In estate quasi tutti avevano recitato il de profundis all’Inter. Dai giornali, indefessi mitraglieri di sentenze affrettate, agli operatori di settore, tutti fermamente convinti che la cavalcata nerazzurra della scorsa stagione fosse trionfo e fallimento, al tempo stesso, in pieno stile Inter. Apogeo e decadimento della dinastia Zhang, in un anno tormentato da fondi bloccati, ombre di cessioni, spauracchi di bancarotta.
I segnali d’altra parte era ben visibili all’orizzonte. Il comandante ha abbandonato la nave con la bocca ancora piena di champagne, in pieno stile Conte. Godendosi le fanfare del successo e avvertendo quell’inconfondibile senso di essenzialità, punto nevralgico dello spiccato narcisismo del salentino. Aveva alzato l’asticella, fingendo di non sentire le sirene di austerity manifestate dal Sol Levante, forse più timoroso di un insuccesso che affamato di riconferma.
Certamente convinto che senza di lui le cose sarebbero cambiate, che l’Inter sarebbe tornata nel vortice dell’inconcludenza.
Il requiem si è levato accorato di fronte al sacrificio pianificato, ma sanguinoso, di Hakimi, esterno più forte dello scorso campionato, ma soprattutto a quello ancora nebuloso del giocatore cardine dei nerazzurri. La partenza di Lukaku sembrava una resa, destabilizzante anche per l’ottimismo contagioso di Simone Inzaghi. In mezzo il terribile dramma del Parken: la tragedia sfiorata il 12 giugno a Copenaghen ha privato l’Inter e il calcio italiano del talento di Christian Eriksen, la luce intorno al quale il tecnico piacentino sognava di fare risplendere la propria creatura.
Eppure, nella tempesta mediatica allestita intorno all’Inter, il solito Marotta ordiva l’ennesimo capolavoro della sua carriera. Nonostante i cordoni legati molto stretti, l’amministratore delegato dei Nerazzurri è riuscito a portare alla Pinetina, a prezzo di saldo, giocatore importanti, ma soprattutto funzionali. Una sintonia con le idee di Inzaghi che ha accomodato la nuova maglia squamata sulle spalle di Edin Džeko, Hakan Çalhanoğlu, Denzel Dumfries e persino Joaquin Correa, a puntellare un reparto ottimo, ma ‘scarno’. Rinforzi mirati per sostituire i partenti: operazioni, sommando altre minori, per le quali l’Inter ha incassato circa 185 milioni di euro, spendendone appena 65.
Un saldo positivo di circa 120 milioni al quale si aggiunge anche un rilevante ridimensionamento del monte ingaggi, di circa 25 milioni annui.
Insomma, gestione finanziaria lungimirante e inappuntabile per la società di Zhang, attesa però alla prova del campo che sembrava potesse riservare molte insidie. Un inizio scricchiolante aveva corroborato le tesi più pessimiste. Ma iltempo è galantuomo, citando un adagio abusato. E dal derby pareggiato amaramente dagli uomini di Inzaghi la sinfonia è decisamente cambiata.
L’inter ha ritrovato la consueta solidità difensiva, collezionando reti bianche in serie e consolidando una produzione offensiva scoppiettante. Inzaghi, come aveva fatto Allegri al suo primo ciclo bianconero, sembra aver perfezionato la squadra ereditata da Conte. Un risultato non casuale, frutto di una scelta consapevole della dirigenza dell’Inter che, a fronte di tecnici più esperti e vincenti, ha preferito l’entusiasmo dell’ex attaccante azzurro: questo ha portato in dote la stessa impostazione tattica assimilata dalla squadra nel ciclo Conte (con idee però molto diverse), oltre alla spregiudicatezza tipica di chi desidera emergere e non ambisce ad essere solo una replica sbiadita dell’originale.
In questo contesto la centralità di Džeko ha garantito qualità e imprevedibilità alla manovra. Nel credo verticale di Conte, il calcio efficace e nevrastenico dell’Inter della scorsa stagione cercava in modo ossessivo – e nel minor tempo possibile – la sagoma imponente di Lukaku, capace di resistere alle prime cariche dei marcatori e, facendo perno sul suo fisico straripante, di scaricare a terra tutti i cavalli per attaccare la porta. Al contrario Džeko, meno propenso allo sviluppo solitario, offre appoggi che aiutano a sviluppare la manovra di cui rappresenta uno degli attori protagonisti più che il solo terminale.
