Non soffiare sul fuoco, ma nemmeno spegnerlo.
Non ci siamo cascati. Non siamo caduti nel tunnel scavato dall’entusiasmo. Le lodi tessute da pubblico e critica, l’euforia generale e il 5-5-5 di Oronzo Canà ci hanno solamente accarezzato. Dopo un esordio come quello contro la Turchia la trappola era dietro l’angolo, occultata nelle pieghe di una Svizzera che si presentava come un elogio alla solidità: come scriveva ieri Luigi Garlando sulla Gazzetta dello Sport «la seconda partita in una grande manifestazione è spesso una buccia di banana». E però ci hanno ferito nemmeno stavolta, Embolo, Shaqiri, Xhaka e le sfumature di una squadra multietnica da cui qualcuno ci aveva messo in guardia.
L’Italia ha costruito un muro intorno alle proprie certezze: qualificazione agli ottavi dopo 180 minuti e un percorso netto con sei gol fatti e zero subiti. Turchia e Svizzera annichilite, un dominio continuo dell’avversario. Ce l’avessero detto tre anni fa, risucchiati nel vortice dell’Apocalisse sportiva, non ci avremmo creduto nemmeno per un istante. E invece eccoci qui, stretti nell’abbraccio di un Olimpico che rievoca le ‘Notti Magiche’ nonostante i retaggi della pandemia. Contro il sorprendente Galles di Bale e Ramsey basterà un pareggio per volare a Londra da primi della classe, aspettando quegli ottavi che porteranno risposte a tutti gli interrogativi che ci poniamo.
L’Italia, lo abbiamo visto, è forte; ma quanto è forte? Per capirlo serviranno un livello e un’intensità diversi, ma per adesso godiamoci una Nazionale ritrovata nei palcoscenici che contano.
Perché questa Italia esalta, ed è inutile nasconderlo. La vittoria sulla Svizzera vale il 29esimo risultato utile consecutivo (ad un passo dal leggendario Vittorio Pozzo) e la nona vittoria di fila senza reti al passivo. Ma soprattutto l’Italia gioca da squadra, con convinzione e tanto entusiasmo: spesso in fondo commettiamo l’errore di pensare che il campo sia solo campo, che i calciatori non siano anch’essi uomini con pensieri e sentimenti. Eppure i giocatori dell’Italia, prima di essere atleti, sono ragazzi italiani: vengono anch’essi da cinque anni senza competizioni internazionali, hanno perso anche loro – soprattutto loro – un Mondiale, evento decisivo nella carriera di un uomo-calciatore; hanno tanta voglia di rivincita come noi e più di noi, e Roberto Mancini è stata bravissimo a convogliare, ordinare e gestire tutto ciò. Senza soffiare sul fuoco dell’entusiasmo, ma senza neanche spegnerlo. All’italiana.
In campo il nuovo “dogma” è difendere avanzando, e più che uno schiaffo al passato sembra il frutto di un rinascimento calcistico. L’Italia non è solo palleggio e guai a scivolare nella retorica del giochismo sfrenato: la squadra di Mancini gioca da club e meno da nazionale, ed è sembrato in queste due partite che si conoscesse da una vita. Le linee degli azzurri (disegnate da un Jorginho in stato di grazia dopo la Champions con il Chelsea) rappresentano un mix ideale tra verticalità e orizzontalità. La forza sulle fasce si sta rivelando un fattore: le prove ubriacanti di Spinazzola e Berardi (per conferma chiedere ai malcapitati Mbabu e Rodriguez) ne sono la prova tangibile.
Quando poi la Svizzera, soffocata dalla pressione azzurra, ha deciso di mettere fuori la testa alzando pressing e baricentro, è sbocciata una delle qualità migliori dell’Italia di Mancini, che tesse la propria ragnatela dal basso e infila gli avversari in campo aperto. Uno scenario tattico differente rispetto all’esordio, quando i turchi avevano costruito barricate dinanzi la propria area di rigore togliendo spazio e geometrie. Ciò è fondamentale, perché gli azzurri si dimostrano ad oggi squadra completa ed equilibrata, in grado di interpretare più spartiti all’interno della stessa gara.
Al termine della partita, Mancini poi ha voluto dedicare la vittoria «a tutte le persone che soffrono, anche in questo momento», come a voler rinvigorire il legame tra la Nazionale e il Paese. È questo uno degli obiettivi principi del corso targato Gravina-Mancini, ovvero riavvicinare l’Italia agli azzurri, un legame che dopo il mondiale 2006 ha vissuto più di amarezze che di gioie. In un momento storico drammatico sotto il punto di vista economico e sociale, in un calcio italiano indebitato e disposto a prostituirsi nel bordello della Superlega, i tifosi hanno riposto grande fiducia nell’Italia di Mancini. Ma come sottolineato da Mario Sconcerti sul Corriere della Sera «dare tanta fiducia a una Nazionale significa abbandonarla alla prima sconfitta».
«Perchè la Nazionale non ha tifosi duri e puri, è una parte di casa nostra dove si passa, si pranza e non si paga. Non si segue da tifosi reali, scaramantici, diffidenti e in piena ideologia. Alla fine se va male si torna al calcio mercato».
Quello nei confronti dell’Italia non è un tifo che fa male ma uno scoglio al quale aggrapparsi nei momenti di tempesta. Fu così nel 1982, in un Paese che si rialzava dagli anni di piombo, e nel 2006, all’alba della crisi economica mondiale e con lo scandalo calciopoli che aveva destabilizzato il tifo italico. Oggi, nell’Italia dei vaccini e delle varianti, dei complotti e delle illusioni, la Nazionale resta l’unica voce di un popolo unito. È compito degli azzurri alimentare il sogno gestendo la complessa arma a doppio taglio dell’entusiasmo, e in questo sono fondamentali i veterani come Bonucci che predicano “umiltà e piedi per terra”.
«Adesso bisogna voltare pagina, come diceva un mio grande compagno bisogna rimettere la testa dentro il carroarmato e andare avanti».
Leonardo Bonucci
Parole da scolpire nella pietra, al di là del tifo, delle simpatie e delle antipatie. Perché nessuno deve commettere l’errore di pensare che siamo già arrivati, né di scordare che ci sono squadre dai valori individuali probabilmente superiori ai nostri. Eppure a testa bassa, aggrappati alla forza di un gruppo privo di stelle ma con tanta voglia di rivalsa, possiamo finalmente guardare all’orizzonte – e alle prossime fasi – con quella fiducia che avevamo quasi dimenticato.