Italo Cucci sulle colonne del Corriere dello Sport del 10 marzo scriveva di un’Inter che storicamente converte i profeti del bel gioco alla concretezza, o addirittura all’italicocatenaccio. Accadde con Herrera, arrivato come “mago” dal Barcellona e subito italianizzatosi per centrare i traguardi della Grande Inter, accadde anche con Mou, in quegli anni alla ricerca di un gioco più simile a quello del rivale Guardiola che però sconfisse, guarda caso, ancora grazie a una difesa stoica in quel del Camp Nou.
Eppure oggi che secondo Cucci, come per il covid, siamo alla “seconda ondata” di qualunquismo e quindi di giochismo (“dopo la prima prosciugata da Gianni Brera”), sembra che la Beneamata non sia riuscita a convertire l’ultimo dei suoi condottieri.
Consideriamo per un attimo l’ambiente nel quale Antonio Conte si è trovato catapultato lo scorso anno: la prima Inter cinese della storia, con mire espansionistiche mai nascoste. Non solo una società moderna, ma forse la più moderna che si sia mai vista in Italia, capitanata da una società, Suning, che fin dall’acquisizione del 2016 ha sempre utilizzato un lessico più imprenditoriale che sportivo. A precisa domanda del Corriere della Sera «Per Suning l’Inter che cosa rappresenta?», il presidente Steven Zhang nel luglio 2019 rispondeva: «Nell’area sport-entertainment è un grande asset»; insomma, non proprio le parole che utilizzerebbe un appassionato di calcio.
Si è vociferato inoltre a lungo di un prossimo network globale di squadre Suning, e già dal 2017 ha iniziato a operare Inter Media House, la prima casa di produzione di materiale audiovisivo per promuovere il brand di una squadra di calcio in Italia. Ecco, se paragonato a questa globalità e a questa ricerca quasi ossessiva dell’avanzamento tecnico, Antonio Conte muove quasi a compassione.
In una Instagram story pubblicata appena due giorni dopo la partita del 28 novembre contro il Sassuolo, presto divenuta virale proprio per la sua eccezionalità rispetto al tipo di comunicazione a cui l’Inter di Suning aveva abituato, l’abbiamo visto nei panni del peggior attoruncolo di emittenti locali sollevare una tazzina del bar del Suning Center, e rivolto alla fotocamera di un cellulare dichiarare:
“Il buongiorno ad Appiano si vede dal mattino, con un buon caffè!”.
Non si sa bene perché, non si sa bene per chi. Non si trattava di una pubblicità, anche se ne aveva le fattezze. Romanticamente si potrebbe asserire che in quel momento Conte l’abbia fatto per se stesso, per ripartire dalle sue antiche certezze calcistiche vacillate fino a quel momento e rinsaldate dopo quella partita, che col senno del poi tutti considerano la svolta stagionale della sua Inter.
La trasferta a Sassuolo per la nona giornata di Serie A aveva visto infatti il ritorno al 3-5-2 e insieme il ritorno a una vittoria “di concretezza” dopo il sali scendi di inizio stagione. Fuori Eriksen e con lui il 3-4-1-2, un modulo impiegato più per volontà della società fino a quel momento. Fuori la ricerca di un gioco offensivo e di possesso e dentro “gli attributi”, come li chiama sovente il tecnico leccese, la concentrazione difensiva massima, i contropiedi chirurgici. Dopo quella vittoria per 3 a 0 arrivò l’insperato successo a Monchengladbach, sempre col 3-5-2, che rimise la squadra in corsa per quegli ottavi di Champions solo sfiorati, infine, a causa dello 0-0 casalingo con lo Shakhtar.
Il video del caffè, italianissimo e insieme epicamente arretrato, può essere considerato allora parte di un “ritorno alle origini” maturato sul campo, un tentativo di riportare la sua società sulla terra anche comunicativamente parlando. Dopo Sassuolo sono arrivate ventuno vittorie in ventisei partite, sufficienti per dominare un campionato e far storcere il naso a qualcuno, come al solito. Perché quel suo modo di far giocare la squadra da lì in poi non ha soddisfatto né gli esteti né chi si occupa di montare gli highlights. Nel girone di ritorno ad esempio l’Inter batte l’Atalanta per uno a zero con un solo tiro in porta in tutta la partita, “E cosa mostriamo ora ai tifosotti sul divano?” si chiede più di un autore televisivo.
Ma questa è l’Italia, come direbbe il rapper Salmo. Gli allenatori più vincenti della nostra Serie A sono Giovanni Trapattoni (7 titoli), Massimiliano Allegri (6 titoli), Fabio Capello (5 titoli) e Marcello Lippi (5 titoli), nessuno dei quali è riconosciuto come un teorico del “bel gioco”. Ci ha provato anche Beppe Marotta a spiegarlo agli esteti, prima di Inter-Cagliari dell’11 aprile:
“Il nostro centro estetico è la Pinetina, dove c’è tutto e c’è uno staff preparatissimo. Non è guardando la percentuale del possesso palla che si vincono i campionati. Citando Heriberto Herrera, il possesso calcistico è quando parla la classifica in termini di punti e non quello territoriale in campo”.
Curioso il richiamo dell’Ad nerazzurro ad Heriberto Herrera. Quest’ultimo vinse infatti uno scudetto sulla panchina della Juve rimontando proprio i formidabili campioni del “mago”, e nel mondo del calcio italiano si guadagnò il soprannome di “sergente di ferro” poiché veniva spesso alle mani con i suoi calciatori se questi non eseguivano i suoi ordini (egli fece addirittura venir meno lo stile aristocratico del club di Torino, al punto che Gianni Agnelli una volta commentò infastidito: «Siamo diventati una squadra socialdemocratica…»).
