L'8 settembre del 1999 ci lasciava un indimenticabile presidentissimo.
Nel giorno del passaggio di consegne all’interno dell’Inter un uomo d’altri tempi può anche mettersi a piangere. A maggior ragione se l’uscita di scena corrisponde alla cessione di un pezzo del proprio cuore o della propria famiglia. D’altronde, in quel gennaio 1984, Ivanoe Fraizzoli è ben consapevole di non riuscire più a stare al passo con un calcio e un mondo che stanno correndo troppo veloci per lui. Con la Milano da bere alle porte, nel pieno di un decennio consacrato all’edonismo reaganiano e alla deregulation economica, l’epoca della gestione di un grande club in stile casa e bottega è ormai cosa archiviata. Succede allora che quel signore dal “fisico imponente, da John Wayne meneghino” (cit. Gianni Mura) mostri tutta la sua fragilità di uomo stanco e invecchiato, mettendosi a nudo di fronte alla platea dei cronisti.
“Ho sempre messo, forse, troppo cuore perché sono nato con l’Inter… Non è solamente il calcio, è un qualche cosa che mi è entrato nella vita e non lo saprò mai dimenticare. Vedete, questa è la mia debolezza, ho lottato sempre per saper resistere a questi impeti del mio animo. Non ero fatto sicuramente per presiedere una società di calcio, specialmente adesso che questo calcio è molto cambiato”.
Ivanoe Fraizzoli
Del resto l’Ivanoe ci arriva stremato a quell’appuntamento, reduce da un periodo traumatico non superato. Una fase crepuscolare della sua presidenza segnata dal clamoroso affare Falcao, con tanto di contratto già definito, sfumato dopo l’intervento di “Sua Eccellenza” (cit. Giovanni Arpino) dalla Capitale, in un intreccio che coinvolge i vertici romani, e romanisti, della Democrazia Cristiana. Tra le varie versioni dei fatti, quella del ds nerazzurro Beltrami svelata alla Gazzetta dello Sport vede Franco Evangelisti, ex presidente giallorosso e uomo di fiducia di Giulio Andreotti, telefonare a Fraizzoli per indurlo a desistere, accennando ai piani dell’azienda tessile dell’impresario milanese, con un “è vero che lei sta aprendo negozi in via Veneto?”.
Come se non bastasse, in quei mesi tribolati, per il presidente crolla la certezza che una squadra di calcio possa essere una famiglia, con i giocatori figli e lui padre, come gli hanno confermato due bandiere cresciute sotto il suo sguardo paterno e ora ammainate. Infatti Ivano Bordon e Lele Oriali lasciano l’Inter per accasarsi rispettivamente alla Sampdoria e alla Fiorentina, sfruttando la legge 91 del 1981 che permette ai calciatori di svincolarsi dalle società di appartenenza, interrompendo così un legame ultradecennale.
LA SQUADRA DEL CUORE
Un legame, quello con il Biscione, che per l’Ivanoe iniziava con la visione delle prime partite al campo di via Goldoni (casa dell’Inter dal 1913 al 1930), incantato dai gol di un giovane Giuseppe Meazza, e diventava indissolubile nell’adolescenza con la propria tessera siglata l’1 agosto 1931, ai tempi della denominazione del club in Ambrosiana. Un avvio del suo rapporto ufficiale con la Beneamata segnato dall’errore di un funzionario, visto che su quel cartoncino, mostrato ancora con orgoglio molti anni dopo, compariva il nome “Ivanos”. Quasi un suggerimento di quell’imperfezione, rinfacciatagli decenni più in là da critica e tifosi, che avrebbe caratterizzato l’intera avventura del Fraizzoli presidente. Troppo buono, troppo attento al bilancio, troppo affezionato ai giocatori considerati come figli.
Accanto alla passione per il Biscione, il ragazzo cresce con la vocazione per il far di conto nell’azienda di famiglia, fondata dal padre Leonardo nel 1923 col nome di Fabbrica Italiana di Uniformi Civili, poi ribattezzata in Manifattura Fraizzoli. Una ditta che diventerà sempre più un’istituzione meneghina, fornendo le proprie divise al vasto panorama dei servizi della vita milanese, come gli addetti degli uffici comunali, le maschere della Scala, tramvieri e ferrovieri, compresi quei vigili urbani meglio conosciuti come “ghisa”. Poi, con l’improvvisa scomparsa del papà, al giovane Ivanoe tocca prendere le redini dell’azienda e affrontare il tumultuoso periodo bellico, al termine del quale un pomeriggio d’inverno passato all’Arena Civica farà innamorare dei colori nerazzurri anche la sua futura moglie. Una ragazza, la Renata, che diventerà un’inseparabile presenza accanto al marito in tutte le partite allo stadio prima, durante e dopo la sua presidenza.
