Cosa è rimasto (e cosa rimarrà) degli azzurrini di Nunziata.
Non è cosa facile uscire con convinzioni definitive da un Mondiale Under20. È una competizione che offre dati difficili da definire: per l’età dei giocatori, per la diversità dei movimenti calcistici mondiali in sé e del loro momento storico, per l’ovvio peso dei mille fattori, ponderabili o meno, che influenzano le carriere dei talentini che fanno palpitare osservatori di mezzo mondo. In media circa il 35% dei giocatori della rosa vincitrice arriva a fare almeno una presenza in Champions League. La maggioranza di loro è destinata a non mantenere le promesse.
Se è quindi troppo ottimista pensare che il successo sia garanzia di futuro, è però innegabile che una serie di buoni piazzamenti dimostra lo stato di salute di un movimento.
L’Italia si è giocata, perdendola, la finale dopo aver ottenuto la terza semifinale consecutiva nel torneo. Meglio di noi, con quattro di fila, solo Brasile e Argentina, Nazioni che sommate fanno dodici titoli mondiali senior su ventidue. Un secondo posto arrivato con un’Under 20 privata degli 2003 più navigati ad alti livelli, a casa sono rimasti i vari Gnonto, Miretti, Scalvini, Fazzini, Volpato. Transfermarkt (un buon indicatore ma non affatto il Vangelo, seppure molti proprio non riescono ad arrivarci), nei primi 20 giocatori del Mondiale rileva ben 8 brasiliani, 6 inglesi e solo due italiani, Casadei e Baldanzi.
Che sono stati per distacco tra i migliori giocatori del mondiale, oltre che della nostra Under, una squadra che a sua volta vale 32 milioni e mezzo. Dai 12 di Casadei ai 75.000 di Prati. La panoramica delle squadre va dalla finalista di Champions alla ventesima di Serie C: 3 giocatori per Inter e Empoli, 2 per la Roma e poi uno a testa per Udinese, Juventus, Sassuolo, Sampdoria, Genoa, Ascoli, Cittadella, Spal, Aquila, Trento, Giugliano, Mantova. Carmine Nunziata, governatore del centrocampo del rampante Padova dei primi anni ’90 poi reinventatosi tecnico federale, ha impostato un guizzante 4-3-1-2.
Contro il Brasile, dopo soli 15 secondi dall’inizio del Mondiale, Pafundi lancia Baldanzi in area. È l’inizio di un ritornello, quello della continua ricerca della verticalizzazione, che non abbandonerà i nostri per il resto del torneo. La prima ora contro i brasiliani è perfetta e a tratti sensazionale, il primo gol è indicativo della cifra stilistica della nostra Under: quando Casadei spizza di testa il pallone che Prati infilerà nella porta brasiliana per la prima delle tre reti, ci sono ben quattro azzurri in area e altri due a ridosso della linea.
È il risultato di un diktat federale estremamente chiaro, tutti devono fare tutto, sulla trequarti la mezzapunta deve poter dialogare sia con la mezzala che sale sia con la seconda punta che si abbassa. Però bisogna correre, sempre tanto e soprattuto negli spazi giusti, e non è casuale che con la Nigeria sia arrivata una sconfitta. Gli africani, noti per intensità e forza fisica (senza trascurare le cicliche polemiche sull’età di qualcuno di loro) non lasciano ragionare troppo, ti azzannano prima che la mediana possa impostare la verticalizzazione, e possono tenere ritmi che nel calcio giovanile sono semplicemente fuori portata per chiunque.
Asfaltata la Repubblica Dominicana, il passaggio alla fase a eliminazione diretta ha visto un cambio di titolarità in attacco. Su Pafundi, a causa delle improvvide convocazioni di Mancini, c’era molta attesa. L’estremo talento tecnico non sembra discutibile. Il gol contro la Corea, la naturalezza del gesto unita alla difficoltà psicologica sua e della squadra, è qualcosa che non si vedeva da tanto tempo in un giovane talento italiano.
Ma l’impressione è che il monfalconese non sia ancora considerato la prima scelta dei compagni per l’ultimo passaggio (emblematico Baldanzi che nell’azione del rigore contro i verdeoro si fa tutto il campo correndo accanto a lui, preferendo però aspettare e servire Casadei, sebbene il romagnolo sia in una posizione più arretrata e molto meno pericolosa) ma ancor di più paghi la minor fisicità in fase di ripiegamento (alla quale tuttavia si presta con generosità) rispetto ad altri, e che Nunziata preferisca legittimamente non snaturare il suo modulo base per mettere peso e centimetri davanti.
È una scelta che, sbagliando, snaturerà in finale.
