Luca D'Alessandro
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Il 27 giugno del 2016, nella tiepida notte dello Stade de Nice, il triplice fischio dell’arbitro Skomina chiude l’ultimo ottavo di finale dei Campionati Europei, il più classico degli scontri tra il piccolo Davide e il gigante Golia: tra lo stupore generale e la gioia di mezzo mondo, l’Inghilterra si arrende per 1-2 all’agguerrita Islanda, cenerentola e debuttante nel ballo europeo. Grande attenzione alla fase difensiva, compattezza, sapiente contropiede e soprattutto un titanico spirito di sacrificio del gruppo: così la squadra guidata dallo svedese Lars Lagerbäck, che ha come co-allenatore il dentista e coach part-time Heimir Hallgrímsson, riesce a scrivere la storia.
Roy Hodgson al fischio finale si allontana velocemente verso gli spogliatoi, annunciando poco dopo le sue dimissioni dalla panchina dei Tre Leoni. La domanda che si pone, un po’ come tutti, non ha una risposta semplice: come ha fatto una Nazione con gli stessi abitanti della città di Leicester a produrre una nazionale in grado di poter eliminare l’Inghilterra, e arrivare così ai quarti di finale di un Europeo?
A mille chilometri dalle coste della Scozia, nel pieno delle fredde correnti atlantiche, si erge uno degli ultimi paradisi terrestri. Bellezza terribile e sconcertante, in cui è ancora la natura a regolare la vita e a dettare legge, l’Islanda sarà pure il sublime dei romantici, ma è una terra in cui vivere non è per nulla facile. Il primo insediamento vichingo, nella zona dove attualmente sorge Reykjavik, risale circa all’870 d.C., e in poco più di sessant’anni i guerrieri nordici colonizzarono totalmente l’isola. Qui la mitologia ha radici profonde, e si dice che il sangue dei leggendari conquistatori scorra oggi ancora forte nei quasi 340.000 islandesi: temprati da secoli di lotta con il clima ostile, e dalla pesca in oceano come unica fonte di sopravvivenza, gli Islandesi si sono da sempre distinti per l’attitudine al duro lavoro e l’attenzione dedicata ai membri della comunità.
I problemi però nascono anche in paradiso. Così, agli albori degli anni ‘90, le autorità islandesi si accorsero di dover usare le maniere forti per risolverne uno molto serio. Lo stile di vita prevedeva ormai un largo uso di alcolici e sigarette, a cui più volte veniva abbinata anche la cannabis. Le fasce d’età più basse della popolazione dell’isola non facevano eccezione, tutt’altro, e i programmi scolastici di sensibilizzazione non sembravano sortire alcun successo nel moderare il consumo. Così l’Islanda decise di volgere l’occhio oltre oceano.
A Denver viveva un professore universitario di psicologia di nome Harvey Milkman, conosciuto fin dagli anni ‘70 per i suoi studi comportamentali sugli utilizzatori di droghe.
Quest’ultimo si era concentrato sulle motivazioni per cui i soggetti continuassero ad assumere sostanze, e lentamente il focus delle sue ricerche si era sempre più spostato verso i giovani. Milkman venne invitato per la prima volta sull’isola nel 1991 per parlare dei suoi studi e, dopo esser tornato più volte in Islanda come relatore, un piccolo gruppo di ricercatori dell’Università di Reykjavik si decise a chiedere il suo coinvolgimento diretto in un progetto: utilizzare parte delle sue ricerche per provare a cambiare lo stile di vita dei ragazzi islandesi.
Ogni studio scientifico inizia con una fase di raccolta di dati statistici riguardo il problema studiato. Uno dei primi compiti dei ricercatori fu proprio quello di sviluppare un questionario puntuale sulle abitudini dei ragazzi. Oltre alle domande precise riguardo l’utilizzo di sostanze (“Hai mai bevuto?”, “Quando hai bevuto per l’ultima volta?”, “Hai mai fumato?”, eccetera), grazie alla sua esperienza a Denver il professor Milkman spinse gli scienziati a inserire anche quesiti di natura diversa: “Che tipo di relazione hai con i tuoi genitori?”; “Quanto tempo spendi con i tuoi genitori?”; “Che tipo di attività compi nel tuo tempo libero?”.
I risultati del questionario, svolto successivamente ogni anno, diedero un’immagine difficile da digerire: quasi il 25% dei giovani islandesi fumava, più del 40% si era ubriacato nell’ultimo mese e oltre il 15% utilizzava cannabis.
