Chiacchierata d'altri tempi (e in libertà) con Italo Cucci.
Classe 1939, spirito battagliero e cultura a 360 gradi, Italo Cucci è stato un vero e proprio giornalista – e poi direttore – del Novecento. Beato lui ci viene da dire, che ha potuto studiare da Gianni Brera, conoscere a fondo Enzo Ferrari, ammirare Pier Paolo Pasolini; e che in generale ha vissuto e raccontato, in tutte le sue contraddizioni, il secolo più letterario della storia.
Nell’immaginario collettivo però Cucci è prima di tutto il Direttore: certo ora di Italpress, prima del Corriere dello Sport-Stadio, del Quotidiano Nazionale o anche di alcuni mensili e settimanali come Master e Autosprint, ma soprattutto Italo Cucci è stato il grande direttore del Guerin Sportivo, un pilastro – forse il pilastro – della narrazione sportiva italiana. Per il resto il suo curriculum mette in soggezione, e vanta collaborazioni ed esperienze uniche in Italia. Gli abbiamo rivolto qualche domanda, cercando di fuggire la stringente attualità per concentrarci su aneddoti, uomini e idee.
Tempo fa pubblicammo una critica al “nuovo” Guerin Sportivo: lei giustamente ci accusò di essere irrispettosi, e forse aveva anche ragione. Tuttavia noi ci siamo formati sul vecchio Guerino, lo stesso che lei ha diretto per anni portandolo ai suoi massimi storici. Ci racconta la sua esperienza e l’evoluzione del progetto durante gli anni, e ci spiega perché sbagliavamo?
Ah, siete voi? Vi trovai piuttosto menagrami. Non sbagliavate, semplicemente non vi siete interessati dei problemi editoriali di questo Paese, soprattutto nel settore periodici. Non vi siete accorti che il mitico “Espresso” è diventato l’house organ di “Repubblica”; che il superdotato e progressista “Panorama” è stato salvato dalla chiusura da un giornalista, Maurizio Belpietro, che se l’è comprato, immagino ai saldi; di sport e musica ne sono spariti una mezza dozzina; Sorrisi e Canzoni sorride a fatica, ma almeno c’è.
Il Guerin stava per chiudere ai primi segni del crollo della stampa sportiva, il mio amico Roberto Amodei, editore anche del Corriere dello Sport-Stadio e di Tuttosport, lo ha salvato trasformandolo in mensile. E non lo ha abbandonato neppure quando la vita è tornata difficile e morivano anche i mensili di infotainment e di motori. Poi, senza presunzione, quel Guerin arrivato a vendere 340.000 copie era il mio Guerin, fatto con la mia testa e le mie mani. Ricordate il Direttore Operaio? Ero io.
Ognuno ha fatto il suo, Bortolotti, Bartoletti, Marani. C’è passato anche Ivan Zazzaroni, l’unico in perfetta sintonia con me, e il mensile che fa adesso, al quale collaboro con passione, mi piace. En passant, vi informo: Placar, il grande settimanale brasiliano del potente Grupo Abril, è diventato mensile; Don Balon, settimanale di Barcellona, è diventato digitale; lo storico El Grafico di Baires è finito. E ancora, il grandioso Sport Illustrated USA ha già cambiato padrone tre volte e resiste impavido il solo numero annuale di meravigliose gnocche. Il Guerin Sportivo ha 109 anni, è il più antico periodico del mondo ancora in edicola. Toccandomi, Viva il Guerino. In senso letterale.
Il primo numero del Guerin Sportivo, nel gennaio 1912. Ventisette anni prima che nascesse Italo Cucci
Lei ha collaborato con l’Università La Sapienza di Roma, con quella di Palermo, Milano, Udine. Ha anche insegnato alla LUISS e all’Università di Teramo: come ha trovato le nuove generazioni, sportivamente parlando? C’è ancora la consapevolezza di quanto lo sport sia un enorme fenomeno sociale ancor prima che uno “spettacolo”?
Per quasi tutti gli aspiranti giornalisti o comunicatori sportivi (un abisso fra i due settori) lo sport era un passaggio obbligato, come scienze al liceo mentre fai latino e greco. Non dico dell’Italiano, sempre più maltrattato, soprattutto all’Università. Ai migliori allievi alla Luiss, tanti a “imparare” Giornalismo Sportivo, in realtà raccontavo come fare un giornale perché gli altri insegnanti potevano al massimo teorizzare. Li ritrovo da anni in posizioni di prestigio. Rimpiango quella fase della mia vita finita bruscamente quando arrivò Luca di Montezemolo e mi congedarono senza motivo. Anzi lo so: ragioni politiche. Qualcuno ricordò che al Guerin mi ero definito anarchico di destra, come il Maestro dei Maestri Leo Longanesi, il romagnolo che leggeva gli scritti di Montanelli – per dire uno dei grandi suoi allievi – e li correggeva.