“I presidenti sono di tre tipi: quelli che lo fanno solo per guadagnare, quelli che lo fanno per problemi di immagine e quelli che lo fanno per megalomania. Anzi, di quattro tipi: io l’ho fatto per passione”.
Ivanoe Fraizzoli
Una carica ricoperta dopo una militanza di decenni all’interno del club, prima da socio e poi da consigliere, e affidatagli dall’artefice della Grande Inter, Angelo Moratti, che sicuro della sua scelta dirà: “L’ho ceduta a un galantuomo”. Dopo la vetta si può solo scendere eppure, in quel fatidico maggio 1968 così simbolico a livello storico e sociale, l’Ivanoe prende il timone del sodalizio nerazzurro con la speranza di poter replicare gli sfarzi dell’era morattiana, pur consapevole che nel calcio non è sufficiente la buona volontà, così come la sua lunga preparazione potrebbe non bastare per essere all’altezza del compito.
Una mansione, quella di presiedere una società calcistica, che per Fraizzoli è legata alla passione popolare per il gioco, senza perdere la testa, spendendo cifre folli o partecipando ad aste mercantili per acquistare un calciatore. Il bilancio sano prima di tutto, quindi, a rischio di essere contestato dalla tifoseria, cosa che avverrà non di rado durante il suo mandato.
Avventuratosi nella missione proibitiva di succedere ad Angelo Moratti e inoltratosi nei magmatici anni Settanta, Ivanoe vive comunque il suo momento di autentica gioia. Lo fa in una stagione nata male, assecondando il malumore dello spogliatoio ed esonerando Heriberto Herrera, l’allenatore paraguayano profeta del movimiento, scelto un anno prima con l’idea di aprire un nuovo ciclo e poi sconfessato in favore del pragmatico Giovanni Invernizzi, mister della Primavera e di casa nell’ambiente nerazzurro sin da giocatore.
Staccato di 7 punti dal Napoli e 6 dai cugini, in un’epoca in cui la vittoria ne vale solo 2, il Biscione realizza una rimonta scudetto grazie a Invernizzi che recupera alcuni veterani scartati dal suo predecessore. Una formazione di culto, quella del 1970/71, che annovera nomi quali Facchetti, Mazzola, Corso, Burgnich, Jair, Bedin tra i superstiti della Grande Inter, a cui aggiungere Vieri, Bellugi, il mediano Bertini (primo acquisto dell’era Fraizzoli) e soprattutto il capocannoniere Boninsegna.
“Ma più del presidente, oggi ricordo un padre che tutti i sabati pomeriggio saliva alla Pinetina con la signora Renata, seguiva la messa con noi e ci parlava”.
Roberto Boninsegna
Una cavalcata che include come partita simbolo il derby di ritorno, vinto con le reti di Sandrino e Mariolino, i preferiti del presidente. Qui l’estro di Corso nel calciare la punizione unito ai calzettoni abbassati, suo marchio di fabbrica, rappresenta la fotografia di un fútbol d’antan in cui l’Ivanoe seduto in tribuna, insieme alla “presidentessa” Renata, calza a pennello. Poi, con il tricolore sul petto, l’Internazionale prova a tenere fede al suo nome, inseguendo un successo continentale che consentirebbe all’imprenditore tessile di brillare di luce propria, uscendo dalla zona d’ombra in cui è inesorabilmente relegato dopo le glorie di Angelo il petroliere. Un auspicio che s’infrangerà a Rotterdam, nella finale di Coppa dei Campioni contro un Ajax troppo forte, giovane e bello, nel pieno della sua rivoluzione che spazza via il vecchio, compreso ciò che resta della Grande Inter certificandone il definitivo tramonto.
