L'Inter di Inzaghi è troppo poco “sporca”.
A Roma, dove Simone Inzaghi è di casa, si dice che davanti alle telecamere il mister non critichi mai la sua squadra per non generare incertezze nel gruppo e insieme non perdere autorevolezza. Un metodo radicalmente opposto a quello di allenatori come Allegri e Mourinho, che quando c’è da bastonare lo fanno senza scrupoli anche in conferenza stampa, puntando sul valore pedagogico magari un po’ antiquato dei ceffoni. Quando ad esempio a febbraio, prima del deludente pareggio per 0-0 contro il Genoa, si è trattato di commentare il periodo di forma dei suoi attaccanti, Inzaghi ha negato qualsiasi tipo di problematica:
«la preoccupazione salirebbe se non dovessimo creare occasioni», dichiarava con fare tranquillo, nonostante nelle precedenti sette gare Lautaro Martinez fosse andato completamente in bianco e Dzeko avesse segnato solo due gol. Quando poi lo scorso venerdì, prima dell’ultimo match contro la Fiorentina, gli è stato chiesto dei miseri 6 punti racimolati nelle ultime 6 gare, ha dichiarato di essere dispiaciuto «per aver raccolto meno di quello che si sarebbe meritato».
Sabato ancora, dopo l’ennesimo pareggio incolore arrivato in casa per 1 a 1, ha provato prima a gettare acqua sul fuoco – sempre perché «la squadra sta creando tantissimo» – ma poi, fuori dai denti e con occhi un tantino spauriti, è stato costretto a capitolare. In barba al suo metodo e al suo aplomb gli è stato semplicemente impossibile continuare a negare che qualcosa nella sua Inter si sia evidentemente inceppato:
«Dopo Torino mi aspettavo sicuramente di più, ma anche io non sono esente da colpe perché sono responsabile in quanto allenatore».
Una piccola ammissione improrogabile, a ben vedere, ora che i numeri delle ultime 8 partite descrivono la condizione di una squadra in palese difficoltà. Sono infatti solo 10 i punti ottenuti mentre Milan e Napoli, seppur con un passo non irresistibile, ne facevano rispettivamente 18 e 17. Ma ancor più di questi numeri a destare le preoccupazioni dell’ambiente interista sono state le prestazioni in campo, divenute improvvisamente sonnecchiose oltre ogni limite, nonché i comportamenti individuali di alcuni giocatori, inquietanti indizi di un ambiente sempre meno coeso.
Il senso del disfacimento lo dà ad esempio Arturo Vidal, che serenamente rilascia dichiarazioni in settimana sulla sua prossima squadra (per gli appassionati di calciomercato: sarà il Flamengo) e ciononostante viene premiato nel weekend con la titolarità a causa dell’assenza di Brozovic. Ma pure una serie di altre situazioni al limite tra il ridicolo e il grottesco lasciano molto pensare, come la sfrenata competizione a suon di annunci social tra i due bomber placabilissimi Lautaro Martinez e Alexis Sanchez: Toro incatenato l’uno, leone in gabbia l’altro, una selva di emoji incattivite a popolare le loro storie instagram e intanto zio Dzeko a tenere su la baracca, quando possibile.
Ma anche questo ultimamente è in vistoso calo, così come altri protagonisti della prima parte di stagione: da Barella, sempre più appannato, a Calhanoglu, nuovamente evanescente, fino ad arrivare a un Perisic che sembra aver pagato il rendimento mostruoso tenuto fino a gennaio. Ma in generale nessuno si salva pienamente, e proprio per questo il discorso sui singoli è valido fino a un certo punto (così come quello sugli infortunati, che nel corso dell’anno sono stati molti meno rispetto alle altre big).
La sensazione è che da qualche tempo sia in realtà tutta la squadra, mister compreso, a credere che la palla debba entrare nella porta avversaria per chissà quale misteriosa inerzia, o meglio, chissà quale misterioso “gioco”. Del resto erano tutti d’accordo, all’indomani della Supercoppa vinta a gennaio, dell’infallibilità di un meccanismo ritenuto perfetto, la meravigliosa Inter di Inzaghi per la quale si arrivava addirittura a scomodare (udite udite) il “Field Tilt”, ovvero «l’indice che misura la percentuale di possesso palla considerando solo i passaggi che avvengono nell’ultimo terzo di campo».
«È salito al 59,5 per cento, contro il 52,8 dello scorso anno con Conte», diceva Aldo Comi, fondatore della società di analisi Soccerment, a Repubblica.
«E la maggior produzione offensiva non va a scapito dell’attenzione difensiva: la squadra di Inzaghi concede in media 0,99 Expected goals a partita, mentre con Conte ne concedeva 1,03». In un contesto del genere, e di fronte a performance corali che sul campo manifestavano la stessa armonia di una sinfonia classica, pareva a tutti impossibile, allora, che la compagine di Inzaghi potesse di lì a poco incepparsi e accartocciarsi come ora sta facendo.
