Una tradizione calcistica che ha smarrito se stessa.
Se è vero che molti italiani, alla fine del Mondiale qatariota, hanno accolto con favore il trionfo di quell’Argentina così vicina a noi per origini e cultura, è anche vero che l’eccessiva baldoria per un successo calcistico che – seppur glorioso – non è il nostro rischia di far dimenticare l’attuale, ma non di origini recenti, decadenza del calcio italiano. Una parabola discendente che, eccetto il trionfale acuto di Wembley, prosegue indisturbata dal 2014 la sua traiettoria verso il basso; e una tradizione sportiva tradizionalmente vincente e competitiva ormai ombra di se stessa. Perché al di là dei risultati, al di là dei tanti buoni giocatori sfornati negli ultimi anni, l’Italia è purtroppo diventata una Nazione incapace di produrre talento.
Sarebbe qui troppo facile gettare fango sull’orribile prestazione degli Azzurri contro la Macedonia del Nord, così come sarebbe semplice criticare la doppia sfida con la Svezia e ricordare la figuraccia rimediata contro la Spagna sotto la gestione di Giampiero Ventura. Per non parlare poi del basso livello qualitativo della spedizione azzurra al Mondiale brasiliano del 2014, quello di Thiago Motta con la maglia numero 10 (una maglia, che nell’arco di vent’anni, è passata dai vari Baggio, Signori, Zola, Del Piero, Totti a Franco Vazquez, Thiago Motta, Insigne, Berardi, Bernardeschi, Joao Pedro etc.). E forse bisognerebbe anche ammettere che persino l’Italia di Mancini, pur nel suo incredibile exploit, fosse una squadra povera di talento individuale – rappresentato più che altro da Verratti e dalle serpentine dell’ispirato Chiesa.
Resta così la domanda delle domande, con cui ci si chiede dove effettivamente sia finito il talento: quello degli straordinari numeri 10, dei grandi numeri 9 e dei difensori che ci invidiava tutto il mondo. In molti, negli ultimi anni, hanno posto il seguente quesito agli addetti ai lavori, hanno avanzato interpretazioni e organizzato eventi per discutere di riforme più o meno efficaci, modifiche dei regolamenti e altre tipologie di interventi. Fra le opinioni più gettonate, quella per cui il calcio italiano pecchi in fatto di investimenti sui giovani e nei settori giovanili; in particolar modo, secondo la retorica modernista cui sopra, uno dei principali gap da colmare con l’estero sarebbe quello degli investimenti nelle strutture sportive.
Una tesi seducente eppure un po’ affrettata, come dimostrano i numeri degli investimenti annui per singolo club nei settori giovanili ad opera dei maggiori campionati europei: in Serie A ogni società spende mediamente 4,6 milioni, molto vicini ai 4,8 milioni della Ligue 1 e superiori ai 3,8 della Liga spagnola – inarrivabile la Premier con 6,5. Anche perché, se il problema fossero davvero le strutture fatiscenti e i pochi investimenti nella formazione dei giovani calciatori, come potremmo spiegarci il continuo ricambio generazionale di Paesi come Argentina e Uruguay, realtà socio-economiche che di certo non brillano per PIL pro capite e fondi nei settori giovanili, ma capaci di sfornare talenti calcistici in modo ciclico?
Possibile che un Paese come il nostro, dotato di una tradizione sportiva tale da produrre fuoriclasse per quasi un secolo, sia di colpo divenuto incapace di sfornare giovani calciatori di alto livello?
Perché certamente si può e si deve parlare, e lo abbiamo fatto più volte, dei meccanismi perversi dei settori giovanili, che a tutto mirano fuorché allo sviluppo e all’attesa del talento. E però andrebbe fatto anche un discorso più ampio, generazionale, che analizzi i mutamenti della società e delle nuove generazioni. Oggi, all’apice di un decennio di consumismo sfrenato, di dissoluzione dei rapporti sociali più diretti, favoriti dallo sviluppo di una realtà alternativa, quella virtuale, molti ragazzi, principalmente adolescenti, hanno perso la gioia di giocare a pallone; il piacere di sfidarsi in strada, nei parchi e nei campetti di periferia, dove non si vedono più colpi di tacco, ginocchia sbucciate e tiri al volo.
