Uno Scudetto ottenuto con gioco, lavoro e programmazione.
Nel celebre monologo di Radiofreccia, opera prima alla regia di Luciano Ligabue, Stefano Accorsi, nei panni del tormentato Ivan Benassi, vomitava nel suo flusso di coscienza una grande verità: «Credo che un’Inter come quella di Corso, Mazzola e Suarez non ci sarà mai più, ma non è detto che non ce ne saranno altre belle in maniera diversa». Se possibile è proprio questa kalokagathia che colpisce più di ogni altra cosa di questa Inter scudettata, una squadra che ha tiranneggiato il campionato italiano dal principio senza mai realmente conoscere rivali né difficoltà.
E lo ha fatto con buona pace di tutti i teorici del calcio, divisi negli ultimi anni come non mai nell’eterna diatriba tra giochismo e risultatismo, un dibattito abbondantemente superato in Argentina già quando era nato, tra le fazioni del Menottismo e del Bilardismo, e inevitabilmente stantio anche nella sua forma di revanscismo contemporaneo.
Una cavalcata e una squadra destinata ad avere un capitolo di rilievo nella storia nerazzurra, non solo per la conquista della seconda agognata stella, e nemmeno per averla cucita al petto nella stracittaddina meneghina, in una partita già consegnata alla leggenda, che ha spaccato la città tra sogno e incubo per la prima volta nell’ultra centenaria storia di questo confronto. Sarà ricordata come l’Inter più divertente ed effervescente a memoria di un paio di generazioni, una macchina perfetta che ha contagiato San Siro con la sua freschezza rendendo il campionato nerazzurro una lunghissima Festa Mobile, sovvertendo l’usuale paradigma di sofferenza e delusione che accompagna da sempre il tifo interista.
L’Inter per una volta non è stata pazza, ha più che altro fatto impazzire le rivali incapaci di correrle a fianco e ha contribuito, con questa frustrazione, ad aprire voragini laddove vi erano piccole crepe. È stato il caso del Milan a inizio campionato, prima tramortito nel derby di andata con 5 gol, poi cucinato a fuoco lento durante il corso della stagione. Anche la Juventus ha provato a tenere il passo del Biscione, e fino a febbraio sembrava anche esserci riuscita piuttosto bene. Ma si trattava di una corsa davvero impari, quella tra una macchina tedesca di grossa cilindrata stabile, veloce e silenziosa, e una Uno Turbo spinta alla massima velocità.
Ha retto qualche chilometro, poi il motore ha iniziato a fumare nero e i 22 punti accumulati in poco più di due mesi sono la testimonianza di chi ha perso persino la targa della lepre.
Un capolavoro costruito in tre anni dalla perseveranza del mondo Inter, rappresentato dalla voce afona di duro lavoro di Simone Inzaghi e la regia illuminata di Marotta, Ausilio e Baccin. Il triumvirato di mercato, guidato dal migliore dirigente italiano per distacco, ha avuto il merito di allestire l’ennesimo capolavoro low cost del loro mandato. Su queste colonne abbiamo a lungo e da tempo rimarcato la manifesta superiorità dell’organico nerazzurro, ma vale sempre la pena ricordare come sia stato frutto di abile maestria della propria dirigenza. In un mercato imperniato sull’autofinanziamento, i costanti sacrifici estivi non sono mai stati rimpianti, anzi se possibile sostituiti alzando ulteriormente la qualità globale della rosa.
Mai come in questa stagione l’Inter più che cambiare ha rivoluzionato. Della squadra che ha perso, di misura, la finale di Istanbul dieci mesi fa, ben 12 giocatori hanno salutato Viale della Liberazione, molti dei quali veri totem dell’Inter degli ultimi anni, primi tra tutti Skriniar, Brozovic, Lukaku e Onana. Ai blocchi di partenza molti opinionisti avevano cantato già il requiem di un Inter tardoimperiale, destinata ad attraversare un immediato ridimensionamento e rapido declino. Le scelte di mercato non sembravano agli occhi di molti in alcun modo poter rimpiazzare efficacemente i partenti.
E invece ancora una volta l’esperienza del team di Marotta, caratterizzato da valutazioni attente concordi con le esigenze del proprio allenatore e mosse tempestive, hanno marcato ancora la differenza rispetto a chi ha speso e spanto seguendo trend dettati da big datas o figurine per scaldare la piazza.