“Ogni studente di college potrebbe spiegare perché i ragazzi provano la prima volta una sostanza. C’è disponibilità, sono temerari, alienati, alle volte anche depressi. Ma come mai continuano? Quando sono arrivato a chiedermi come si passa all’abuso – qui è arrivata la mia personale “eureka”: possono esserci arrivati ben prima che inizino ad assumere sostanze, perché è nel modo in cui affrontano i problemi in cui risiede l’abuso.” (Harvey Milkman, psicologo)
Dopo aver elaborato i dati, e formulato ipotesi sulle migliori abitudini da rafforzare per cercare di prevenire l’uso di sostanze, nel 1999 nacque il Centro Islandese per Ricerche Sociali e Analisi. Lo staff del nuovo organismo era composto proprio da quel gruppo di ricercatori dell’Università di Reykjavik che poco dopo, con il sostegno del governo islandese, pubblicarono vero e proprio piano d’azione. Il fondamento ideologico dell’iniziativa, chiamata “Youth in Iceland”, si basava chiaramente sul pensiero di Milkman, che sostanzialmente credeva di poter sostituire l’utilizzo delle sostanze con altre attività più sane.
Youth in Iceland agì su diversi livelli: attraverso misure radicali, come l’introduzione del coprifuoco per i ragazzi dai 13 ai 16 anni e la formazione di ronde, da parte dei genitori di un determinato quartiere, proprio per controllare il rispetto degli orari; con provvedimenti volti ad aumentare l’interazione tra i teenager e i loro parenti, come l’obbligatorietà di avere un collegio di genitori nel consiglio scolastico e il rilascio di linee guida per gli adulti su come comunicare con i ragazzi e aumentare il tempo libero da passare con loro; infine convincendo il governo a investire pesantemente nelle attività ricreative fuori dall’ambito scolastico, sportive come artistiche e culturali, e disponendo aiuti economici alle famiglie più in difficoltà per usufruire di queste possibilità.
Quindici anni dopo i dati parlano chiaro: i ragazzi islandesi hanno quasi del tutto abbandonato gli stili di vita più malsani. La percentuale di giovani che fuma sigarette si ferma al 3%; i teenager che hanno esagerato con l’alcool almeno una volta nell’ultimo mese, così come gli utilizzatori di cannabis, arrivano a malapena al 5%. Ma come ha interagito questo programma (che sta provando lentamente ad essere esportato in tutto il mondo) sullo sviluppo della generazione d’oro del calcio islandese?
Il primo campo da calcio in erba dell’Islanda risale solo al 1957, ma il football è oggi chiaramente lo sport nazionale. Date le temperature rigide durante le altre stagioni le competizioni si svolgono nel periodo estivo, solitamente da maggio a settembre, e così rimangono ben 7 mesi di preparazione in una sorta di lunghissimo precampionato. Il calcio è ovviamente anche l’attività fisica preferita di tutti i ragazzini dell’isola, che nella loro stupenda ingenuità giocano a pallone infischiandosene delle condizioni atmosferiche non proprio clementi. Partendo da queste osservazioni, la federazione calcistica islandese (KSÍ) e il governo hanno approfittato dello sviluppo di Youth in Iceland per cercare di dare una scossa a tutto il movimento.
Il primo passo è stato quello di investire molto nelle infrastrutture. Dall’inizio del nuovo millennio lo stato islandese ha interamente finanziato la costruzione di moltissimi campi da gioco: otto nuovi impianti totalmente indoor, di dimensioni regolamentari e con strutture complementari all’avanguardia; terreni da gioco all’aperto in materiale sintetico per contrastare il freddo; un’infinità di campetti fuori dalle scuole (di dimensioni simili a quelli per il futsal, se non più piccoli) dedicati più al divertimento e al gioco nel suo aspetto più puro e semplice.
La proprietà delle nuove strutture è rimasta pubblica, ma i club possono usarle se in cambio accettano di allenare tutti i ragazzi della zona senza limitazioni. E le quote che le famiglie pagano per mandare i figli a giocare rimangono quindi sotto il controllo statale, così che possano rimanere volutamente accessibili a tutti.
