Il primo anno dell'Italia di Mancini non poteva essere migliore, ma il lavoro da fare è ancora tanto.
Un enorme limite del giornalismo sportivo è di salire immediatamente sul carro del (temporaneo) vincitore, sul cavallo al momento vincente, in una pratica miope e scellerata che porta in poco tempo dalle stelle alle stalle, dal trono alla polvere. Questo modus operandi, nel nostro piccolo, vogliamo contrastarlo con tutta la forza possibile, almeno noi che non dobbiamo vendere nulla a nessuno. Ecco perché nell’analizzare le gesta degli azzurri siamo tenuti a ragionare lucidamente, senza lasciarci trascinare (anche noi) dall’entusiasmo del momento, che può in un attimo trasformarsi in pubblica condanna qualora il vento dovesse mutare la sua direzione.
Ma veniamo al punto: i segnali lanciati da questa Italia sono assolutamente incoraggianti, ed era impensabile fare di meglio nell’anno I della gestione Mancini. L’entusiasmo di cui sopra, che nasce da una nazionale ferita e che si traspone plasticamente sul rettangolo verde, per nostra fortuna si è sviluppato e alimentato nell’ambiente e nello spogliatoio (d’altronde la base di ogni rinascita è sempre l’orgoglio scalfito, la volontà di tornare a ciò che si sente di meritare); questa è stata benzina pura per gli azzurri, ma dobbiamo essere consapevoli che, con il solo entusiasmo acritico, non si naviga oltre che a vista.
Sia chiaro, quando diciamo “acritico” non intendiamo qui avanzare delle vere e proprie, circostanziate, critiche. E facciamo anche un nostra culpa perché, pur non avendolo mai scritto per non fare la figura dei disfattisti, molti di noi erano scettici su Mancini e non credevano potesse ricostruire l’Italia secondo un progetto tecnico a lungo termine: ebbene ci sbagliavamo, contenti di ammetterlo a noi stessi e a voi pubblicamente. Ma il punto non è questo: l’unica “critica” generalissima che ci sentiamo di fare a questa Italia, ma in realtà ai media piuttosto che allo stesso allenatore, assolutamente conscio della situazione, è che questa squadra va stabilizzata e deve ancora superare la transizione per tornare “grande”.
Tempo al tempo, ma c’è tantissimo da lavorare. Per ora abbiamo volato sulle ali dell’entusiasmo, siamo andati sopra i giri del motore e a momenti fuori giri, quando talmente forti erano la foga e il pressing da far intravedere cenni di squilibrio e fragilità, provando verticalizzazioni esasperate o uscendo in una pressione troppo alta e caotica. Mancini sa benissimo che c’è molto da fare – e, attento a non spegnere l’entusiasmo, lo ripete a reti unificate ad ogni occasione utile – ma questo aspetto i media sembrano dimenticarlo troppo spesso: certamente l’esaltazione era il carburante necessario per ripartire, ma dobbiamo essere consapevoli anche noi che, per tornare laddove ci auguriamo, si dovrà faticare ancora tantissimo, duramente e a testa bassa.
Staff, allenatore e giocatori, ad oggi sono promossi a pienissimi voti e non potrebbe essere altrimenti; meritano anche la lode viste le premesse. Era difficile immaginare che già a questo punto avremmo ottenuto simili risultati in un nuovo progetto tecnico, con una squadra fondata sulla qualità, sul coraggio, sulle idee (quel doppio regista che Mancini non ha mai toccato, nemmeno nei momenti di turnover e sperimentazione, è un segnale inequivocabile); e poi la voglia degli azzurri, quel pressing che ha trascinato con sé da casa milioni di tifosi disillusi. Insomma, in poco tempo è stato fatto un lavoro straordinario, (tecnicamente manca solo da risolvere il rebus attaccante, ma questo aspetto lo lasciamo ad altri).
Nei prossimi mesi piuttosto servirà un salto di qualità dal punto di vista della consapevolezza, perché una squadra diventa grande quando sa gestire la partita, scegliere i momenti, quando diviene tatticamente e tecnicamente matura. Quante volte, anche l’altra sera, abbiamo visto Mancini strigliare i suoi perché hanno “forzato la giocata”, o richiamarli alla calma? Intendiamoci, questa Italia deve forzare la giocata, ne ha bisogno per rinascere e per fortuna l’ha fatto e continuerà a farlo, ma deve ora acquisire quella maturità con cui sapere quando e come farlo: è lì che si torna grandi, quando si diventa nuovamente consapevoli. Oggi l’Italia è ancora fragile e deve ragionare da squadra umile, in costruzione, sposando nel profondo la convinzione del commissario tecnico, quella di non aver fatto ancora nulla; siamo ancora molto lontani dalle migliori nazionali del continente, e questo deve essere chiaro a tutti, soprattutto alle voci critiche come i giornali che non possono rinunciare al proprio ruolo, limitandosi a esaltare o condannare. Come a dire, la strada tracciata è quella giusta, ma ancor più importante è non adagiarsi.