Il tutto a disposizione della mano saggia di Simone Inzaghi, al quale vanno indirizzate le scuse prima dei complimenti. Un’ammissione di colpevolezza che riguarda tutti, perché nessuno quattordici mesi fa avrebbe scommesso un euro su un esito simile e forse nemmeno sulla permanenza del piacentino sulla panchina nerazzurra. Certo, Inzaghi Re di Coppe aveva steccato finora sulle lunghe distanze. Si è fatto sfilare uno Scudetto dal Milan di Pioli regalandolo in modo piuttosto banale, e non ha mai retto il ritmo forsennato di Spalletti l’anno successivo.
I mugugni erano comprensibili, ma l’incomprensione sta nell’avere criticato un lavoro che non fosse riuscito a solcare la traccia marcata da Antonio Conte, invece di riconoscere i germogli di una rivoluzione tecnica che ha reso l’Inter di Inzaghi qualcosa di diverso, e persino migliore, rispetto all’ottima squadra di tre stagioni fa.
Tutte le rivoluzioni hanno bisogno di tempo, ma ora i complimenti sono obbligatori. Filippo Inzaghi, il fratello-giocatore più forte e fratello-allenatore più scarso, ha paragonato Simone al suo vecchio mentore Carlo Ancelotti. Un paragone azzardato, data la statura di Re Carlo, uno da 1350 panchine ufficiali e 4 Champions League tra gli altri innumerevoli trofei. Ma con un pizzico di immaginazione e una buona dose di interpretazione si può cogliere il punto di SuperPippo.
Come Carletto, anche Simone ha costruito questo capolavoro sulla calma, la pacatezza, la modestia e l’utilità. Ha trasmesso alla squadra valori e serenità, protetto l’ambiente dalle critiche e le pressioni, infuso tramite convincimento, non imposizione, le proprie idee e dialogato serenamente con la società per trovare le soluzioni più funzionali all’Inter. Il gruppo, da parte sua, ha ricambiato l’allenatore con una dedizione encomiabile. Anche i più sacrificati, tra tutti le gambe forti e i polmoni ampi di Davide Frattesi, non hanno mai alzato la voce, anzi hanno difeso le scelte del proprio allenatore e il loro ruolo anche di fronte anche alle domande più provocatorie, risultando alla fine ugualmente decisivi.
Una coesione che come nelle favole più banali nasce da una sconfitta. Da quella notte turca in cui l’Inter ha capito di poter sfidare le grandi d’Europa e di conseguenza avere l’obbligo morale di imporsi in Italia. Un tacito patto che ha unito il gruppo, ulteriormente cementato probabilmente dal Gran Rifiuto di Romelu Lukaku, che ha responsabilizzato la squadra e insieme ha imposto un veto alla mediazione, non incline ad avere prime donne nello spogliatoio.
Infine, chi ha respirato l’atmosfera del Meazza durante la stagione, non può non avere notato una complicità totale tra l’Inter e il suo popolo, carburante inesauribile anche quando la spia della riserva ha minacciato di accendersi e il motore ha iniziato a borbottare. Perché passi pure l’eliminazione precoce in Coppa Italia, per mano di un Bologna rivelazione della stagione, ma l’esclusione dalla Coppa dei Campioni è stato un boccone amaro da digerire.
Una delusione che non ha spento l’entusiasmo nerazzurro e non oscura i riflessi della seconda stella che ha accesso la notte meneghina. Un trionfo che proprio per riconoscenza verso i propri tifosi l’Inter voleva necessariamente centrare nel derby – e, sinceramente, non ci è mai sembrato che il finale potesse essere differente. Troppa la consapevolezza da un parte e la paura dall’altra, le certezze nerazzurre consolidate da mesi contro le improvvisazioni rossonere. Il derby è stata una formalità che in una sola partita ha ben rappresentato tutte le differenze tra le due squadre di Milano in questa stagione.
A pochi passi da largo Cairoli, dove la Curva Nord ha scatenato il corteo che si è mosso verso il Duomo accendendo la festa, il Castello Sforzesco riposa illuminato in modo modesto e pacato. Al suo interno, lo stemma segreto sotto la torre Filarete rappresenta una scena macabra: un serpente blu che divora un essere umano insanguinato.
Secondo la leggenda sarebbe il mostro Tarantasio, che si nascondeva nel lago Gerundo, da dove terrorizzava e divorava gli abitanti dei villaggi limitrofi all’imbrunire. Uberto Visconti sarebbe riuscito a uccidere il mostro, facendolo diventare così il simbolo della propria dinastia, che oggi troneggia sulle mura di uno dei simboli della città e sullo scudo di una squadra di Milano. Che il mostro Tarantasio sia tornato non ci sono evidenze, ma che il suo Biscione abbia divorato tutte le prede del campionato sì. Almeno per una stagione, Milano non è mai stata così tanto nerazzurra.