprio dell’Inghilterra popolare, quello delle bandiere di San Giorgio e dei pub che si ostinano a servire ales e non prosecco. Così in una nazione in cui il concetto di patria è sempre più una red flag, la nazionale di calcio arranca, figlia (o vittima?) di una nuova forma mentis occidentale e di un calcio globalizzato che demonizza l’attaccamento alla maglia come essenza dello sport.
L’Inghilterra è lenta, impacciata, non priva di idee ma insofferente nel metterle in atto. Dopotutto, qual è il premio partita? Quale la visibilità? Stolto chi pensava che bastasse sostituire la storica Umbro con una più cosmopolita e hip Nike per stuzzicare i giovani inglesi a sentirsi degli Stormzy del pallone.
I Tre Leoni, pardon Tre Leon*, considerato il nuovo logo politically correct della FA, falliscono sul campo perché (non) sono specchio della loro nazione. O meglio, lo sono entro i limiti di uno status quo nuovo della nazione con cui nè i tifosi, nè i media hanno ancora familiarizzato pur facendosi belli di slogan tanto cosmpoliti e moderati quanto svuotati di signficato, di pacche sulle spalle più imposte che sentite. Ne è prova lampante il caso mediatico che scoppia ad ogni match, quando i calciatori si inginocchiano e una nutrita parte di tifosi li fischia, seguiti dalle pronte condanne (anch’esse altrettanto di circostanza) della stampa.
Il divario etico e spirituale tra le due categorie è paragonabile alla preoccupante forbice sociale dell’Inghilterra, di cui i calciatori rappresentano l’élite imborghesita, opportunisticamente politicamente corretta e, soprattutto, annoiata. Basti vedere l’indolenza rinunciataria di Kane nell’indossare la casacca della nazionale rispetto agli exploit con il club, che ricordano quel Rooney diavolo a quattro con il Manchester United e indisponente fantasma di sé stesso con i Tre Leoni.
Senza scomodare i pesi massimi della filosofia, si può condividere il pensiero che non v’è etica senza estetica. Così se ai tifosi inglesi basta la testa ossigenata di Foden in tributo al Gascoigne del Euro ’96 per eleggere il centrocampista a nuova icona campanilistica, non altrettanto si può dire di una nutrita schiera di calciatori padroni di un look figlio del calcio cosmopolita e che potrebbe egualmente appartenere a un tesserato del Paris Saint Germain tanto quanto a uno del Chelsea o della Juventus.
Campanilismo che c’è nelle strade, nei pub che ritornano a popolarsi, ma meno sulle tribune, ormai elette a palcoscenico per carnevalate e famiglie, come da ambizioni della Uefa. Così anche gli inglesi sembrano diventare italiani, tra parrucche e borselli di dubbio gusto. Per fortuna i replica kit contraffatti sono ancora lungi da arrivare sulle sponde britanniche della Manica.
Ciò che invece è arrivato, e con un abbondante quindici anni di ritardo, è l’estetica mediterranea del tronista (oggi lo chiameremmo bomber, o influencer) come testimoniato da Grealish, paradigma del nuovo lad inglese, quello che teoricamente dovrebbe sostituire la vecchia generazione hooligan, ma che nei fatti si preoccupa soprattutto di arrivare al match con le sopracciglia curate, il volto coperto di spray abbronzante e con i risvolti dei jeans ultra skinny acquistati su Asos ben assestati.
Se vent’anni fa Beckham faceva scalpore per le sue velleità da modello, con il senno di poi va spezzata una lancia in favore del golden boy inglese che sul terreno di gioco non si è mai tirato indietro, così come oggi rappresenta con grande dignità l’Inghilterra cantandone l’inno con fierezza, a differenza degli undici di Southgate che biascicano stringendo i denti. Sembra di assistere alle imprese di tanti emuli dello stile di vita dello Spice Boy, tutti ricchissimi, raffinatissimi ma privi di personalità, di guizzi estrosi, figli culturali dell’opulenza globalista della Premier League.
Non può che tornare in mente l’orgoglio con cui gli Azzurri di Mancini cantano – o, ancor meglio, urlano – l’inno. Chissà se Don Fabio avesse mai provato a spiegare agli inglesi il significato di quella ‘cazzimma’ tanto cara a De Laurentis, certo è che i Tre Leoni avrebbero bisogno di ritrovarla, smarrita com’è da almeno 25 anni, da quell’ultimo exploit di Euro ’96.
Aleggia, da tempo, un sentimento di vergogna nell’ostentare la bandiera inglese – si figuri quella britannica come accadeva in passato – quasi come se il perverso gioco del politicamente corretto (imperante nel Regno Unito contemporaneo) avesse fatto coincidere il campanilismo sportivo con il conservativismo politico. Certo è innegabile come la nazionale, pur schierando diversi atleti mixed-race, sia ancora lontana dal coinvolgere emotivamente un pubblico eterogeneo, rimanendo un affare per la parte bianca della popolazione inglese. Le tensioni acuite durante la scorsa estate, poi, non hanno aiutato, con le tifoserie che esplicitamente per la prima volta nella storia britannica hanno assunto una marcata posizione politica andando a cordonare le statue a loro dire minacciate dall’iconoclastia BLM.