Tra i commentatori, i “giochisti” radicali non riescono a farsene una ragione. Per chi è abituato a guardare il calcio come un flipper distante dalle passioni, regolato da schemi provati e riprovati in allenamento che predeterminano qualunque giocata poi realizzata in campo, è normale che il calo dell’Inter risulti semplicemente inspiegabile. Perché se si prendono in considerazione solo i dati sulla cosiddetta produzione offensiva e la fase difensiva – quelli che fanno dire a Inzaghi che non è preoccupato perché l’attacco crea molto –, si nota subito che durante il recente momento di flessione questi non differiscono granché da quelli dei periodi rosei.
Qualcuno prova a prendersela allora con la forma fisica, desistendo solo quando si accorge che anche i chilometri percorsi dalla squadra prima e durante la crisi sono esattamente gli stessi. Si tenta quindi in ultima battuta di attribuire i meriti alle avversarie via via incontrate dai nerazzurri, divenute improvvisamente consapevoli di ogni limite tattico del gioco di Inzaghi, e però anche questa spiegazione, proprio perché basata solo sugli avversari, non può che essere parziale.
La sensazione allora è che per giustificare un declino tanto apparentemente “strano” si debba in qualche modo andare oltre ciò che è in piena luce.
Oltre le spiegazioni più semplici e quindi oltre il “gioco” nella sua concezione più riduzionista. Per capire l’attuale crisi dell’Inter bisogna anzi riconoscere che il bel gioco mostrato fino a gennaio potrebbe essere stato, in un certo senso, addirittura la causa stessa dell’attuale penuria di vittorie. Proprio perché era l’unico modo che conosceva l’Inter per vincere; perché in concomitanza con i meravigliosi ricami mostrati in campo, probabilmente in seno alla squadra non si sviluppava quella mentalità vincente necessaria da sempre per conquistare un campionato.
Può sembrare una provocazione ma non per il lettore consapevole di quanto conti, al di là delle tattiche messe in campo, quel certo mix di professionalità/convinzione/esperienza nell’economia di una stagione, specie quando si arriva a marzo e i punti iniziano a “pesare”. Si potrebbe estremizzare e al contempo semplificare il ragionamento dicendo che, forse proprio per via dell’elevato grado di automazione della collaudatissima macchina progettata da Mister Inzaghi, quando poi questo marchingegno perfetto ha vissuto i primi imprevisti problemi, non è stato possibile attingere a quelle risorse morali che la superiorità nerazzurra (tecnica e tattica) aveva relegato in secondo piano.
Luca Taidelli a tal proposito ha scritto sulla Gazzetta che all’Inter più di ogni altra cosa «manca la famosa cazzimma», e passando poi in rassegna le uniche statistiche realmente degne di nota ha aggiunto: «Sono in aumento le braccia allargate per il passaggio sbagliato di un compagno, invece che gli scatti in più per rimediare a una situazione sfavorevole». Insomma, mentre Inzaghi si preoccupava di mantenere alto il conto degli expected goals, forse non si accorgeva che mancavano nel frattempo gli “expected huevos”, gli “expected sacrifici”, gli “expected valori di squadra”, fattori ancor più indispensabili della produzione offensiva per qualunque compagine che ambisca a vincere un campionato.
Si sono così susseguite una serie di partite giocate a volte bene e a volte meno bene, ma sempre accomunate da due costanti: la tremenda difficoltà nel segnare gol “sporchi” e la quasi totale assenza di reazione di fronte ai gol avversari, segnali di una mancanza di convinzioni prima ancora che di tattica. L’Inter è sembrata monoritmica, monodimensionale, incapace di adattarsi alle situazioni di sofferenza, mentre quello che sarebbe dovuto essere il momento dell’allungo in campionato si è tramutato velocemente in una sorta di resa silente.
Sembra onestamente difficile, anche se non impossibile, immaginare ora un ritorno dell’antica efficacia.
Ora che qualcosa all’interno del gruppo si è rotto, infatti, i meccanismi tattici più o meno oliati paiono perdere di significato. Ma se resurrezione sarà è chiaro che dovrà passare necessariamente (anzi, ritualisticamente) dalla sfida allo Stadium contro quella Juve che alla, 23esima giornata, era sotto di 11 punti (potenziali 14), e ora si ritrova sorprendentemente a -1 (potenziale -4), pregustando un clamoroso sorpasso.
Sarà la sfida delle sfide di questa stagione, un vero momento della verità per entrambe le squadre nel quale conteranno, ancora una volta, soprattutto i valori morali messi in campo. Perché le vere battaglie, lo sapeva la leggenda del football americano Vince Lombardi, «non sempre le vincono i più forti o i più veloci, ma sempre le vincono gli uomini che lo desiderano di più». Una lezione originaria da segnare sulla lavagna. Preferibilmente, non quella tattica.