Calcio
18 Luglio 2021

Il (difficile) Rinascimento italiano

La patria del tifo non ha un tifo nazionale.

C’è un post che rimbalza tra le bacheche e le storie Instagram dei tifosi inglesi in cui si mette in luce, con spiccato tono progressista, quali giocatori l’Inghilterra potrebbe effettivamente schierare se nella sua storia non ci fossero stati fenomeni migratori, tanto dalle colonie caraibiche quanto dall’Irlanda. Nella manciata di superstiti spiccano Shaw e Pickford che, ironia della sorte, sono i due che a Wembley hanno tenuto a galla Southgate fino all’errore di Saka dal dischetto.

Altrettanto ironicamente, si potrebbe quasi pensare di ringraziare le disfatte coloniali italiane per il successo degli azzurri, squadra che alla vigilia dell’Europeo veniva accusata di mancanza di diversità dalla stampa francese – e, più recentemente, dalla stampa britannica. Scherzi a parte, il merito di questo collante umano sta soprattutto in Roberto Mancini, che ha saputo restituire entusiasmo agli italiani tanto sul campo quanto fuori, nelle case e per le piazze del Belpaese.

Ora che l’Italia riformata da Mancini è stata incoronata campione d’Europa, è bene che anche i suoi tifosi facciano lo stesso in un rinnovamento tanto etico quanto estetico. Con il progetto Ultras Italia (che vedeva, sul modello inglese, un’unione tra gruppi ultras in nome del tifo della nazionale) naufragato ai blocchi di partenza, il tifo azzurro è passato, in poco meno di due decenni, dal folklore mediterraneo del passato a carnevalate tanto care alla Uefa ed alla sua ossessione per il calcio-circo a dimensione famiglia. Una transizione – quella dal Gianni Minà di Mexico ‘70 in camicia psichedelica sbottonata sul petto villoso e baffo folto, alle parrucche ed ai volti pitturati di Berlino 2006 o di Wembley – che fa quasi rimpiangere i cornetti, i piatti e gli eccessi scaramantici di Mario ‘O Messicano.

italia gianni minà
Gianni Minà, tifoso italiano a Messico 70 (foto da Ragazzi di Strada)

Tra barbe lunghe e pitture facciali, sciolte sotto la pioggia londinese, le riprese dagli spalti di Wembley della semifinale tra Spagna e Italia sembravano quelle di un documentario dal taglio antropologico sulle pratiche belliche di una qualche tribù amazzonica. Materiale in cui Cesare Lombroso avrebbe sguazzato. Si capisce l’amore degli italiani nei confronti degli Erasmus ispanici ma riprendiamoci, per cortesia, una dignità estetica, o anche l’etica può andare a farsi benedire – al pari dei voti universitari dopo le notti passate tra chupito e sangria.

Tifosi italiani, tanto permalosi quando la stampa estera li definisce camerieri, quanto altrettanto calorosi nell’apostrofare gli avversari con stereotipi campanilisti: si veda la Francia (mangiarane; aridatece la Gioconda), la Germania (Merkel culona; 4-3, a casa!) o l’Inghilterra (eccove er cucchiaio per il tè; stop putting pineapple on pizza). Santo campanilismo paesano, linfa del calcio finito nelle mani volgari di meme da auto-incensati bomber. Onde evitare vittimismo istigato dagli appellativi della stampa straniera, si suggerisca ad Armani di non fornire più agli Azzurri divise con abbottonatura alla coreana in palette tendenti al grigio. Forse, sono quelle che ci fanno passare per camerieri agli occhi vigili delle penne estere. Evitiamo di umiliare in eurovisione anche la nostra grande tradizione sartoriale.

Lo stile impeccabile di Roberto Mancini (foto da @Vivo_Azzurro)

Italiano, spesso incapace di rispettare correttamente la coda in posta o dal panettiere, ma, grazie al cielo, pronto e ergersi a tutore di un’etica sportiva paneuropea, tralasciando forse – si sa, l’emozione dei trofei può giocare brutti scherzi – tutte le volte in cui i tifosi capitolini mostravano il loro ethos decoubertiano ai tifosi inglesi in trasferta con folkloristiche ‘pucciate’. Italiani, tifosi di un modo mediterraneo e latino di vivere il calcio che ha esportato la simulazione nel mondo, eppure vergini indignate sul tuffo in area di Sterling. Chiagni e fotti, dicono a Napoli. Quegli stessi italiani che, euroscettici fino a domenica mattina, avallavano le sortite propagandistiche di Ursula von der Layen in divisa azzurra a furia di “Brexit means Brexit” sulle loro bacheche social.