«Abbiamo ritrovato la solidità difensiva che avevamo lo scorso anno, stiamo facendo bene. Lo zampino del mister è importante, ci dà l’imprevedibilità che non avevamo lo scorso anno. Abbiamo fatto un mese perfetto».
Alessandro Bastoni ai microfoni di DAZN.
Un tamburellare di giocate che aiutano l’Inter ad alzare il baricentro, e al contempo esalta anche i singoli. Impossibile ignorare la crescita ulteriore di Barella, libero di cavalcare negli spazi, e decisivo come mai prima negli ultimi 16 metri; non certo per il solo gol siglato finora, ma per un bottino di ben 8 assist e un continuo supporto alla fase offensiva nerazzurra. Ma il discorso potrebbe essere esteso a gran parte della rosa: Lautaro – rigori a parte – sembra essere stato finalmente responsabilizzato nel suo ruolo di leader; Brozović appare al picco della propria carriera, sempre più consapevole in regia, dove ora insieme alla sua endemica dote di ubiquità ha aggiunto precisione e concentrazione. Perišić sta giocando il suo calcio più maturo, completando quella metamorfosi da quinto accettata malvolentieri sotto la guida Conte e ora perfezionata come pochi al mondo.
Ma la mano di Inzaghi ha rivitalizzato anche uomini che l’anno passato avevano ricoperto un ruolo marginale nella stagione interista. Arturo Vidal, utilizzato da ricambio di temperamento, è tornato il guerriero che conosciamo: con le comprensibili difficoltà aerobiche legate a un’età che non si inganna, ma finalmente importante per la causa. Darmian, usato sicuro nell’anno dello Scudetto, ha assicurato una prima parte di stagione da titolare indiscusso, solido e affidabile, perfetto per lasciare il tempo a Dumfries di ambientarsi e crescere. E che dire di Di Marco, convocato in ritiro, verrebbe da dire come al solito, in attesa dell’ennesimo giro di giostra in prestito in qualche piazza italiana. E invece Inzaghi ha creduto in lui dall’inizio tenendoselo stretto, e ora il ragazzo della Curva Nord rappresenta un vero titolare aggiunto di questa squadra.
L’inserimento dei nuovi arrivati è stato impeccabile. Se l’acquisto del giocatore bosniaco era sembrato da subito centrato, hanno fatto più difficoltà gli altri. Il Tucu Correa convive tutt’ora con l’incapacità di essere continuo nel rendimento, persino all’interno della stessa partita: una croce che, alla soglia dei ventotto anni, dovrebbe riuscire ad abbandonare. Dumfries, dopo un avvio degno del più anonimo oggetto misterioso, è cresciuto vertiginosamente proprio quando l’infortunio dell’ottimo Darmian gli ha aperto le porte per l’undici titolare: i 3 gol consecutivi sul finire dell’anno solare rappresentano solo la certificazione di una crescita costante, che ha unito alle indubbie doti di sprinter anche la concretezza che l’avevano designato come erede di Hakimi.
Ma è su Hakan Çalhanoğlu che sentiamo il bisogno di esprimere un paio di valutazioni.
Arrivato a parametro zero in estate dagli odiati cugini, aveva il compito più ingrato. Sostituire Eriksen sarebbe stato complicato già di per sé, considerando il talento cristallino del danese. Ma i modi in cui l’avvicendamento si è consumato non potevano fare altro che avvicinare, se possibile, ancor di più il mondo nerazzurro al proprio numero 24. Un amore passionale, tipico della storia Bauscia, che nel talento e nella sfortuna ha sempre riconosciuto un’attrazione fatale. Eppure Çalhanoğlu ha avuto l’intelligenza di varcare la soglia della Pinetina con l’umiltà che non aveva certo contraddistinto le sue ultime stagioni.