“I giocatori possono ora competere e allenarsi tutto l’anno. Un numero alto di centri al coperto, campi artificiali con campo riscaldato e che drena l’acqua, sono finiti i giorni in cui dovevamo preoccuparci del terreno duro e ghiacciato. Abbiamo 179 campi regolamentari in Islanda e 23,000 giocatori registrati, vuol dire avere un campo per ogni 128 giocatori!” (Arnar Bill Gunnarsson, Head of Football Development di KSÍ)
Un altro aspetto completamente rivoluzionato, nella formazione dei giovani giocatori islandesi, è stato il ruolo dell’allenatore, il primo fondamentale tramite di conoscenza e passione del gioco. In una nazione in cui non è strano avere due o più lavori, il mestiere dell’allenatore di calcio (che più della metà delle volte è anche un docente scolastico) è stato portato al livello di qualsiasi altra figura professionale, bisognosa di una preparazione di qualità e attestata.
Messa al bando qualsiasi forma di coaching amatoriale – il classico esempio da film dove il padre di famiglia al sabato va ad allenare la squadra giovanile – tutti i preparatori devono avere completato un percorso di studi professionale: la base è composta dai corsi della federazione (il cui budget è interamente formato da fondi europei), ma per gli allenatori delle squadre dei campionati principali è obbligatorio ottenere il badge UEFA. Tutti i coach inoltre sono considerati come professionisti anche dal punto di vista economico, e stipendiati dai club in maniera adeguata.
Di pari passo agli investimenti economici, è partita una vera e propria rivoluzione anche nei metodi di allenamento. Dai 6 ai 19 anni la formazione calcistica è unica, senza differenze tra maschi e femmine che giocano sempre insieme in squadre miste. Inoltre sono assolutamente vietate selezioni di alcun tipo: a tutti i giovani viene data la stessa possibilità di allenarsi insieme fino alla maggiore età. Così non solo è molto più facile tenere traccia di tutti i talenti presenti sull’isola, ma soprattutto si forma fin da subito una mentalità di gruppo forte e coesa, ancora più rafforzata dal percorso comune delle nazionali giovanili.
La mancanza di accademie di élite sembra non costituire un problema nello sviluppo dei talenti più brillanti, anche perché i ragazzi islandesi si allenano tantissimo: già a 10 anni svolgono ogni settimana 4 allenamenti, 2 ore di educazione fisica a scuola e una ulteriore incentrata solo sul nuoto, senza considerare i pomeriggi passati nei campetti a giocare 2 contro 2 o 3 contro 3, fondamentali per affinare la tecnica individuale.
“La maggior parte dei giocatori attualmente in nazionale… di solito sono titubante nel definirla così, ma si può dire che facciano parte di una generazione d’oro. Sono i primi giocatori islandesi ad aver giocato una finale dell’Europeo under-21, giocano insieme da molto tempo, e sono la prima generazione ad essersi potuta allenare nei campi indoor-erano pronti per giocare all’estero da giovanissimi, e hanno accumulato molta esperienza” (Eiður Guðjohnsen, ex Barcellona e Chelsea)
Uno dei fiori all’occhiello del nuovo corso del calcio islandese è il complesso di Breidablik, distante 15 minuti scarsi dal centro di Reykjavik. La struttura sembra ricordare un anonimo hangar, ma all’interno nasconde un campo da calcio regolamentare e spazi più piccoli dedicati a badminton, pallacanestro e ping pong. Solo in questo centro si allenano almeno 500 ragazzi ogni giorno, diretti dai coach dell’omonima polisportiva. La squadra di calcio maschile è da tempo in prima divisione, mentre quella femminile è una delle compagini più forti del campionato. Proprio qui sono cresciuti due dei rappresentanti più famosi della attuale nazionale islandese come il bomber Alfreð Finnbogason e soprattutto Gylfi Sigurðsson, da tre anni ormai faro del centrocampo dell’Everton.
La carriera di Finnbogason è un esempio eclatante di quanto sia ben riuscito il piano della federazione: l’attaccante 19 anni non aveva ancora mostrato qualità tali da garantirgli il posto in prima squadra ed era stato mandato in prestito in terza divisione, ma a forza di segnare nel gelo dei campi amatoriali dell’isola l’anno successivo ottenne la sua possibilità con la maglia del Breidablik. Le vittorie del titolo di capocannoniere del campionato e della coppa nazionale riuscirono finalmente a farne decollare la carriera, che dopo molta gavetta in campionati di secondo piano come quello belga e greco lo vede giocare ora in Bundesliga.
Nel ricostruire il successo della nazionale islandese ci siamo soffermati su alcuni elementi chiave: innanzitutto l’anima del popolo islandese, testardo e ostinato, disposto a modificare totalmente le proprie abitudini per arrivare a un miglioramento della vita di tutti; poi la lungimiranza delle istituzioni dell’isola che, in un momento di ricostruzione, hanno capito di avere per le mani un’occasione unica di crescita sportiva (e sociale). Manca però un terzo elemento, un evento in sé traumatico, la scintilla che dal caos è stata in grado di generare una stella.
