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29 Febbraio 2024

L'Inter di Inzaghi è follia organizzata

Dal futurismo al calcio del futuro.

Se volessimo trovare una definizione per la più importante avanguardia artistica italiana – e tra le più importanti a livello europeo – il futurismo, la si potrebbe definire una “follia organizzata”. Uno slancio in avanti, ottimista e distruttivo al tempo stesso. Soverchiante primato del genio sulla tradizione. Il futurismo è l’Italia del triangolo industriale, del decollo economico italiano di fine ‘800. È Milano che si fa cuore della più avanzata regione d’Italia.

La prima a sviluppare una colta borghesia, che si fa ribellione giovanile, e che verrà convogliata nei movimenti politici di massa socialisti, sindacalisti rivoluzionari, nazionalisti ed irredentisti. Proprio Milano, nello stesso periodo, accoglie lo sport di massa per eccellenza. Quel football che dall’Inghilterra si diffonde prima nelle vicine Genova e Torino. A Milano il calcio si fa arte. Incontra l’anima meneghina, che è italiana ed europea al tempo stesso.



E se il Milan – che già nel nome rievoca le anglicissime radici d’Oltremanica del “giuoco meraviglioso” – ne è il primo prodotto, la sua scissione riflette il clima milanese dell’epoca. Ne scandisce la traiettoria della propria cifra antropologica (per usare una terminologia geopolitica). L’Inter nasce tra gli artisti de “L’orologio”: è già futurismo puro. Squadra che anela le stelle, filosoficamente e non solo.

Lontana dal pragmatismo conservatore dei non ancora rivali della Juventus.

L’Inter è una squadra di artisti, pensata per artisti. Amata da chi ha in sé il germe della follia. La sua storia sportiva risponde a questo DNA. Ma come nell’avanguardia artistica italiana, è follia guidata. Che storicamente è degenerata, spesso e volentieri, nell’anarchia dei singoli. Tanto da creare – in tempi anche recenti – il mito della “Pazza Inter”, inno ormai bandito in quel di San Siro.

Oggi, invece, si fa ancora una volta macchina perfetta, profondamente umana ed italianissima. Come l’Italia celebrata dal futurismo, che vuole la conquista del cielo e della modernità, che vuol farsi nazione e afflato universale al tempo stesso, grazie ad una tecnica nel senso latino del termine, come indirettamente sostenuto da Giordano Bruno e Leonardo da Vinci: la mente che domina la mano, che produce il progresso. Estensione dell’uomo, suo potenziamento indefinito. Infinitamente piccolo che si fa infinitamente grande.

L’Inter di Simone Inzaghi, oggi con distacco siderale (e non solo a livello di punti) dalle concorrenti, è una meraviglia per gli occhi. E se la pancia del tifoso medio ha più importanza – dovrebbe averne – rispetto agli esperti sbandieratori di una presunta fallimentare gestione del mercato, con un’Inter destinata a risentirne, il gioco espresso da questa squadra è forse il migliore da decenni a questa parte.

L’Inter di Herrera, Trapattoni, Mancini, Mourinho o Conte furono squadre micidiali, talentuose, vincenti oltre ogni ragionevole dubbio. Furono però sempre un misto di cattiveria agonistica, difesa solidissima e all’ “italiana”, esaltazione di fuoriclasse puri.

L’Inter di Inzaghi è, in aggiunta, fatta di pennellate geniali. Una coreografia di indicibile perfezione. Passaggi quasi alla spagnola, ma senza il leziosismo del primo Guardiola; verticalismo purissimo. Recupero palla e sviluppo sulle fasce che condensano, risolvono, portano al culmine hegeliano quella piccola rivoluzione calcistica traslata nel 3-5-2 nostrano. Sintesi di Gasperini, Guidolin e Conte, con un tocco di Europa delle grandi, le stesse tra le quali l’Inter – unica tra le squadre italiane – siede per indiscutibile superiorità tecnica.

Al contempo quel cambio di passo gestionale avviato da Marotta e inizialmente, perlopiù, ignorato (quando già nel 2019, dalle colonne di Contrasti, si prevedeva l’anelante maturità nerazzurra a partire dalla gestione del caso Icardi), ha posto le basi del successo attuale, comunque finisca. Dal 2019, la follia interista è lucidissima organizzazione.



E se i paragoni non sono nel gioco, vi è una costante in tutta la storia nerazzurra: che l’Inter non è squadra da vittorie scontate. Il suo eccezionalismo si associa alla antropologica evidenza di aver conquistato quasi ognuno dei suoi titoli in condizione di nettissima superiorità sulle avversarie. Semmai tagliandosi le gambe da sola in varie occasioni. Detto in altri termini: l’Inter, quando vince, lo fa in maniera clamorosa.

Dai record di Trapattoni, alla corazzata di Mourinho, è la storia a parlare. Se però si volesse trovare un paragone illustre, si deve risalire all’Ambrosiana (nome autarchico fascista per l’odiato afflato internazionale dei meneghini) di Árpád Weisz. Un genio ungherese ed ebreo; danubiano come l’idea stessa del calcio come spettacolo, vittima dei carnefici nazi-fascisti, e al comando della prima Grande Inter e alla guida del leggendario Giuseppe Meazza. 85 gol fatti (contro i 63 del Genoa, secondo). Un gioco impressionante, ad assecondare il rendimento mostruoso del “Peppìn” Meazza, con 31 gol segnati alla prima da professionista nella prima Serie A a girone unico. A ricordarci come la follia dell’Inter, quando viene canalizzata, è anticamera di trionfi al di là del tempo e dello spazio. È solo il caos – per citare Nietzsche – a partorire una stella danzante. Come l’Inter di Inzaghi.

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