A Roma c’è un segreto, un segreto di Pulcinella. A Roma ci sono dei signori, di mestiere fanno gli imprenditori edili, che sono chiamati palazzinari. C’è una diceria, una vox populi, che li vuole sempre colpevoli. Agiscono in un luogo terzo e mitico che non bene si comprende. “Qua na vorta era tutta campagna, poi so arivati i palazzinari” è una frase ricorrente in città. Il primo sillogismo stimolato è che palazzinaro rappresenti, o sia del tutto, qualcosa di negativo. Da una parte la sfortuna che il dialetto romanesco porta con sé ha facilitato la resa grottesca che il termine ha assunto. Palazzinaro come impiccione, un imprenditore improvvisato, scapestrato, fanfarone, arraffazzonato, corruttore, approssimativo, caciarone: un bel concentrato dei principali difetti del romanese contemporaneo. Questa potrebbe anche essere una descrizione sufficiente se confinassimo il fenomeno agli anni del boom, i cinquanta e i sessanta. In quell’epoca, quando l’inizio di una fase di benessere economica stimolò la migrazione dalle zone rurali alle grandi città, l’edilizia esplose letteralmente. All’esponenziale e rapido crescere della domanda di abitazione rispondono i nostri protagonisti: terreni prima agricoli vengono repentinamente dichiarati edificabili. Il pubblico si accolla i costi di urbanizzazione (tracciati idrici ed elettrici), i privati acquistano a prezzi irrisori. Nel giro neanche di quindici anni Roma ha le sue borgate, luoghi densi di umanità – chiedere a Pasolini e a Siti – e disagi, esteticamente orripilanti. Periferie dell’esistenza prima che del centro storico. La città più bella del mondo con le periferie più brutte del mondo. In quegli stessi anni però avviene un passaggio di consegne generazionale che segnerà – e continua a segnare – la storia contemporanea, speriamo si limiti a questa, della città. Il miserabile speculatore da bustarella, il più delle volte capomastro di cantiere fattosi imprenditore, che continua a forza i piani regolatori di amministrazioni impotenti (o conniventi) nella speranza di tirar su qualche altro complesso edilizio, lascia il posto ad un nuovo tipo di palazzinaro. Un moderno uomo d’affari perfettamente conscio della direzione che sta prendendo il mondo, consapevole ancora di quante opportunità possa concedere la ricchezza sopravvenuta se ben indirizzata. Questo fenomeno è magistralmente raffigurato dal compianto Scola nel suo “C’eravamo tanto amati“. Gassman interpreta un giovane ex partigiano laureatosi in legge alla fine della guerra. Innamoratosi di Luciana (Stefania Sandrelli) un giorno all’Aventino si imbatte casualmente in una giovane donna, apparentemente innocente ed ingenuotta, di nome Elide (Giovanna Ralli), che gli dimostra da subito l’invaghimento. Questa è la figlia di un rozzo palazzinaro interpretato da uno straordinario Aldo Fabrizi. Lo squattrinato Gianni (Gassman), compresa la possibilità di trascorrere una vita nell’agio economico, decide furbamente di cogliere la palla al balzo e si accasa con Elide lasciando la compagna Luciana (a sua volta ex del suo migliore amico Antonio, Nino Manfredi). Seppur insoddisfatto dal matrimonio Gianni inizia una subdola scalata ai vertici dell’impresa di famiglia che lo vede, in pochi anni, prendere il totale controllo. Un giorno ha uno scambio d’opinioni con il pensionato suocero: questo gli ripropone la cantilena della corruzione ai funzionari dell’urbanistica mentre il genero pensa in grande parlando di quotazione in borsa, lobbismo, malapolitica e finanza. L’alterco si conclude con un forte schiaffo arrestato da Gianni sul volto del povero anziano. Per un palazzinaro che va, uno che viene.
Un estratto del film
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Il palazzinaro novus è un affarista a 360 gradi. Non si perde in mezzucci come la bustarella. Con la stampa può veicolare l’opinione pubblica come meglio crede, con le banche dispone di tutta la liquidità di cui necessita, con la politica ottiene i placet per le operazioni più grandi. Non si limita ad influenzare, egli può dominare direttamente il suo contesto di riferimento. Da questa seconda declinazione del genere si ottiene l’attuale figura, e percezione, del personaggio palazzinaro che, per metonimia, diventa da romano un soggetto nazionale invischiato perennemente negli affari opachi. Non un semplice esponente dei salotti buoni del capitalismo familiare italiano (a cui assomiglia, beninteso, per forma) ma un più complesso Innominato che tutto può. Una riformulazione liceizzata di capoclan mafioso, un signore del tempo e dello spazio rappresentante di un irretrattabile status quo. In questa città dominata dei forestieri si erano messi in testa di venire a contendere lo scettro. Figurarsi se possibile. I fatti sono noti: la proprietà statunitense della Roma ha deciso – sin dai tempi dell’acquisizione della società – di costruire un nuovo stadio per la squadra. Giocoforza per i tempi che corrono che la struttura fosse prevista come un grande polo commerciale (bar, ristoranti, negozi, megastore etc) idoneo a sfruttare le decine di migliaia di tifosi, e non, che in potenza potranno accorrere. L’ordine di grandezza del progetto è imponente: viene chiamata una archistar, si parla del coinvolgimento di banche d’affari e fondi sovrani, viene disposta una straordinaria rete di collegamento – anche pubblico – all’impianto. Il modello ricorda più gli stadium del football americano che i famigerati stadi inglesi (chiamati in causa sempre a sproposito: sono di modesta dimensione, nel pieno centro delle città, si ergono sulle fondamenta di strutture del diciannovesimo secolo). Due miliardi e mezzo di euro la cifra totale a carico di privati che andrebbe sborsata per la realizzazione: una bella torta.
