Alle 14:53 del Primo Agosto Deuemilaventuno è cambiata la storia sportiva del nostro Paese. In una strana domenica estiva, con colonnine d’umidità fuori scala, le scariche elettrostatiche hanno rovesciato su buona parte del Nord Italia inusuali rovesci torrenziali e grandinate da stato di calamità. Eppure, il tuono più forte è arrivato dritto dallo sparo risuonato dall’altra parte del mondo. Uno starter durato 9 secondi e 80 centesimi che ci ha cambiato per sempre.
Li chiamano Giochi, quelli Olimpici, ma di giocoso hanno davvero molto poco. Provate a chiedere a Gianmarco Tamberi se è stato un gioco arrivare fino a lì. Era il 15 Luglio 2016, quando al meeting dell’Herculis, nel Principato di Monaco, rimediava una lesione al legamento deltoideo della caviglia sinistra che ne avrebbe impedito la partecipazione agli imminenti Olimpiadi di Rio de Janeiro. Una delusione amara da digerire, quando, con il titolo Mondiale Indoor in tasca e quello Europeo subito dopo, Gimbo aveva diritto a lecite ambizioni di medaglia.
Aveva scritto sul gesso che immobilizzava la sua caviglia danneggiata “Road to… Tokyo 2020”. Messaggi di speranza, gesti di fiducia. Cose che si fanno e si dicono nello sport. Una stella polare da inseguire, spesso anche solo per dare un significato agli sforzi. Un rientro balbettante, una nuova operazione. Il calvario di Tamberi non sembrava terminare mai e l’istrionico saltatore marchigiano era finito nel dimenticatoio delle belle speranze disattese: un armadio capiente che noi italiani tendiamo a riempire troppo in fretta.
Il capitano della spedizione di Atletica Tricolore, una Federazione che non ha mai dimenticato Gimbo, era arrivato questa volta a fari spenti. Nessuna barba eccentrica da segnalare, i capelli naturalmente pigmentati al loro posto. “Sono cresciuto” aveva detto alla vigilia. Quasi un modo per mantenere salda la concentrazione sui salti, l’unica cosa importante del suo viaggio nipponico.
Una qualificazione agevole, con un solo errore, spinta fino ai 2.28 in sicurezza, consapevole di avere centimetri in più da spendere e desideroso di sfogare tutti i cavalli solo nella serata di gala dello Stadio Olimpico della capitale giapponese.
Gimbo salta e convince. Il qatariota Barshim, campione del Mondo in carica e vicecampione olimpico, scandisce il ritmo e supera con margine tutte le misure. Gimbo segue, senza errori come Barshim. Si arriva senza macchia ai 2.39. Il qatariota manca la misura e Gimbo riavvolge il nastro. Saltare 2.39 significherebbe eguagliare il record olimpico, ipotecare l’oro ed eguagliare anche il proprio personal best. Quest’ultimo, non a caso, saltato proprio quella notte di luglio in cui, insieme alla caviglia, si erano rotti anche i suoi sogni di gloria.
Ecco che allora, sebbene cresciuto, l’animo guascone di Gimbo riemerge e come un navigato teatrante dalla borsa degli effetti rispolvera il gesso segato dalla sua caviglia lesionata. C’è la correzione in rosso sulla data: 2021, ma poco cambia. È il momento di raccogliere tutti gli stimoli e provarci, forzando la mano anche sugli eventi e sul karma. Davanti alla telecamera esclama: «È la mia Olimpiade. La mia!». I pochi eletti presenti nello stadio vuoto da 60.000 posti abboccano e lo spingono. La regia internazionale impazzisce di fronte a una nuova storia Olimpica tra le mani da poter essere tramandata e il gesso viene inquadrato quasi più dello stesso Gimbo. Non va il primo tentativo, e nemmeno i due successivi. Ma non lo fa nemmeno Bershim, ed è quello che conta.
In attimi che sembrano eterni, il giudice si avvicina: il protocollo lo conoscono tutti, soprattutto i due atleti, eppure sembrano due scolaretti all’esame di maturità. Salti di spareggio od oro ex aequo. Gimbo non parla, ascolta e basta. Non spetta a lui in fondo decidere: Tamberi sa bene che il più forte tra i due è il portacolori del Qatar e se si andasse avanti sarebbe probabilmente svantaggiato.
Ma quando Bershim interviene chiedendo, più per rassicurazione che per ignoranza: «Can we have two gold?» Gimbo salta e risalta, forse anche più dei 2.39 che gli sarebbero valsi il primato solitario.
Si stringono in un abbraccio d’oro che trasuda rispetto, amicizia e commozione. Perché in qualche modo anche Bershim sembra quasi più contento dell’oro di Gimbo che del suo, quasi avessero un valore diverso, perché in fondo hanno un valore diverso. Nemmeno il tempo di esultare e scomporci che a Tokyo tutto diventa buio.
In una scena carica di suspense, giochi di luce e proiezioni al neon richiamano più il ritmo frenetico e convulso di Akihabara, invece che quello silenzioso e teso dello Stadio Olimpico. La gara dei 100 metri piani è il momento più atteso dei Giochi e la cura nella preparazione della finale lascia intendere che i nipponici vogliano lasciare il segno scenico su questa Olimpiade, quasi a sublimare l’assenza di pubblico. La presentazione degli atleti è la solita rassegna di gesti strani e poco comprensibili agli spettatori del Vecchio Continente. Ma tra loro per la prima volta l’Italia festeggia in corsia 3 anche un ragazzo in tutina azzurra. Si chiama Lamont Marcell Jacobs, nato a El Paso, Texas, cresciuto a Desenzano sul Garda e nessuno dimenticherà il suo nome.