Questo ha coinciso con il più duro momento della storia nazionale. Noto come “kreppa”, dal titolo dell’articolo dell’Economist che illustrò la terribile situazione del Paese, non è altro che il tracollo finanziario delle tre maggiori banche dell’isola dopo il fallimento della Lehman Brothers nel 2008. Fu l’inizio della peggiore crisi economica a cui il pianeta abbia mai assistito, e l’Islanda si trovò esattamente nell’occhio del ciclone. Con un debito accumulato di oltre 50 miliardi di dollari, lo stato (a proposito di scelte radicali) lasciò sostanzialmente fallire i tre istituti negando qualsiasi restituzione a migliaia di creditori stranieri, molti dei quali britannici, assicurando invece una piccola parte dei risparmi interni che rischiavano altrimenti di andare in fumo.
“Un cattivo vogatore dà la colpa ai remi” (Proverbio islandese)
Le conseguenze della kreppa furono molteplici. Se la pesca come sempre fu l’ancora di salvataggio di molti lavoratori islandesi, il crollo finanziario rese fondamentale un ripensamento di tutto il sistema bancario, mentre il turismo venne visto per la prima volta come un settore potenzialmente fondamentale nello sviluppo economico dell’isola. In ambito calcistico, le squadre persero la possibilità di pagare i giocatori esteri.
I club erano gestiti da sempre con un sistema semiprofessionistico in cui venivano stipendiati solo i giocatori principali, solitamente stranieri. Questi persero ogni incentivo a rimanere a giocare in Islanda, così le squadre si trovarono necessariamente a fare affidamento solo su talenti interni. Molti di questi giovani, lanciati improvvisamente in prima squadra durante quegli anni, come appunto Finnbogason, divennero poi l’ossatura della nazionale che arrivò all’Europeo.
In un momento in cui per risollevarsi dal baratro era necessario trovare un’incredibile forza di volontà e spirito di sacrificio, il mondo dello sport si fece carico di trascinare moralmente la Nazione verso giorni migliori. Allo stesso modo della nazionale italiana del 2006, che riuscì a compattarsi alla vigilia dei mondiali spinta anche dallo scandalo Calciopoli, così gli atleti islandesi trovarono fortissime motivazioni nel rappresentare il loro Paese proprio in risposta alla tragica situazione interna. Quindi dopo il 2008 in molti sport di squadra, compreso ovviamente il calcio, l’Islanda ha raggiunto per la prima volta le fasi finali dei più importanti tornei continentali.
“L’Islanda non cambia. Non importa chi gioca, loro «sono» il 4-4-2” (Lothar Matthäus)
Più di 25.000 islandesi si sono riversati festanti in Francia durante quella speciale estate del 2016, quasi un decimo dell’intera popolazione dell’isola. Di chi è rimasto a casa, si calcola che solo 600 persone non si siano collegate alla tv a vedere la partita contro l’Inghilterra. Un intero popolo, dopo anni di ricostruzione e sacrifici, si è stretto attorno ai suoi undici guerrieri in cerca di riscatto. Al fischio finale i calciatori sono increduli, mentre l’impresa compiuta lentamente si sta facendo strada nei loro pensieri. Si guardano negli occhi esterrefatti di fronte a un evento probabilmente più grande di loro, e certamente più importante di una semplice partita di calcio.
Allora è Aron Gunnarsson, il capitano, a prendere tutti per mano e guidare la squadra davanti al settore dei propri tifosi. Con le braccia tese e spalancate si prende l’attenzione di tutto lo stadio che si ammutolisce istantaneamente e, dopo qualche secondo di attesa, con un poderoso “Ugh!” batte le mani sopra il suo capo barbuto. Ancora qualche attimo e arriva un altro colpo. Tutti gli islandesi, a Nizza come davanti ai maxischermi di Reykjavik, seguono religiosamente il capitano battendo le mani, mentre il resto del mondo rimane irrimediabilmente affascinato dalla “haka bianca”.
La celebrazione prende ritmo, il battere delle mani diventa costante, l’urlo di una Nazione intera sempre più forte, fino a che tutto si risolve con un grande applauso liberatorio che riempie di felicità lo stadio. Il Geyser Sound è per una sera la danza tribale di tutto il Vecchio Continente. Ma nulla, in questa “favola”, è frutto del caso.