Dopo un avvio singhiozzante, ha ripagato la fiducia di Inzaghi con prestazioni strabilianti che lo hanno celebrato come il migliore rinforzo della passata sessione di calciomercato. I gol e gli assist (a grappoli) ne hanno rimarcato la caratura internazionale, e ora il centrocampo Barella-Brozovic-Çalhanoğlu si candida a essere tra i migliori in circolazione. Ma al di là dei singoli è la solidità di squadra che ha impressionato in questa prima parte di stagione. L’Inter ha interiorizzato la cattiveria agonistica e la consapevolezza forgiata tra gli allori dello scorso anno, aggiungendo l’imprevedibilità dettata dal talento dei propri interpreti.
Una dimostrazione di forza e una risposta a chi aveva troppo presto detronizzato i campioni d’Italia, accecato dal ritorno della Signora e del suo mister e dall’avvio fulminante di Napoli e Milan. Ora pare che l’opinione pubblica (e mediatica) si sia accorta che l’Inter è determinata a difendere il Tricolore e, con la stessa velocità con cui l’aveva seppellita, ora già la incorona campione. A scanso di equivoci, noi non faremo lo stesso errore: i segnali lanciati dal campo sono forti, ma un calendario esiziale tra gennaio e febbraio può scompaginare ogni pronostico.
Le vittorie sono certamente una base molto solida, ma in estate Bebbe Marotta sembra aver anche aggiunto un tassello sconosciuto al mondo nerazzurro: la serenità. Ha mantenuto la barra salda durante gli scossoni estivi e la scelta di Simone Inzaghi ha garantito una comunicazione molto più rilassata all’ambiente. Sono così lontane le sfuriate di Conte sempre pronto a scornarsi contro dirigenti, giocatori, giornalisti, establishment, qualsiasi cosa ma sempre contro. Inzaghi è un uomo determinato, ma pacato, ringrazia e saluta, sicuramente pretende ma non lo divulga alla prima telecamera che lo inquadra. Una dinamica ‘da spogliatoio’ che sgrava la dirigenza dal ruolo di paciere e pompiere, lasciando liberi i vertici di proseguire il lavoro di consolidamento della squadra.
Non è un caso, né tantomeno una formalità scontata, che siano arrivati in serie rinnovi importanti che assicurano continuità al progetto nerazzurro.In primis quelli della dirigenza, degli stessi Marotta, Ausilio e Baccin in via di definizione con il ritorno di Zhang in Italia. Ma soprattutto quelli di Lautaro, Barella, Bastoni, per citare solo i big, e un tavolo aperto per le trattative sul rinnovo di Brozović e Perišić. Lavoro eccellente, dentro e fuori dal campo che ha anche strappato qualche lacrima di coccodrillo o qualche rimpianto – a seconda di come la si voglia leggere – persino alla cessione simbolo dell’estate scorsa.
«Non mi piace paragonare la mia Inter a quella di adesso. Quella attuale gioca veramente bene, spero davvero possa vincere. Auguro sempre il meglio ai miei ex compagni, è grazie a loro che sono il Romelu Lukaku di oggi. Spero continuino a crescere, perché l’Inter e i suoi tifosi meritano di stare al top. Mi auguro continuino a vincere dopo la pausa»
Con 101 gol realizzati, record nerazzurro all-time, e con 104 punti realizzati, record assoluto per il campionato italiano, il 2021 dell’Inter è stato assolutamente straordinario. Il tricolore appuntato sul petto, il primato solitario in campionato, la soglia maledetta dei gironi di Champions League finalmente abbattuta: le prospettive per un’altra stagione trionfale ci sono tutte. Serviranno nervi calmi, animi guerrieri e gestione delle energie. Intanto però quello che è certo è che i botti di inizio febbraio scorso, quelli che festeggiano il Capodanno cinese, difficilmente verrano ricordati a Milano come propiziatori all’anno ufficialmente riconosciuto in estremo Oriente: quello del Bue. Piuttosto ha celebrato l’inizio dell’ascesa dei Nerazzurri, con il sorpasso ai cugini del 15 febbraio mai davvero abbandonato. Più che l’anno del Bue, è stato l’anno del Serpente.