Una squadra forte, quando vuole.
Il rendimento dell’Inter di questa stagione, versione Dr Jekyll (nelle coppe) e (Mr Hyde) in campionato, come la definisce oggi la Gazzetta dello Sport, è quasi un paradosso sportivo, fondato su numeri surreali come le 10 sconfitte incassate in campionato (più di una su tre) e le 2 su 13 maturate nelle altre competizioni (circa una su sette). Eppure, intanto non è il primo caso di una squadra ‘formato coppe’, che arranca in campionato e splende nei trofei ad eliminazione diretta, nazionali ed internazionali. Ma poi è un rendimento, quello dell’Inter in Europa, che non ci sorprende neanche troppo.
In passato ci siamo presi molte critiche per aver scritto che i nerzzurri – tralasciando l’exploit del Napoli, che quest’anno è semplicemente oltre – avessero la rosa più completa e meglio costruita della Serie A, o comunque quella dal “peso specifico” più rilevante: nettamente più forte del Milan, decisamente meglio assemblata della Juventus, con un modulo definito e una coppia di (ottimi) giocatori per ogni ruolo. Per questo scrivevamo che l’Inter fosse quella, tra le italiane in Europa, più in grado di alzare l’asticella proprio grazie al livello e al peso dei suoi giocatori.
Ieri lo ha dimostrato giocando una “partita seria”, copyright di Boban per definire le ottime partite di squadre forti. E rimarcando che la differenza con il Benfica c’è, e non è solo quella del valore della rose di Transfermarkt (313 mln quella lusitana, 534 quella italiana).
Eppure i numeri, soprattutto questi di proiezione economica, contano fino ad un certo punto. Contano di più quelli reali ed erano questi a spaventare: il Benfica aveva sempre segnato nelle precedenti 13 di Champions, con una media di 2.5 gol a partita; non aveva mai perso in Europa, arrivando primo nel girone di Juventus e PSG; non aveva mai subito sconfitte in casa in tutta la stagione prima dell’ultima per 1-2, di cinque giorni fa, in campionato con il Porto – quando però già il margine sulla seconda era di sicurezza (+10 punti) e il pensiero andava inevitabilmente alla partita con l’Inter.
Insoma il Benfica era uno dei club con i numeri migliori d’Europa, in patria e fuori. Si parlava del suo allenatore e dei suoi giocatori, di quelli rinati e di quelli in rampa di lancio, e soprattutto si parlava della qualità del suo gioco. Al da Luz, tuttavia, si è visto poco e nulla di tutto ciò: i portoghesi si sono rivelati un’autentica delusione, dal punto di vista tecnico, tattico e fisico, e come sempre in questi casi è difficile capire fino a dove arrivino i demeriti di uno e dove iniziano i meriti degli altri. Quel che è certo è che l’Inter è riuscita ad incartare, imbrigliare, a disinnescare fino quasi a spegnere i padroni di casa.
Un’Inter di grandissima personalità, capace di gestire la partita e i suoi momenti, con dei singoli in grado di alzare il livello proprio quando il gioco si faceva duro e il pallone si faceva pesante. A partire da un blocco arretrato sostanzialmente perfetto, con un Bastoni in versione assistman stellato, un Acerbi impressionante e uno splendido Darmian, garanzia di affidabilità (e successo), per proseguire con una super mediana composta dalla gara totale di Barella e da quelle, di qualità ma anche di sacrificio, di Mhkytarian e Brozovic. Ma sono la prestazione collettiva, lo spirito e l’attenzione ad aver fatto la differenza. Come scrive Paolo Tomasselli sul Corriere della Sera:
«una squadra accorta e coraggiosa al tempo stesso, abile a tenere alto il baricentro senza calare mai l’attenzione, lesta a chiudere le linee di passaggio e a colpire con le ripartenze». Con Vernazza su Gazzetta che l’ha definita “un’Inter di lotta e di governo“.
Da parte sua Simone Inzaghi ci ha tenuto a chiarire: «io lavoro per il bene dell’Inter, questa non è la mia rivincita»; eppure, inevitabilmente, lo diventa. Sì perché l’Inter sta sotto performando in campionato (e anche pesantemente) e sovraperformando in Europa, rispecchiando da una parte il profilo da ‘copetero’ del suo allenatore, dall’altra l’anima stessa, pazza e capace di tutto, nerazzurra: un’anima che si alimenta di altissimi picchi e di fragorose cadute, di superamenti inaspettati e di masochismi imparagonabili. Come ha detto Fabio Capello nel post-partita:
«Se sono l’allenatore vado negli spogliatoi e dico: ragazzi complimenti. Però… mi fate incazzare! Perché non avete giocato sempre così? Perché non vi siete sacrificati? Bravi, però ragazzi, abbiamo regalato punti e punti…»
Eh perché… Per quell’anima giovanile nerazzurra che vive di assoluti e di totalità, incapace di mezze misure, in grado di accendersi quando vede il Barcellona, il Napoli, il Benfica e di spegnersi quando va in trasferta a La Spezia, a Bologna o a Salerno. Un’anima, tanto per dire, agli antipodi rispetto a quella cinicamente solida juventina, e che non a caso Antonio Conte aveva provato a cambiare. Se la Juventus una volta che ti prende ti stritola come un Boa constrictor, fino a non lasciarti più respirare, l’Inter è capace di compiere la più grandiosa e spettacolare caccia della savana, salvo poi lasciar andare la preda quasi fosse un gioco.
È nel DNA del club e anche questo fa parte del fascino del calcio, del tifo e del tifoso. Per questo però, e i e i tifosi nerazzurri lo sanno, bisogna stare attenti al ritorno: perché l’Inter non è la Juventus, e perché con l’Inter può succedere sempre di tutto. Nulla è ancora deciso, niente è ancora scritto. Ma ieri sera, a Lisbona, abbiamo visto una squadra forte, più forte dell’altra. Una squadra capace di alzare il livello quando vuole e di competere con le migliori del mondo. Dovesse superare lo scoglio del ritorno, potrebbe poi succedere di tutto: mai mettere limiti alla provvidenza, e soprattutto alla pazzia.