Critica
26 Gennaio 2023

Gli sportivi sono uomini, non santi

E come tali andrebbero narrati.

Quanto pesa la retorica sulla narrazione della morte? Molto, purtroppo. E lo sport non è certo immune da una tendenza che, specie in era social, sembra aver portato indietro le lancette del tempo. Perlomeno in Italia, Paese che ha ancora molto da imparare dal racconto anglosassone. Più asciutto, più realistico, molto meno portato al trionfalismo melenso di casa nostra. La cosa peggiore è che anche i vivi di una certa età e di un certo successo oggi vengono raccontati così. Senza difetti, senza increspature, quasi privi di complessità o contraddizioni. Il tutto, a scapito del verosimile. Perché?


Tutti santi, tutti eroi


Gli ultimi anni (e questo inizio di 2023) sono stati costellati di morti eccellenti in campo sportivo (calcistico in modo particolare). Gianluca Vialli, Pelé, Roberto Dinamite, Siniša Mihajlović e non soltanto loro. È normale che in una fase storica fortemente segnata dai mass media come questa, ogni notizia venga ampliata di effetti e distorsioni, e non soltanto in Italia. Quel che non appare normale è una sorta di santificazione immediata della celebrità appena passata a miglior vita. Se all’estero prevale una narrazione tesa a evidenziare, sì, le prodezze sportive ma anche un passato ingombrante (quando c’è) con un linguaggio diretto e senza sconti, da noi il personaggio in questione viene immediatamente depurato della propria storia, privato di ogni principio attivo.

Si trasforma dall’oggi al domani nel migliore in assoluto, nel fratello ideale che tutti avremmo voluto, nel marito o nella moglie perfetti, nel potenziale vicino di casa simpatico e premuroso.

Oppure, peggio, nell’eroe senza macchia e senza paura che in vita non era mai stato considerato. Avviene in un Paese che quando legge una storia non sembra avere più a cuore un senso di realismo ma un bisogno di riferimenti integri, laddove la vita quotidiana non sembra offrirne. Nella terra del Metastasio e del melodramma in genere, narrazioni che altrove verrebbero cestinate per eccessiva enfasi vuota di contenuto passano senza problemi. Perché in fondo rispecchiano il gusto e il livello del lettore medio, abituato da sempre a un certo tipo di linguaggio, all’iperbole, alla ridondanza, alla facile mitizzazione.



Quasi mai un’asprezza, un dubbio, un’incrinatura nell’ideale tela bianca. Si sente il bisogno di un pennello che non possa macchiare, senza capire quanto un certo genere di narrazione possa poi allontanarci da standard più complessi, dunque dalla contemporaneità comunemente intesa. Una volta venuti a mancare i personaggi dello sport, nel ricordo spariscono come per magia dipendenze più o meno legali, condanne per illecito, sospetti di doping, paternità acclarate ma mai riconosciute, apologie di reato, tentativi di aggressione a mano armata. Peraltro tutti argomenti di primaria importanza, quando ancora il morto non era morto.

È una tendenza al melodramma, in realtà, tipicamente nazionale, ma che nello sport si declina con un taglio al ribasso. D’improvviso la celebrazione del campione venuto a mancare si spoglia di qualsiasi elemento critico, conservando un tono enfatico quasi saccheggiato da certa terminologia religiosa. Ancora a cadavere caldo, il tal campione o fuoriclasse diventa eterno, immenso, in vita ha fatto miracoli (nemmeno troppo figurati). E, non si sa perché, il medesimo risulta già diretto in Paradiso, luogo celeste equivocato con un ipotetico walhalla di fenomeni o presunti tali che si incontrano per infinite battaglie undici contro undici. Spalti gremiti, temperatura apprezzabile.


Quasi come in Argentina


Ciò di cui finora abbiamo parlato appare tipico dei Paesi “giovani”, dunque privi di un grande sostrato storico. Può essere per certi aspetti il caso degli Stati Uniti, 250 anni scarsi di storia nazionale. Lo sport diventa una necessità, un modo di narrare la realtà e di raccontarsi. In assenza d’altro, uomini (e donne) di sport definiscono una terra, un popolo. Negli Stati Uniti lo sport e il mito hanno sempre viaggiato a braccetto, talvolta anche a scapito della verità storica ma (e sembra paradossale) senza particolari omissioni. Quando leggenda e realtà si confrontano, meglio dare un punto di vantaggio alla prima ma sempre nel rispetto della seconda.

I campioni sono spesso eroi, ma eroi imperfetti “figli di un Dio geloso” almeno quanto loro. Enfatico a volte, ma vero.

In luoghi come l’Argentina, Paese ancor più giovane degli USA, dopo i Libertadores ci sono loro, gli uomini di sport. Sono narratori di fatto della propria realtà territoriale e vengono narrati quasi come divinità assolute – Maradona è addirittura simbolo di culto religioso. Dunque, anch’essi dipinti come santi e forse pure martiri. Malgrado una storia plurisecolare l’Italia non sa sottrarsi a una narrazione che è un misto di enfasi e di celebrazione sportiva quasi immacolata. Salvo poi scadere, in certi casi, in una sorta di moralismo che tende a confondere (senza mai fondere e armonizzare) uomo e personaggio pubblico. Nello specifico, uomo (o donna) di sport.



Spesso il vizio, il difetto, sono motori e cause efficienti del successo individuale, lo start vero e proprio di una vicenda che si fa carriera, che si fa trionfo e titolo. Eppure si ha il timore di rovinare agli occhi del pubblico l’immagine stessa del soggetto narrato. Vince la preoccupazione di apparire censori, di fare leva su un approccio descrittivo percepito come moralistico. Senza comprendere che, forse, il vero moralismo è proprio il candore buonista sbandierato.


Prima l’uovo o la gallina?


Il melodramma moderno sportivo sembra aver cancellato l’imperfezione. Specie quando i campioni muoiono. Una sorta di passionalità senza la passione e il risultato sembra un prodotto edulcorato fatto per non offendere né il diavolo né l’acquasanta. Ci si chiede se sia il pubblico a volere questo o se non sia piuttosto la domanda a dipendere eternamente dall’offerta. Probabilmente la dinamica è biunivoca, il lettore vuol sentirsi rassicurato nel suo tentativo di identificazione e la comunicazione non vuole rischiare di entrare in una “bad reputation”. Problema che, come dicevamo, nel mondo anglosassone sembrano avere in qualche modo risolto.

“What’s the story, man?”.

Da una precisa domanda sul potenziale narrativo di una persona o di una vicenda tutto si dipana. Il contenuto deve risultare vero, realistico, quantomeno credibile. Poi magari la verità raccontata viene resa funzionale ad altro. Tutti sappiamo che le storie vendono status, sogni, stili di vita, presunte superiorità di civiltà su altre e che anche il mondo dello sport può adeguarsi a un certo grado di distorsione della realtà.

Ma almeno i campioni dello sport, vivi o morti che siano, sono sia eroi nella loro specialità sia esseri umani con difetti, lati oscuri, talvolta aspetti torbidi. E non per semplice amore del vero: in termini banali ma pratici, un eroe imperfetto “vende” di più. Appare attendibile e davvero può somigliarci. Perché anche il marketing è qualcosa che bisogna pure saper fare. Da noi invece, tutti candidi e perfetti. E da morti, tutti santi.

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