Il tentativo, fallito, di rinverdire gli antichi fasti passerà anche dal breve ritorno di Helenio Herrera, che causerà la partenza di Mario Corso, giocatore mai amato dal Mago neanche negli anni d’oro. Un altro segnale della fine di un’epoca, con l’ingresso della Beneamata e di Fraizzoli in un periodo più oscuro che luminoso. Inoltre, per il presidente le acque si fanno davvero agitate pure nella vita privata, a causa di alcune minacce che lo costringono a girare sotto la protezione di una scorta.
Riguardo al calcio, poi, un’insofferenza crescente covata verso l’intero ambiente culmina nelle dimissioni rassegnate nel 1975, in seguito al tormentato acquisto dell’attaccante Libera dal Varese. Un temporaneo abbandono della carica che, tra l’altro, fa sfumare l’affare ormai fatto per Tardelli, che dal Como viene lasciato andare alla Juventus. Proprio i grandi acquisti svaniti sul più bello, oltre alla rigidità nei conti, costituiranno un altro capo d’accusa da parte di critica e tifosi nei confronti del mite Ivanoe.
Nonostante le delusioni e il momento di crisi, il pronto ritorno alla guida del Biscione avviene anche, e soprattutto, per merito di Renata, insistente nel far cambiare idea al marito. Una ripresa di fiducia che nel 1977 comporta una scelta di basso profilo, ma allo stesso tempo lungimirante, a partire dalla nuovo assetto dirigenziale. Infatti, la coppia scelta per ricostruire società e squadra è composta da Giancarlo Beltrami, direttore sportivo in arrivo dal Como, e da Sandro Mazzola, il figlio più amato in assoluto dal presidente e nominato consigliere delegato non appena appesi gli scarpini al chiodo. Per un progetto a lunga scadenza, i due puntano su Eugenio Bersellini, nonostante l’allenatore sia fresco di retrocessione con la Sampdoria, e sui giovani Altobelli e Beccalossi, entrambi prelevati dal Brescia, nella serie cadetta, a distanza di un anno l’uno dall’altro.
“Gli devo molto: a 35 anni ha avuto il coraggio di affidarmi la gestione e la ristrutturazione completa della società. Lasciò un calcio che non era più il suo. Il suo ultimo budget prevedeva 3 miliardi per tutti gli ingaggi. Era rigidissimo nel bilancio: non si poteva sgarrare di una riga. Mi sembrava una forzatura. Invece era giusto così”.
Sandro Mazzola
Un piano triennale, quello per arrivare allo scudetto, aperto con la vittoria della Coppa Italia e rispettato con il tricolore del 1980, l’ultimo vinto da una rosa di soli giocatori italiani. Oltre a ciò, dovuto al blocco delle frontiere che cadrà l’estate successiva, più della metà dei 16 calciatori a disposizione del Sergente di Ferro proviene dal vivaio nerazzurro, tra cui i titolari Bordon, Beppe Baresi, Oriali, Muraro e il capitano Bini. Una formazione che per il presidente è “in gran parte opera di Mazzola e Beltrami” e che, pur nella gioia, sente meno sua rispetto a quella del 1971.
In ogni caso, il successo è comunque buono per ripagarlo delle sofferenze patite, dato che “a Milano si è quasi obbligati a vincere ogni 4 o 5 anni”, come dice a Beppe Viola durante la Domenica Sportiva, aggiungendo con un sospiro di sollievo: “forse sono arrivato in media”. Il sogno di rimettersi in media sul fronte europeo, invece, sarà bloccato in semifinale di Coppa dei Campioni dal Real Madrid, che negherà a Fraizzoli la possibilità di entrare da protagonista nei libri di storia del calcio, a differenza di Moratti con la Grande Inter.
Il quinquennio di Bersellini si chiude con la conquista di un’altra coppa nazionale, l’ultimo trofeo nella bacheca personale del presidente. Uno spartiacque che segna l’inizio di una fase ormai calante della sua avventura, marcato anche da incroci di calciomercato davvero sfavorevoli per il Biscione, tra errori di valutazione, malintesi e cause di forza maggiore. Come Platini che approda alla Juve, dopo essere stato opzionato dai nerazzurri qualche anno prima, ma mollato su ordine dell’Ivanoe che non se la sentiva di vincolare il ragazzo senza avere certezze riguardo alla riapertura delle frontiere. Inoltre, non aiuta che in quell’estate post Mundial ’82, mentre Le Roi Michel sbarca a Torino, l’Inter si porti a casa Hansi Müller, a proposito del quale Fraizzoli commenterà: “me l’avevano dato per sano”.