Non è banale retorica intrisa di nostalgia verso i tempi delle infinite partite nei prati o delle “tedesche” sulle serrande dei garage nei cortili, ma un amaro dato di fatto che dovremmo accettare; d’altronde non è un caso se tantissimi grandi talenti del passato abbiano sempre rivendicato l’importanza del calcio naturale, letteralmente fuori dagli schemi (che fosse in strada, al parco o all’oratorio) per la loro formazione calcistico-umana. Se poi volessimo andare oltre la mera accusa mossa contro il progresso tecnologico, potremmo riconoscere negli adulti odierni una comunità che fa di tutto per impedire ai ragazzi di aggregarsi e dare libero sfogo alle proprie passioni. Basti pensare a quanta poca tolleranza ci sia oggi verso un pallone che sbatte su un muro o nei confronti del chiasso generato da una comitiva di ragazzi festanti.
Uno dei grandi mali che oggi affligge il calcio italiano, allora, è rappresentato proprio dalla mancanza della strada: quella che ha sempre costituito il vero battesimo di fuoco dei giovani aspiranti calciatori, gerarchia naturale che segnava la prima vera scrematura fra ragazzi di talento, dotati e meno dotati. La cara vecchia strada, oggi, è stata completamente sostituita dalle scuole calcio, ricettacolo di pseudo-allenatori sottoposti alle pressioni di genitori asfissianti, ossessionati dal risultato (immediato), nonché troppo legati a concetti teorici imparati durante i numerosi corsi di aggiornamento e formazione. E in questa transizione le scuole calcio e i settori giovanili non sono stati assolutamente capaci di coltivare la fantasia e la libera espressione dei ragazzi, così come di alimentare la tecnica individuale.
I fondamenti del cosiddetto talento, che invece è stato pian piano soffocato, ingabbiato, sacrificato.
Un calcio italiano di base trasormato in un’industria (gestita male, per giunta), in un allevamento intensivo di calciatori che vengono trattati come numeri da allenatori assetati di carriera, particolarismo decisamente nazionale, e da procuratori che svolazzano come avvoltoi per assicurarsi prima degli altri il “talento”. Chi conosce un minimo i settori giovanili delle squadre professionistiche sa benissimo quale sia la realtà cui si fa riferimento. Un mondo proteso al risultato, alla meta anziché al percorso, e che poi fa di tutto per rendere giovani calciatori arrivati in Primavera o addirittura agli Allievi Nazionali (oggi under 16) delle superstar, nella ricerca ossessiva del nuovo fenomeno da dare in pasto a media e opinione pubblica.
Lo si vede anche dalla crescita interrotta di tanti giocatori, apparentemente lanciatissimi e poi storditi da un mondo che, tra social, spettacolarizzazione e le prime notorietà, li fa sentire già arrivati senza far comprendere loro il valore e l’importanza del sacrificio. Concetti che ha espresso un paio di mesi fa Cristiano Ronaldo prendendosi (anch’egli) l’etichetta di boomer e nostalgico, e che però sono fondamentali nello sviluppo di un calciatore – chissà dove sarebbe arrivato il portoghese, come ha ammesso lui stesso, senza quello spogliatoio del Manchester United e i “migliori esempi” a cui ha potuto ispirarsi, dai quali è riuscito a “imparare”.
«Le nuove generazioni, le nuove tecnologie li distraggono. Non ascoltano, gli entra da una parte e gli esce dall’altra. Ascoltano una cosa e in due minuti l’hanno già dimenticata, e fanno quello che pensano sia meglio. Non sono neanche in grado di copiare gli esempi migliori che hanno davanti».