Dal giorno 0 del progetto, quello della presentazione in pompa magna al Campidoglio sotto Marino, la maggior parte dei romani (tifosi e non della Roma) hanno cominciato a congetturare unicamente sulla durata dei lavori, abituati come sono ai tempi biblici delle grandi opere pubbliche, non tanto sull’impatto ambientale, geologico, idrico, stilistico, estetico, culturale e filosofico dello #stadiodellaroma, come paiono tutti fare adesso. Le questioni principali che ci si poneva erano da un lato – quello giallorosso – se Totti avesse o meno fatto in tempo ad inauguralo da calciatore e dall’altro – quello biancoceleste – se mai si fosse riaffacciato un patron-investitore in grado di solleticare gli entusiasmi dei tifosi con un progetto simile. Non ci si poneva allora questioni di edilizia etica, di tessuto urbano coerente, di passione sfrenata per l’architettura di ippodromo, come si fa oggi al contrario. Se all’inizio il sì politico arrivò un po’ a fatica, non meravigliando nessuno, ciò che apparve da subito strano fu l’ostilità al progetto dei due quotidiani della città. Una attenta e ben ponderata attività di ostracismo che da due anni e mezzo impegna i suddetti quotidiani, infangando il progetto, ed i suoi proponenti, in tutte le forme possibili.
Con l’arrivo della sindachessa, paladina col suo movimento dello pseudo-ecologismo ideologico, il destino di questo stadio ha cominciato a virare verso il fallimento. Vuoi perché megafono di una malato strillo contrario al cementoh, vuoi perché, malconsigliati e disorientati, sono meglio etero-dirigiibili. Fino alla follia perpetratasi in questi giorni: l’apposizione di un vincolo di tutela ad opera del Mibact, su proposta di Italia Nostra, a favore di ippodromo – precisamente tribune e pista – ad oggi da considerarsi un “gioiello architettonico”, nelle parole della sopraintendente architetto signora Eichberg, solo casualmente sorella del vicepresidente vicario della SS Lazio – per quanto sia ovvio che la vicenda deve rimane squisitamente politica ed asportiva – ed esponente di un’associazione che ha tra i suoi soci onorari un omissis solo omonimo, sic!, del più famoso omissis. Un ippodromo, ad ieri, condannato all’inesorabile crollo dato lo stato di totale incuria in cui versa. Un “gioiello architettonico”, opera del Lafuente per le Olimpiadi del 60, così “gioiello” da essere protetto dall’amministrazione, così:
La tempistica della richiesta da parte dell’associazione può risultare quantomeno inquietante. Due anni e mezzo di cognizione del progetto, iter procedimentale esplorato in tutte le sue latitudini ed arriva una richiesta di questo tipo solo dopo aver, a causa di una delle tante storture del diritto amministrativo, rinviato la Conferenza dei Servizi.
Chi c’è dietro questo accanimento, dietro questo delirio? Forse qualcuno che non è stato invitato a mangiare una fetta della grande torta in forno? Chi può portare un interesse così grande da dispiegare tutte queste forze? Dubitare è lecito quanto opportuno. La questione è da porsi in questi termini: l’affare stadio della Roma è un gigantesco investimento economico che ha come obiettivo unico il lucro. Partendo dall’assunto che il nostro campionato è condannato ad arrendersi alla concezione contemporanea dell’impianto sportivo – sulla scia degli isolati casi Juventus ed Udinese – la proprietà americana della Roma ha, in concerto col suo principale creditore-socio, Unicredit, immaginato la costruzione di una grande area dove il rapporto tra il campo di calcio e il resto degli edifici diviene quasi pertinenziale. Questo per via del fatto che a giustificare quel tipo di esborso devono esserci, nelle specificità finanziarie della società, del contesto Roma etc., determinati tornaconti. Da un lato di natura immobiliare – le torri, il complesso commerciale – a servizio degli investitori e dall’altro il grande flusso di cassa che la zona-intrattenimento garantirà in futuro. Il progetto è importante e può assumere un grande valore in termini di aggregati sia sulla città che sulla provincia. Sono però da respingere le tesi entusiastiche dei promotori – e del report della Sapienza – per cui il progetto si può quantificare in punti di PIL, recitando ognuno in questo proscenio il proprio ruolo. Il terreno è privato ed è stato venduto ad un altro privato. Versa in uno stato di totale abbandono ed un privato, non il pubblico, si è fatto carico degli enormi costi di bonifica. Per meglio garantirsi guadagno? Come l’ippodromo che lo ha preceduto d’altra parte.
Se si accetta la definizione più stretta di “speculazione” l’affare Stadio della Roma non pare dovervi rientrare. Se si fa il gioco del malcelato ambientalismo di favore allora sì, è una speculazione edilizia. Ma andrebbe misurata, e se del caso fermata, con la Legge, non con altri interessi privati. Non si tratta di scegliere un male minore ma di osservare l’obiettività dei fatti.
In barba ad ogni deontologia il sommario impianto indiziario fuoriuscito nei giorni scorsi è, per una città come Roma, più che sufficiente per accusare. La nota più triste della vicenda è che a questo giro i camerieri degli interessi, quelli forti per davvero, siano i peroratori dell’ultim’ora delle cause ambientali (decine le urgenze idriche in città di cui si dimenticano) e monumentali (nessuna storia, da ultimo, per le terrazze di Termini): inconsapevoli della gravità dei loro gesti stanno riconsegnando la città a chi l’ha già distrutta.