Meravigliosi italiani, nostalgici primo-repubblicani riscopertisi patrioti per l’estate, liberali dall’accusa di apologia al fascismo sempre pronta in canna e indignati dal mancato inginocchiamento ripiombati nottetempo in amore con l’ostensione del tricolore. Meravigliosi Europei, capaci di tutto ciò che ci elude per i restanti undici mesi dell’anno. Come, ad esempio, la capacità di scendere in piazza per cause sociali e politiche – tanto a destra, quanto a sinistra.

Così, mentre gli incivili ed antisportivi inglesi (tifosi inclusi) uscivano di casa per opporsi alla Superlega ed alle restrizioni del lockdown, per esplicare il loro dissenso nei confronti del poco democratico Police, Crime, Sentencing and Courts Bill, o per far sentire – tanto nell’attacco quanto nella difesa delle statue – la loro posizione sul tema caldo del Black Lives Matter, i moralmente superiori italiani si abbandonavano ad un otium domestico che più che epicureo aveva i tratti di un’assuefazione da Netflix e Deliveroo.

Non sorprende dunque che i nostri eroi, da veri italiani (verrebbe da esclamarlo con braccia sui fianchi e petto all’infuori, considerati i toni propagandistici della stampa nostrana) si siano prima opposti ad inginocchiarsi e poi a rivedere la posizione in base al desiderio dell’avversario. Santa balena bianca, che tutela il cerchiobottismo secolare di una nazione addormentatasi con la camicia nera e risvegliatasi la mattina successiva con il cilindro a stelle e strisce – un numero di trasformismo capace di umiliare anche il più veloce Arturo Brachetti.



Se nel Belpaese si parla di rigurgiti fascisti, forse, è perché in fondo il mito della ‘perfida Albione’ non è mai del tutto scemato. Analogamente la stampa – di cui si nutre il tifoso –, ogni qualvolta gli azzurri scendono in campo, rimpiomba nel vizietto del Minculpop, o meglio, assume le linee editoriali proprie di quelle di una dittatura sudamericana. Con alle porte un autunno caldo, fatto di draconiane lacrime e sangue, si concede al popolo, temporaneamente libero da mascherine e Twister di regioni colorate, lo svago del pallone con il benestare della stampa.

Quella stessa stampa pronta a redarguire i tifosi nerazzurri assiepati in Piazza Duomo, o quelli partenopei in festa per la Coppa Italia. Il Corriere dello Sport, all’indomani della vittoria azzurra, con toni inediti dalle imprese post-belliche di Coppi e Bartali, si superava titolando “Viva L’Italia”. Addirittura c’è chi, con fin troppa nonchalance e poco pudore, evocava i morti di Bergamo, scrivendo di riscatto italiano. Argentina ‘78? Forse, vogliamo solamente i colonnelli (di Bruxelles).

italia festeggiamenti
Niente in Italia ha lo stesso potere del pallone (foto @Vivo_Azzurro)

Come aspettarsi, dunque, che il tifoso italiano sia da meno. Passi quello da bar sport – verace e campanilistico per natura –, non chi con il mito dell’anglofilia ha costruito una (fallace) personalità: tra riferimenti estetici in curva, appropriazioni sottoculturali ed ostentazioni di tifo di squadre inglesi in quanto abitualmente sempre pronto nel ribadire la superiorità del ‘mito’ dell’FA Cup o della Premier League sul calcio italiano (noi ci siamo sempre opposti a questa facile narrazione).

D’altronde, se per 15 anni abbiamo campato con un inno – generosi a definirlo tale – arrivato da un gruppo statunitense e passato attraverso i tifosi del Brugge, come stupirsi che il leit motiv della vittoria europea non sia un’appropriazione della variazione di “Three Lions on a Shirt”, per altro inizialmente proposta dalla stampa britannica. A volte, andrebbe bene, accontentarsi della sobria potenza del più classico degli “Italia, Italia!” cantato a pieni polmoni. Meno fronzoli, meno facce colorate, meno meme. Less is more, dicono loro.


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I tifosi in 500 addobbati con il tricolore – che, sulla carta, dovrebbero incarnare il cliché per antonomasia – risultano iconici nel loro tifo strapaesano. A differenza di quegli italiani a Wembley che, dopo essersi magari indignati per le rappresentazioni stereotipate affibbiate dalla stampa agli expat, si presentano sugli spalti vestiti da Super Mario, da Papa (forse ci era sfuggito che l’onnipotente Draghi, dopo aver portato i Maneskin a vincere l’Eurovision e Berrettini in finale a Wimbledon, fosse arrivato fin dove Garibaldi aveva fallito, ad annettere cioè anche Il Vaticano) e, tripudio, da fetta di pizza.

