Per il resto dell'anno, un intralcio o poco più.
Un gradevole passatempo estivo. Questo era ed è stata la nazionale italiana per gran parte di noi, è giunta l’ora di fare i conti con la realtà – a maggior ragione adesso che passatempo invernale, per forza di cose, nemmeno potrà essere. E pure “gradevole”, beh si fa per dire. Come se non fossero bastate le umilianti eliminazioni alle qualificazioni mondiali, ieri sera la prestazione degli azzurri contro l’Argentina è stata tra l’imbarazzante e il patetico: olè, tiri da centrocampo, divario tecnico incommentabile, confronto impietoso tra le due panchine.
Tralasciamo gli aspetti tecnici però, che tanto già oggi stanno affrontando in molti e che sono stati ampiamente esaminati dopo la débâcle con la Macedonia. E facciamo per un attimo un’autocritica al nostro orgoglio nazionale. Un’autocritica a cui ci spinge l’istantanea delle decine di migliaia di tifosi argentini impazziti d’amore per la propria Patria, ancor prima che Nazionale, presenti a Wembley: più di 60 mila, dicono i media argentini, fino alle stime RAI (forse un po’ gonfiate) che parlavano di quasi 80mila presenze. Presentatisi in massa, con la solita sfacciataggine e guasconeria che li contraddistingue, hanno cantato ininterrottamente per 90 minuti e salutato chi li ospitava con il più classico dei “El que no salta es un Ingles”.
Che sia la prima edizione di una finale appena inventata, una partita di qualificazione , un’amichevole o un match del mondiale sub-20, l’imperativo è sempre lo stesso: il Paese si ferma per sostenere la Selecciòn.
Va da sé che il confronto con noi tifosi italiani non ha, da questo punto di vista, motivo di esistere. Trattori, folklore e trombette non possono in alcun modo eguagliare una passione simile, tantomeno solo nei mesi estivi e quando la squadra vince. E in Italia, come tanti hanno sottolineato negli ultimi anni, non esiste un vero e proprio tifo per la nazionale: al di là degli esperimenti abortiti di “ultras” per gli azzurri, manca proprio quel carattere di festa, di rito di popolo per le tappe della nostra rappresentativa nazionale. Certo ieri a Wembley erano quasi in diecimila, ma anche il confronto sugli spalti – oltre che in campo – è stato infine impietoso.
Insomma, se il movimento ha bisogno di ripartire e rinascere da zero come sempre sosteniamo, che il punto di partenza venga da noi tifosi: iniziamo a non considerare più la nazionale (in inverno) come un pesante fardello. È vero che il nostro carattere specifico non aiuta. Se altrove attorno alla bandiera si stringono un po’ tutti, e non per “nazionalismo” ma per vocazione naturale, in Italia siamo da sempre estremamente frammentati. Un sentimento nazionale sempre più debole il nostro, che meriterebbe ben altre critiche approfondite e in altre sedi, ma che si esprime anche nel pallone, riflesso della società. A far più male allora non sono neanche gli Olè o la sconfitta sul campo ma il “soy Argentino, es un sentimiento, no puedo parar” cantato da 80mila anime albicelesti, mentre dall’altra parte c’è un silenzio disamorato assordante.