Contro l’Inghilterra un’ottima prova, il lancio d’esterno di Ambrosino per Baldanzi è un’opera d’arte, ma non lo sono meno certi falli che ha saputo conquistarsi in punti nevralgici del campo in una gara dall’altissimo coefficiente di difficoltà. Una partita ben giocata anche dalla linea difensiva, tuttavia la sensazione è che il reparto ragioni per principi più che per sensazioni, e che quando non si riesce ad applicare il principio, nessuno riesce a rimediare in autonomia.
Certo, i tempi di maturazione dei difensori sono ben più lunghi di quelli degli altri reparti, ma una percezione che si ha spesso guardando l’Italia è che non sia impenetrabile, che il prezzo da pagare per trame offensive a tratti abbaglianti sia un lieve timore e sconcerto che avvolge il limite della nostra area quando l’avversario ci si avvicina. Con la Colombia gara psicologicamente complessa, loro ci aggrediscono ma non pungono, Casadei e Baldanzi ci portano in semifinale assieme al meraviglioso tacco di Esposito. Contro i coreani, come da tradizione, è dura.
Il calcio asiatico è in deciso rialzo, la Corea è stata finalista nella scorsa edizione e il secondo piazzamento di fila tra le prime quattro è il segnale che Seul fa sul serio. Riusciamo a non prendere due gol, ma ci andiamo molto vicini, e solo il sinistro di Pafundi a supplementari ormai vicini ci spalanca le porte della finale. Per l’ultimo capitolo ci aspetta l’Uruguay che, si sa, è un pessimo cliente per tutti – e il calcio giovanile non fa eccezione.
“Noi sembriamo usciti dall’oratorio, loro dalla galera” uno dei commenti che ho sentito dopo i primi cinque minuti della finale.
Una partita orribile, da calcio sudamericano nel peggior (o miglior) senso possibile: un campo indecente, una squadra che non riusciva a fare nulla di quello che voleva (noi) e una che senza talento, manie tattiche, senza difesa posizionale o sofisticati trequartisti ci ha lentamente ucciso con abnegazione, cattiveria, solidità, esperienza. Ebbene sì, perché anche quella conta. Per quanto limitato sia il campionato uruguaiano, loro giocano stabilmente nel massimo livello calcistico del loro Paese.
A un certo punto, quando Nunziata si è reso conto che sarebbero serviti più muscoli (ma ormai, con gli spazi che si stavano aprendo, forse valeva insistere con Pafundi come il capitano che affonda con la propria nave) ha messo Montevago, a vent’anni soli 229 minuti tra i professionisti. Il discorso è abusato ma assolutamente di primaria importanza: sempre troppo pochi i giovani italiani nelle squadre di Serie A. Ma è come combattere contro i mulini a vento, quindi arriviamo al raccapricciante gol che condanna l’Italia.
È l’amara conferma delle pessime sensazioni che la difesa aveva palesato durante tutto il torneo, magagne poco attenzionate dalla critica, abbagliata dal pur vivo rinascimento offensivo che l’impostazione tattica della nostra Under ha valorizzato. Si dice spesso che i risultati nel calcio giovanile contano poco, ed è vero, come è anche vero che il fine ultimo dello sport è vincere. L’Italia non ha preso gol solo dalla Repubblica Domenicana, 7 reti subite in 7 partite, l’Uruguay 3, per mano della sola Inghilterra ai gironi. Certo, ci sono ottimi motivi per essere contenti di quando visto in Argentina.
Alcuni giocatori, siamo pronti a scommetterci, potranno benissimo rientrare in quel 35% che giocherà la Champions. Ma sarebbe ingenuo non notare che c’è una rivoluzione in atto, e noi non siamo un popolo particolarmente entusiasta di abbandonare le tradizioni. La cultura di fondo del nostro calcio, che riflette un certo modo di porci nello stare al mondo, è cinica, speculativa, risultatista. Brera sosteneva fosse così per nostra necessità fisica, può darsi, di certo lo è per nostra necessità mentale.
Non sappiamo cosa ne sarà di questi ragazzi e di questo modo di intendere il calcio tra 10 anni.
Ma possiamo prevedere una cosa: che in Italia una Nazionale bella ma perdente sarà sempre ricordata meno di una brutta ma vincente. E se il modo di stare sul campo può, a costo di sforzi immensi, essere cambiato e imposto con successo, sradicare una mentalità diffusa negli stadi, nei bar, negli uffici, nelle poltrone, nelle strade, nelle osterie, nei campi di provincia è più difficile. Non siamo mai stati una Nazione dogmatica. Sarebbe un peccato perdere l’occasione di fondere una sapienza che ci ha portato quattro volte sul tetto del mondo con questa intrigante voglia di novità. Ma il dibattito è aperto, e siamo sicuri che ci farà discutere per qualche anno.