L’insegnamento più vero, profondo e felice a Atri, sede distaccata di Scienze Politiche dell’Università di Teramo, CORSO DI LAUREA IN SCIENZE GIURIDICHE, ECONOMICHE E MANAGERIALI DELLO SPORT, fondatore Luciano Russi, poi Magnifico Rettore. Io con lui fin dal primo giorno. Luciano è stato il più importante accademico dato allo sport. In tutti i sensi: fu per qualche tempo anche presidente del miracoloso Castel di Sangro, la piccola squadra di mister Osvaldo Jaconi e di Gabriele Gravina – oggi presidente della Federcalcio – che, come l’Università di Teramo, diventò con lui una grande squadra; era il rettore che amava lo sport e la cultura e che come incipit del suo libro su Lilliput che diventa un gigante scrisse: «Chi vale vola, chi vola vale, chi non vola è un vile».
Aveva fondato il periodico “Lancillottobe Nausicae”, fonte di note storiche spesso inedite. Era un dannunziano, mi volle poi alla Sapienza con lui quando diresse Scienze della Comunicazione. Di lì fuggii, accortomi che quella facoltà avrebbe messo al mondo un nuovo genere di giornalisti, colti ma senza mestiere. Particolarmente…dannosi nei giornali sportivi, salvo casi rari. Mi piace ricordare un’allieva in gamba e davvero appassionata di calcio poi cresciuta al Corriere dello Sport, Anna Billò. La scuola del Guerino era un laboratorio, meglio: un’officina. Chi è uscito di lí ha fatto carriera.
Quel gigante di Leo Longanesi, “un conservatore in un Paese in cui non c’è più nulla da conservare”: se Italo Cucci può citarlo con disinvoltura è perché una volta il giornalista sportivo era prima di tutto giornalista in senso lato, con riferimenti e retroterra che esulavano dal rettangolo verde. Oggi invece la specializzazione sta portando i giornalisti sportivi ad essere degli specializzandi nella materia, sacrificando così la cornice “culturale” fulcro dello sport.
Qualche settimana fa Angelo Carotenuto evidenziava un vulnus del giornalismo odierno, ovvero non mandare più i corrispondenti sul campo: «Meno giri, meno vedi. Meno incontri, meno capisci. Meno conosci, meno sai e meno riferisci». Un concetto molto “breriano”. Lei che è uno vecchia scuola, è d’accordo? Ed è questa una deriva inevitabile?
Ho scritto un libro, “Un nemico al giorno”, per raccontare la vita di un giornalista sul campo. Comincia con «ho girato il mondo a spese altrui», dettaglio non di poco conto, visto che gli stadi del mondo erano diventati la mia casa, i Giochi Olimpici la mia scuola, gli spogliatoi il campo di prova e il luogo di incontri memorabili. Il tutto da riportare a bottega, in redazione. Là dove ho lavorato con Brera, seguendolo poi in tutta Europa e in America. Il giornalista sportivo è forse l’unico a restare incompiuto se non viaggia e non partecipa agli eventi. Sono cosí ricco di esperienze dirette e di contatti vitali con i Protagonisti che posso permettermi il lusso di parlare e scrivere solo di chi ho conosciuto. Bastano sessant’anni d’avventure?
L’ultimo periodo ha mostrato tutta l’isteria del presunto anti-razzismo, dal caso Cavani a quello di Vardy passando per il quarto uomo più famoso della storia. Per lei, che è un grande conoscitore del mondo del calcio, c’è veramente un razzismo da combattere nel pallone? E anche se fosse, siamo sicuri che questo sia il modo giusto per farlo?
Stanno giudicando quel Quarto Uomo rumeno che ha chiamato negro un panchinaro dell’Istanbul Basaksehir avversario del PSG. In un dialogo con l’arbitro Ovidiu Hațegan, l’imputato, Sebastian Coltescu, secondo Demba Ba, attaccante dei turchi, avrebbe usato l’espressione ‘negru’ verso Webo, assistente allenatore che Hategan intendeva espellere per proteste. In lingua rumena “negru” vuol dire nero.
Ricordo ancora una visita di Pelé, mio compagno d’avventure, a Milano per presentare il suo film. Sí disse “negro” almeno dieci volte parlando di se stesso. Il razzismo nello sport è un’invenzione, cosí come è una certezza che nello sport vi siano dei coglioni responsabili di quel che fanno e dicono. Come nel resto della vita. Mi è sempre piaciuto citare Jean Paul Sartre, amatissimo ai tempi del liceo, cui piaceva il pallone e lasciò scritto “il calcio è metafora della vita”.