C’è che il presidente inizia a sentirsi sempre più fiaccato dai tempi e fuori contesto. Allora si fa viva l’ipotesi di vendere la società e in un bizzarro incrocio tra il vecchio che deve farsi da parte e il nuovo che avanza, proprio nel panorama milanese, si propone come possibile acquirente Silvio Berlusconi. Infatti, come ricorda Vittorio Dotti, l’ex capo dell’ufficio legale di Fininvest, il Cavaliere è interessato al club nerazzurro malgrado la sua fede milanista, poiché il Biscione gli garantirebbe un influsso positivo rispetto allo sventurato Diavolo, come suggeritogli dal suo chiaroveggente di fiducia. Due esemplari agli antipodi, Silvio e Ivanoe, che non possono venirsi incontro, visto che all’offerta molto vantaggiosa dell’uno segue il cortese rifiuto dell’altro, il quale non intende tradire il suo credo e ribatte con un “Berlusconi, ma perché non compera il suo Milan?”.
“Oggi bisogna saper marciare sui cadaveri, ma io non sono capace”.
Un travaglio, quello degli ultimi mesi di presidenza, acuito dai saluti di Bordon e Oriali, i suoi ragazzi, e dal caso Falcao. Stavolta non basta più neanche la perseveranza di Renata che gli dice di tirare dritto e portarsi a casa il centrocampista brasiliano, in barba alle pressioni romane, così almeno ci si diverte. Tuttavia, di lì a qualche mese, appurato l’andazzo irreversibile delle cose, reso chiaro dalle notti insonni del marito, sarà proprio lei a convincerlo a vendere e a mettersi finalmente il cuore in pace. Una cessione agevolata, nel frattempo, dall’offerta di Ernesto Pellegrini, già consigliere in società, imprenditore nel ramo della ristorazione aziendale e anch’egli interista doc, il quale si presenterà al popolo nerazzurro con un fiore all’occhiello di nome Karl-Heinze Rummenigge, ma questa è un’altra storia.
FRAIZZOLI, ADULTO, MALATO DI INTER
Dato che “ormai la materia la sta spuntando sullo spirito”, come dirà in un’intervista a Repubblica nel giugno di quell’anno, l’Ivanoe esce dunque dal giro e lo fa alla sua maniera, cioè non riuscendo a nascondere la cosa sino a fine stagione come avrebbe voluto. Sempre a modo suo, in quel giorno di cesura del gennaio 1984, mostra la sua natura cristallina di uomo fragile in mezzo ai mercanti nel tempio, anche nel tracciare un resoconto sul suo operato ammettendo, con una forte autocritica venata da una punta d’orgoglio, che si tratta di un “bilancio misero: 2 scudetti in 16 anni sono pochi, ma il mio bilancio morale è ottimo”.
Cessate le ostilità, l’Ivanoe può tornare a essere semplicemente un tifoso, come quando seguiva le partite al campo di via Goldoni o all’Arena Civica, ai tempi del suo itinerario di formazione nella città che andava di pari passo con quello dell’Internazionale, nata e cresciuta nel Novecento proprio come lui. L’avrebbe accompagnata, la sua Beneamata, con discrezione dagli spalti di San Siro fino a che le forze gliel’avrebbero consentito, prima di spegnersi insieme a quel secolo.
Per gli almanacchi se ne sarebbe andato un imprenditore e dirigente sportivo, mentre per i suoi ragazzi, invecchiati anche loro, sarebbe rimasto negli anni il ricordo di un padre, lui che di figli con la Renata non ne aveva avuti. Insomma, se i presidenti vanno e vengono, qui restava nel cuore la sensazione che un personaggio come Ivanoe Fraizzoli, nel mondo del calcio, non lo si sarebbe più visto.
“[…] se c’era un’orchestra invitava la moglie a ballare, e ballavano bene. Vorrei ricordarlo così, Ivanoe Fraizzoli: in un giro di valzer, con la Renata (così diceva lui, guai a chiamarla lady) tra le braccia”.
(Gianni Mura, la Repubblica, 9 settembre 1999)