Famoso è l’esempio della giovinezza di Francesco Totti, fra i campioni più grandi che il calcio italiano abbia mai prodotto: giovinezza vissuta fra le marcature strette di Carlo Mazzone, dei dirigenti del settore giovanile della Roma e di mamma Fiorella, tutti impegnati affinché il ragazzo non smarrisse la retta via fra i vizi e le tentazioni di un mondo fin troppo ammaliante per un giovane dotato di un così grande talento; un modo che prima ti seduce, poi ti vizia e alla fine ti abbandona. Il paragone con molti giovani calciatori di oggi, molti dei quali effettivamente ricchi di stoffa, potrebbe risultare impietoso.
Come già gli storici e i filosofi antichi allora, greci e latini, scrivevano che il benessere pian piano fiacca le società, così la trasformazione del calcio ha diminuito lo spirito di sacrificio dei giovani calciatori italiani, rendendoli meno intraprendenti e disposti a tutto una volta mossi i primi passi nel grande calcio. E anche più vulnerabili alle tentazioni di un mondo che – molto più di prima, con il concorso di media e opinione pubblica – li fa sentire già degli eletti quando ancora sono adolescenti, o appena ventenni. Anni delicati in cui si forma la personalità, l’uomo e quindi il calciatore, e nei quali il talento non basta.
Potremmo fare decine di esempi, così come parlare di quei grandi dirigenti – Milan e Juve su tutti – che seguivano i giovani anche fuori dal campo e li spingevano a mettere su famiglia il prima possibile per avere una stabilità (un po’ il modello Barella, che a 24 anni era già sposato con tre figli). Gente come Galliani, che pure ai Junior Camp del Milan, davanti ai bambini di tutta Italia, ripeteva sempre: «Per diventare calciatori dovrete fare un percorso difficile e tanti sacrifici». Perché per un giovane calciatore, soprattutto di questi tempi, è facilissimo credere di essere arrivato, e perdersi ancor prima di averlo fatto.
Per concludere, al netto di tutte le possibili disamine, soluzioni e interpretazioni, il problema è profondo e radicato.
E il calcio italiano ha imboccato un sentiero pericoloso che difficilmente porterà ad un cambio di rotta senza una presa di coscienza da parte degli organi istituzionali e della collettività in generale. In fondo ogni cultura ha la sue radici, il suo modo di esprimersi e manifestarsi. Noi italiani non ragioneremo e agiremo mai come freddi calcolatori nordici, non avremo mai nelle nostre corde la mentalità e l’attitudine degli inglesi, capaci di produrre calciatori in vitro nei lussuosi e ultramoderni centri sportivi di cui dispongono.
I nostri fenomeni, qualora torneranno a manifestarsi, continueranno a rispettare la tradizione latino-mediterranea che li vede nascere e crescere nei parchi, nelle stradine di paese o nei sobborghi delle città, laddove saranno liberi di segnare in rovesciata e ricadere sull’asfalto, o di sognare la maglia numero 10 della Nazionale. Non è un caso che gli ultimi due nazionali più di talento ad aver indossato la numero 10, Cassano e Insigne, pur con tutti i loro limiti caratteriali e fisici, siano cresciuti giocando in strada; e che in generale i talenti più puri continuino, in giro per il mondo, a venire dalle periferie, dai potreros, dalle banlieu; da campetti e condizioni esistenziali spesso improvvisate.
Ricominceremo a disporre dei fuoriclasse e dei campioni, parole eccessivamente abusate al giorno d’oggi a causa di media sensazionalistici e troppo frettolosi (pensiamo agli ultimi titoli su Gnonto dopo un paio di buone partite), quando i nostri giovani calciatori torneranno ad avere come modelli sportivi i Totti, i Cannavaro, i Buffon, i Del Piero e i Baggio – per alcuni è già così, pensiamo agli stessi Barella, il cui riferimento era Riva, e Tonali, il cui idolo era Gattuso –, quando torneranno a sognare la Coppa del Mondo più di ogni altra cosa e smetteranno di emulare i calciatori da Uomini e Donne prestati al mondo del pallone. Perché, come scritto più volte, prima dei calciatori vengono gli uomini: così è sempre stato e così, pur nei mutamenti della società e delle nuove generazioni, sempre sarà.
Foto copertina da Nazionale Italiana, via Twitter