Oltre al Guerino noi nasciamo anche sotto il segno (e la lettura) di Gianni Brera: lei che è stato suo allievo, ci dica qualcosa di lui.
Ho avuto la fortuna di trovarmelo direttore al vecchio Guerino milanese quando avevo venticinque anni e stavo completando la preparazione professionale. Trovai innanzitutto un innamorato della lingua italiana (come me), del calcio all’italiana (mi convertí lui, ero un qualunquista), un maestro al lavoro (mi emozionai quando mi passò il primo pezzo e disse ‘va bene’), uno straordinario compagno di viaggio che la notte, in giro per il mondo, mi invitava a sedere accanto al suo letto chiacchierando, fumando e bevendo whisky.
Rideva delle mie idee politiche, ricambiato quando si dichiarava nazionalcomunista: una volta volle che apprezzassi un suo bel cappotto di cachemire che s’era appena comprato. Era anche un uomo straordinario, per nulla paterno, a volte – nei racconti privati – un Salgari che aveva viaggiato davvero. E se ti diceva storie di campioni era come vederli in carne e ossa.
Gianni Brera e la celebre Olivetti Lettara 62 con cui ha rivoluzionato – e nobilitato – il giornalismo sportivo italiano. A lui Italo Cucci deve buona parte della sua formazione, umana ancor prima che professionale (i due aspetti d’altronde sono inscindibili).
Lei invece conosceva bene anche Enzo Ferrari: che uomo era?
Gli ho dedicato un libro osando quasi il ricordo di un amico. Il figlio Piero lo ha apprezzato per la sincerità del racconto. Cominciò a invitarmi a Maranello e a Fiorano, dove si mangiava insieme e io registravo con la mente tutto quello che mi diceva, grandi pettegolezzi compresi. Quando gli chiesi perché mi trattasse con tanta benevolenza, lui famoso fustigatore di giornalisti che chiamava “ingegneri del lunedì”, mi rispose ridendo «perché lei non capisce un cazzo d’automobili». Insomma, ero l’unico a non tediarlo con domande sulla Ferrari, sulla Formula, sul suo mondo di lavoro. Che tuttavia grazie a lui cominciai a conoscere, tanto che prima mi assegnò l’ambitissimo premio dedicato a Dino, il figlio perduto, eppoi mi costrinse a dirigere “Autosprint”, il famoso ‘settimanale da corsa’.
Nel GS di Dicembre 2020 ha dedicato un appassionato ritratto a Pasolini, tanto da definirlo “suo eroe” nell’incipit. Quale può essere il lascito del pensiero di PPP per i giovani di oggi? E in generale, c’è ancora spazio per raccontare il calcio in chiave epica, estetica, culturale?
Diventai pasoliniano quando andai a studiare a Livorno, al liceo classico Niccolini, un covo di intellettuali comunisti, e mi trovai in mano un suo libro comprato dal famoso bancarellaio Rubapoco: “Le ceneri di Gramsci”. Capii perché dopo aver subito l’odio borghese a Casarsa della Delizia era stato espulso perché omosessuale dal partito comunista romano. Era un uomo libero, un intellettuale senza paraocchi, colto e modesto, intelligente rivoluzionario. E appassionato di calcio. Gli dedicai la copertina del Guerino il giorno in cui fu ucciso, pubblicando la sua ultima intervista rilasciata al collega Claudio Sabattini, uno che girava con “Lotta continua” in tasca e mi disse – scherzando ma non troppo – “Direttore, Pasolini sembra quasi di destra”. Confermai.
Ci racconta qualcosa della sua lunga carriera (aneddoti, esperienze, insegnamenti) a cui si sente particolarmente legato?
Una storia particolare. Un viaggio in Cina nel 1981, Mao morto da poco, sua moglie Jiang Qing, anima della Banda dei Quattro, in galera. Aria pesante. Mi aveva invitato il governo perché raccontassi cos’era il calcio ai giornalisti di Pechino, Shangai e Canton. Mi conoscevano perché ero direttore del Guerin Sportivo. La più alta onorificenza – anzi l’unica – della mia vita.
Il sindaco di Shangai, allora capo dei comunisti oltranzisti, alto epuratore, mi invitò a cena, e un interprete straordinario, il professor Huanbao, da poco uscito da una Comune dove l’avevano prima istruito poi riabilitato, ci fece chiacchierare tutta la sera. Al commiato, il sindaco mi disse che si era divertito. Mi chiese le mie origini, gli dissi che venivo dalla Romagna, riflettè un attimo e senza bisogno d’interprete sparò “Romagna…Mussolini!” e al vedermi spaventato fece una gran risata. Sono ancora qui.