Che poi, si è mai visto un inglese vestito da baccalà in pastella o da fetta di Victoria sponge?! Ossessione con il cibo (pardon, oggi si chiama ‘food’), che porta anche gli austeri maestri di Eataly ad abbassarsi al più becero degli sfottò culinari da tabloid inglese. Stereotipi sugli inglesi ancorati a una visione da gentleman in bombetta che Alberto Sordi aveva già pensato a sfatare più di 50 anni fa in “Fumo di Londra”. Parafrasando Nanni Moretti – il cui ultimo film, ironia della sorte, era in premiere a Cannes la sera della finalissima – non ci meritiamo nemmeno Alberto Sordi.



Per fortuna, si sono tornati a vedere i trattori, emblema dell’Italia provinciale e rurale, capaci di osare anche contro il calcio delle multinazionali, entrando poderosi in Piazza Duomo, dove hanno svettato magnificamente contro l’insegna di Gucci che si stagliava sullo sfondo – come ad osservare con distacco dall’alto della ‘civiltà’ meneghina, che per una sera soltanto si è ricordata del peso delle bandiere e dei confini, dimenticandosi della sua ossessione con gli inglesismi forzati sul posto di lavoro. Forse, lo scatto più iconografico e genuinamente italiano di questo europeo.

Si prenda, a questo punto, esempio dallo charme tutto italiano di Mancini, più inglese degli inglesi in maniche di camicia sotto la pioggia (chissà che quella tinta rosso volpe non fosse un omaggio al compianto Biscardi nazionale, anziché, come si poteva pensare in un primo momento, un tributo alla caccia tanto cara agli inglesi) o di Evani, crossover tra il rendering Pixar di un italiano medio ed un imprenditore del tessile un poco vitellone che si spende in passerelle a Pitti Uomo.


Nel dubbio, consigliamo di vestire Contrasti!


Divisi durante il Risorgimento e, soprattutto, sempre inclini ad annusare la fregatura dove non c’è, salvo poi rifilarle al prossimo, gli italiani si fanno belli di una vittoria – a loro dire – ottenuta contro le trame della Uefa, accusata di aver apparecchiato l’europeo in casa degli inglesi. Verrebbe però spontaneo domandarsi come fare altrimenti, se a Roma la sera della finale viene imposto lo stop dei mezzi alle 21. Santa vocazione italiana a lasciare giudizi tranchant sull’inciviltà dei popoli esteri, salvo poi essere incapaci di amministrare l’ordine pubblico a casa propria.

A quando – oltre al ritorno ad un tifo caloroso ma non giullaresco – una riappropriazione della dignità, vero motore della ripartenza italiana dopo il secondo conflitto mondiale? Verrebbe da domandarsi se tutto questo populismo social non sia forse la conseguenza di un tifo che, nonostante i quattro mondiali ed i due europei vinti, non riesce a costruire un immaginario evocativo e condiviso a partire dalla sua storia; come esplicato dalla scarsità di dive storiche tra il pubblico, di guizzi di merchandising e di cori originali. Per nostra fortuna, irlandesi e scozzesi hanno saputo coprirsi di maggior ridicolo, tra tricolori a Derry e prime pagine di quotidiani nazionali. Per gli scozzesi, siamo certi, ora non mancherà l’indizione di un nuovo, ennesimo, referendum di indipendenza dal Regno Unito che prontamente verrà perso. A proposito di refrattarietà alla vittoria e “fifty years of hurt”.



Da italiano, chi scrive assicura il lettore che – pur vivendo nella perfida Albione – non ha subito violenze o minacce alcune. Anzi, ha ricevuto diversi messaggi in cui i padroni di casa si congratulavano della vittoria, della gran squadra che è l’Italia. Il clima di terrore descritto da molti, era un clima di goliardica euforia, come quello – pacifico – vistosi per Londra la sera della vittoria della semifinale, dove i festeggiamenti erano per altro trasversali alle classi sociali e alle etnie. Narrazioni comode a molta stampa, che hanno forse fatto sfuggire all’arbiter elegantia che è il tifoso italiano di come nei caroselli milanesi una bomba carta abbia messo in codice rosso un ventiduenne, mentre in quelli foggiani si è colta occasione per un regolamento di conti armato.

Ma dopotutto, cos’è una stesa, quando c’è il bel giuoco? Quasi verrebbe da smetterla con le deportazioni dei migranti irregolari, e piuttosto rimpatriare tutti quegli italiani che, alla luce della lezione di etica sportiva fornita ai britannici, inspiegabilmente ancora vivono nella capitale inglese. Perché, privarli, dunque del sole, del mare, e del trionfo di civiltà che è lo Stivale? Altro che far vedere come muore un italiano, qua ci vorrebbe qualcuno che insegnasse come tifa un italiano.

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Orchestrato e diretto da Gianni Minà.

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