In finale ci è arrivato con una cavalcata degna dei campioni, Marcell. Prima abbattendo il record nazionale, poi nella batteria di semifinale quello europeo. Ma la finale dei 100 metri piani è altra cosa. La medaglia più preziosa nel mondo dello sport, quella che luccica di più e consegna all’immortalità. Quella preda delle Americhe, tra USA e Caraibi a contendersi lo scettro di uomini più veloci del mondo. Roba mica da poco.
Un’eredità pesante per gli 8 ai blocchi, tanto più se si pensa che la corona a cui succedere è quella del più grande di sempre. Al primo sparo Marcell nemmeno scatta. È così concentrato che vede e sa che il britannico Zharnel Hughes al suo fianco, in corsia 4, ha anticipato lo start. Rimane fermo sui blocchi a trovare la concentrazione giusta. Sembra un uomo in missione Marcell e quando lo sparo valido lancia la finale per davvero la sua partenza è ottima. Inizia a mulinare i piedi con frequenza ed efficacia perfetta, davanti a lui l’americano Fred Kerley è la lepre, Jacobs lo mette nel mirino ai 70 metri e con slancio rende possibile l’impensabile.
Il cronometro si ferma a 9.80, con vento praticamente nullo. Inutile aggiornare i record nazionali e continentali: Marcell ha vinto. Non ci crede oppure fa finta, continua la sua corsa di recupero con volto apparentemente impassibile. Fortuna che c’è quel mattacchione di Tamberi ad aspettarlo e che con l’affetto ha oggi un rapporto istintivo. Il secondo abbraccio di giornata per Gimbo è il più bello che possa arrivare dal Sol Levante a una Penisola incredula, in piedi sul divano nonostante la pasta asciutta domenicale, indeciso tra un urlo o un pianto liberatorio. Un abbraccio complice che suona di Rinascimento per il mondo dell’Atletica Italiana, che si guarda, si spinge e sostiene a vicenda, realizzando anche i sogni più folli.
«Non avevo nulla da perdere. E poi quando ho visto Gimbo vincere l’oro pochi minuti prima mi sono gasato di brutto. Ho detto “Perché non posso farcela anche io?” E allora ho iniziato a correre. Correre più veloce che potevo» (L.M. Jacobs ai microfoni RAI)
Lamonte Marcell Jacobs si permette il lusso di iscrivere il suo nome dopo quello di Sua Maestà. Dopo 3 edizioni olimpiche consecutive in cui la gara regina della competizione si concludeva alzando sul pennone la bandiera Giamaicana e il nome di Usain Bolt veniva consegnato alla storia, stavolta è il turno dell’Inno di Mameli, di un tricolore mai così alto. Il momento di Lamonte Marcell Jacobs. «Con lo stesso tempo» dichiara l’Azzurro ai microfoni RAI: invece no, caro Marcell, un centesimo in meno rispetto alla finale di Rio. E proprio quando la nostra Olimpiade, ricca di metalli, ma poco preziosi, iniziava a scricchiolare, ecco l’ancora di salvezza. Nel giorno del fallimento della squadra di fioretto maschile, che ha sancito la prima edizione dei Giochi senza ori nelle lame dal lontano 1972, qualcosa di nuovo ha incendiato il nostro cammino.
Perché a fianco agli exploit impareggiabili di Gimbo e Marcell, registriamo anche il nuovo record italiano sui 100 ostacoli al femminile di Luminosa Bogliolo e la finale dei 400 ostacoli maschili che domani vedrà al via anche la chioma rossa di Alessandro Sibilio.
Il simbolo di un’Italia nuova che cambia e che vince, e che prosegue l’onda interminabile di successi sportivi del nostro paese. Una volta l’estate italiana era sinonimo di spensieratezza e divertimenti. Di amori e colori, di gioia, di sole e di mare. Questa estate italiana invece ha un sapore di successo dolcissimo che non avevamo mai vissuto in modo così intenso e variegato. Dopo il tennis e il calcio, con Berrettini in finale ai Championship e i ragazzi di Mancini sul tetto d’Europa, mai avremmo creduto che proprio l’Atletica Leggera avrebbe reso indimenticabile questa stagione del nostro Paese.
E anche se i prossimi giochi di Parigi sono molto vicini, non c’è proprio voglia di speculare su cosa potrà essere il futuro di queste discipline. Esiste solo il qui e ora, la Gloria. Senza tempo, non a caso: Eterna. Insieme ai Cinque Cerchi uno dei simboli ufficiali dei Giochi è il motto olimpico. Allora sembra di gridarlo ancora anche a noi insieme all’immenso Franco Bragagna che dai microfoni RAI, come nessun altro, ha avuto il giusto riconoscimento di una splendida carriera nell’onore di commentare quanto accaduto: Citius, Altius, Fortius– Communiter. Più veloce, più alto, più forte – Insieme. Da oggi anche tutto Azzurro.