Nel giorno in cui tutta Italia ricordava commossa il tuca-tuca, non poteva trionfare il tiki-taka. Anche se, ad onor del vero, la Spagna ieri sera avrebbe meritato. Ritornano quindi alla mente le parole di Gigi Buffon: «nel calcio vince chi è più bravo, non più forte.» Ancora una volta il cuore degli Azzurri è risultato determinante. Perché è vero che questa nazionale gioca bene, ma giocare bene non basta. Soprattutto quando di fronte c’è una squadra come la Spagna, che ci ha insegnato per 120’ e oltre cosa significhi davvero fraseggiare a certi ritmi.
Su Repubblica, Maurizio Crosetti ha scritto che «l’Italia non è quasi mai stata sé stessa, costretta a uscire da quell’abito scintillante che aveva indossato fin qui.» Capiamo il discorso, ma ci permettiamo di rileggerne l’essenza: ieri l’Italia, schiacciata dal dominio del gioco spagnolo, non è fuggita dalla propria identità, ma l’ha portata a compimento. Costretta all’umiltà da un avversario superbo (nel doppio senso del termine), l’Italia è davvero tornata sé stessa. E lo ha fatto sfruttando l’unica arma che aveva a disposizione, la ripartenza.
Citando Italo Cucci sul CDS, «San Contropiede, ora pro nobis».
Diciamocelo francamente: avevamo sottovalutato le Furie Rosse e avevamo sopravvalutato i nostri. Tutti, tranne Mancini, le cui mosse dalla panchina dopo il gol dell’1-0 testimoniavano semmai la volontà di preservare un gol-reliquia. In tutti i sensi. Il destro di Federico Chiesa, nella stessa porta dello stesso stadio che lo aveva già reso eroe nella sfida contro l’Austria agli Ottavi, è stato l’ennesimo colpo di genio (italiano) di una squadra che, pur forte nell’organizzazione collettiva, fa dell’intuito creatore la propria arma in più. Come Barella contro il Belgio, come Insigne sempre all’Allianz. Anche se per Chiesa, grande protagonista anche in Champions con la Juve, forse non è più una novità.
Hai voglia a parlare di ciclo finito (è uscito anche questo). Semmai, ma è facile dirlo il giorno dopo, a questa Spagna è mancato un autentico leader come Sergio Ramos. È vero, ci sono Busquets e Alba, e c’è anche Azpilicueta. Ma Sergio Ramos è el capitan, tutta un’altra staffa. La stessa che, per analogia, contraddistingue la difesa azzurra. Bonucci e Chiellini ci stanno regalando gli ultimi bagliori di un ruolo destinato a rimanere monco. Ancora una volta, la difesa degli Azzurri – con buona pace del calcio dominante – ha messo le catene e ha buttato la chiave, aprendosi in un’unica, determinante, occasione: quella che ha portato al gol di Alvaro Morata a 10’ dalla fine.
Destino cruento, infame, quello riservato all’attaccante della Juventus. Luis Enrique, dopo avergli preferito Oyarzabal dall’inizio, l’ha buttato nella mischia in un momento complicatissimo per i suoi. E Morata, che è sempre stato difeso e coccolato dall’ex tecnico del Barcellona, ha ricambiato la fiducia. Il suo impatto sulla partita è stato prima incredibile, poi drammatico. Specchio fedele di una squadra che, dominatrice del gioco, non può concepire una vittoria ingiusta, determinata dal caos: quella che viene dai rigori.
Con la semifinale di ieri sera, l’Italia ha adesso vinto in tutte le maniere possibili: dominando nei 90’, soffrendo nei 120, trionfando con il favore di Dio («Dio è italiano», ha titolato il CDS) nella lotteria dagli undici metri. Dove fondamentale, oltre a Nostro Signore, è stato senza dubbio Gianluigi Donnarumma. Quello che impressiona di Gigione è l’illogica naturalezza delle sue prestazioni. Che non sono mai semplicemente sufficienti, o buone, ma impeccabili. Addirittura sbalorditive. «Ero sereno, sapevo cosa fare», ha detto a fine partita. Contro il Belgio Donnarumma aveva forse compiuto la parata del torneo su De Bruyne. Ieri sera si è ripetuto su Dani Olmo, giocatore senza senso, fenomeno assoluto (classe ’98) che, come tutti i grandi campioni, ha deciso di sparare alle stelle il tiro dal dischetto. Prima che Donnarumma acchiappasse le insicurezze di Morata e consegnasse a Jorginho il pallone della vittoria. Cosa che sul mediano azzurro ha pesato come una festuca di paglia di capo.
Ben più pesante è stata per il popolo italiano questa insperata e drammatica vittoria. I caroselli che hanno animato – e colorato – il Belpaese nella notte testimoniano una gioia collettiva che è già più importante del traguardo finale. Chi si ricorda festeggiamenti del genere per la vittoria di una semifinale scagli la prima pietra. Sarà che l’Europeo l’Italia non lo vince dal ’68, un anno a caso, o che la nazionale mancava dannatamente alla propria gente. Più probabilmente, l’entusiasmo di questo mese, esploso nella notte dopo la vittoria sulla Spagna, significa che gli italiani non vedevano l’ora di sfogarsi dopo un anno terrificante – che il nostro Paese, prima e più degli altri, ha subito con particolare trasporto.
Lo stesso che ieri sera ci ha permesso di rendere possibile l’impossibile. Questo significano le lacrime a fine gara di Mancini, stretto tra Oriali, Evani e Vialli. Questo significano gli occhi lucidi di Donnarumma, il portiere che il mondo ci invidia. E questo significa l’abbraccio collettivo a fine gara, con il comandante Leonardo Bonucci anche lui visibilmente commosso, che davanti alle telecamere rivelerà: «Prima della partita Spinazzola ci ha inviato un video per caricarci. Questa vittoria la dedichiamo a lui. Il cuore degli italiani non muore mai». Siamo tornati.