Più che un novello Saragat Conte sembra però un capitano pirata, convinto che anche il più maledetto dei suoi mozzi possa apportare il giusto contributo se messo in condizione. La condizione è, vale ribadirlo: sposare indiscutibilmente e appassionatamente la sua causa. Se ciò non accade: via la stima, via il posto, via i gradi (Eriksen docet).
La vicenda del danese potrebbe essere emblematica di ciò che Conte è riuscito a fare all’Inter nella sua interezza: dopo il derby perso nel girone d’andata ammise candidamente che non voleva più giocare col trequartista, anche se “qualcuno” ai piani alti della società glielo voleva imporre. Eriksen era stato forse concepito come un acquisto simbolo del ritorno dell’Inter nell’élite del calcio europeo, il suo utilizzo era stato dato per scontato e la parola “scontato” è forse quella maggiormente in grado di far imbestialire uno come Conte.
Il centrocampista ha iniziato così a collezionare panchine fino ad arrivare a un passo dall’essere ceduto nella finestra invernale, ma poi, da febbraio, ha trovato nuova vita nella posizione di mezz’ala sinistra dando un contributo importante alla volata finale della sua squadra. Cos’è cambiato? Il pirata si è forse fatto convincere dalla dirigenza? Macché, anche quando lo ha rimesso negli undici ha continuato a non farsi condizionare dai nomi: in panchina ci è finito il suo pupillo Vidal, uno di quelli che come ha dichiarato più volte “vorrebbe sempre con sé”, artefice però di una stagione da brividi.
La sensazione è che Eriksen abbia iniziato veramente a giocare solo quando si è votato lui, completamente, alla causa italiana della quale Conte è guardiano infaticabile. Resta a tal proposito nella storia l’intervista post Inter-Lazio del 14 febbraio nella quale il mister affermò che sì, Eriksen stava divenendo un titolare, ma non per chissà quale movente estetico. Il vero motivo era che aveva “una gamba più rabbiosa” di prima – immaginiamo il piccolo principe di Middelfart chiedere la traduzione in danese.
Anche dalla presa di posizione contro la Superlega, e quindi contro la sua stessa società, si capisce come l’unica bussola del tecnico leccese siano sempre “le tradizioni”, ancor prima del guadagno. L’ha ripetuta ben tre volte quella parola, nell’intervista post Spezia-Inter, quando la disfatta degli Agnellez era ancora fresca:
“Da uomo di sport io penso che non bisogna mai dimenticare le tradizioni. In tutti gli sport le tradizioni vanno sempre rispettate, perché appartengono alla storia ed è bello mantenere sempre le tradizioni in assoluto”.
E in che tracciato della tradizione del calcio italiano si collochi è facile da intuire: lanciato da Trapattoni (un altro che all’Inter ha vinto senza convertirsi, perché già convintamente pragmatico), ha dato il meglio di sé da calciatore sotto la guida di Lippi, del quale ha inevitabilmente carpito i metodi e lo stile spacconesco. Volendo tornare ancora più indietro, potremmo definirlo un Nereo Rocco 2.0. Sì, quel Nereo Rocco che soleva farsi beffe dei suoi colleghi italiani apparentemente moderni, perché come affermò una volta:
“Dal lunedì al venerdì i xe tuti olandesi. Al sabato i ghe pensa. La domenica, tuti indrio e si salvi chi può”. E infatti nel momento della verità anche l’Inter di quest’anno ha pensato prima di tutto a difendersi, come da manuale della grande scuola italiana.
Per questo non poteva essere vero il Conte di inizio stagione, che diceva di “godersi il percorso” prendendo tre gol dalla Fiorentina e due dal Benevento. A tutti era sembrato posticcio. Mentre era sicuramente in sé quel Conte infervorato che, dopo Inter-Cagliari uno a zero con gol di Darmian al 77esimo, ammetteva con occhi sgranati: “Vincere mi piace troppo!”. Altro che percorso.
Darmian è una di quelle storie “alla Giaccherini” a cui Conte ci ha abituati. Ha segnato anche il gol dell’1-0, ancora striminzito, contro lo Spezia la scorsa settimana. Trattasi di un diligente ragazzo italiano con un’importante esperienza all’estero che Conte ha addirittura preferito ad Hakimi per un bel gruzzolo di match. Il marocchino mostrava doti offensive indiscutibili, certo, e alla società era costato qualcosa come 40 milioni, però in quel periodo “non sapeva difendere”, secondo il suo mister.
Viene da chiedersi cosa veda veramente nei suoi calciatori, Antonio Conte, e perché sotto la sua guida tutti inizino a dare il meglio prima o poi. Chissà se presta davvero attenzione ai loro gesti tecnici o se piuttosto non li guarda solamente negli occhi, durante gli allenamenti, per leggervi il coraggio e la fierezza che da loro si aspetta. La sensazione è che, ancor più che vincere, lo soddisfi farli esprimere tutti al massimo del potenziale, seguendo una maieutica del sudore e della passione:
il ciclone Lukaku, il Barella stellare a tuttocampo, il nuovo trio difensivo che gli “ricorda molto la BBC”, perché “anche loro non avevano ancora mai vinto nulla”, sono solo gli ultimi dei suoi capolavori.
L’ultimissimo, ça va sans dire, è lo scudetto riportato sulle maglie nerazzurre dopo undici anni, che in questo momento storico vuole far riflettere un’intera nazione: in un calcio già da tempo economicamente insostenibile e messo ora in ginocchio dalla pandemia, non sarebbe meglio tornare a educare i campioncini in erba secondo i dettami della scuola nazionale che ci ha portato da sempre in alto? Quando ciò accade, capita pure che le partite le risolvano i Darmian o i Grosso, e non solo i Guardiola. Chi vuol capire capisca.