Con buona pace dei sostenitori BLM che qualche mese fa avevano tentato di abbattere la statua di Churchill considerandone la figura anacronistica, il vecchio primo ministro inglese risulta invece tutt’ora attuale. “Gli italiani perdono partite di calcio come se fossero guerre e perdono le guerre come se fossero partite di calcio”, un detto più che attuale alla luce delle prestazioni degli azzurri, che fanno di quell’orgoglio patrio – certo anche caciarone e coatto, da infradito e borsello, da magheggio alla Snai, da caffè al tavolino di plastica marchiato Sammontana, per l’appunto – uno dei loro più grandi punti di forza.
Anche il battagliero Maguire, uomo del popolo, sembra fiacco, ridimensionato dal lavaggio di testa seguito alla scazzottata estiva di cui si scriveva su queste pagine poco meno di un anno fa. L’Inghilterra avrebbe bisogno come il pane – pardon, la birra – di icone vernacolari, che però latitano, demonizzate da un sistema Premier League che ha annichilito i vari Joey Barton in favore di un calcio omologato ed omogenizzante.
I tre leoni di Southgate sono il fantasma di quelli visti al mondiale del 2018, quelli sì giovani e affamati. L’involuzione della nazionale inglese mette in luce il ruolo chiave che la stampa può ancora giocare nello sport, purtroppo non come strumento critico ma come condensatore di pressioni, regista di sorti.
Ripetendo un copione già visto troppe volte – proprio con quelle nazionali che volevano farsi belle e cosmopolite, Eriksson prima, Capello poi – i Tre Leoni si incartano su sé stessi, divorati dalle aspettative di bissare quell’unico mondiale vinto. Così si paralizzano di fronte a una Scozia sì tecnicamente inferiore, ma padrona del match grazie al suo orgoglio patrio. Lo stesso orgoglio che sta trasformando le nazionali della diaspora dell’ex blocco sovietico da squadre materasso ad avversari ostici. Un match, quello della settimana scorsa, in cui gli scozzesi hanno ricordato l’attitudine agonistica con cui il Torino in passato sapeva colmare il divario tecnico ed economico con la Juventus, ed in cui gli inglesi hanno invece ricalcato la paralisi da pressione mediatica con cui oggi i granata (non) affrontano il derby.
Se la narrazione politica giustifica l’orgoglio indipendentista di Scozia e Galles, diversa è la rappresentazione domestica dell’Inghilterra a cui viene associato lo stigma ormai irremovibile dell’oppressore e del colone, dinamica con cui il vecchio continente sta familiarizzando sempre di più. Il girone disputato dall’Inghilterra mette in luce una nazione profondamente divisa, culturalmente e ideologicamente allo sbando, dove la working-class bianca è sempre più demonizzata e quella figlia della diaspora africana e caraibica è tutelata a parole, ma alienata e ghettizzata nei fatti.
L’Inghilterra nera si sente così sempre più cosmopolita e sempre meno incline a spartire qualcosa con la nazionale ed il suo stemma, dopotutto storicamente troppo pesante e distante dai quartieri londinesi di Brixton o Stratford.
Una dinamica socio-sportiva che tocca anche altri paesi europei dal marcato passato coloniale, come la Francia e la Germania. Ai galletti di Deschamps la spocchia e le qualità tecniche individuali, che li avevano sinora portati ad ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo, a poco sono servite non appena è stato necessario dimostrare di essere squadra. Chissà, invece, se una Germania ridimensionata sarà ancora capace di fare leva sulla sua attitudine teutonica nel compiere quella che, a fine ciclo, risulterebbe come una mezza impresa.
Insomma, la mancata conferma europea dell’Inghilterra, la vittoria del girone che sa comunque di fallimento, più che di Southgate è colpa del nuovo spirito del tempo, di uno zeitgeist che mortifica e sterilizza il campanilismo come motore delle imprese sportive. Il flop inglese è figlio dell’etica cara a una visione no border del mondo, in cui le bandiere sono ingombri e non simulacri. Visione del calcio e della geopolitica che un domani, chissà, potrebbe consegnarci una Superlega per nazionali, una grande Pangea di superstar del pallone su modello Fifa Ultimate Team.
Se indossare la casacca della nazionale è tutto onere e niente onore, è spontaneo domandarsi come la Football Association debba lavorare meglio – sia sul piano della comunicazione politica che su quello di un’inclusività etnica che vada oltre le parole di circostanza – per creare una nuova generazione di calciatori che siano anche patrioti di una New Britannia. Con la Germania si preannuncia un’altra Balaclava. Anzi, si dubita che Grealish voglia indossare un passamontagna come i suoi avi in Crimea. Sia mai che scomponga la pettinatura.