Addormentata tra le sponde del secondo fiume continentale, Bratislava non possiede l’aura di magia che pervade le vicine capitali. Figlia di un dio minore, provincia di un impero scomparso da oltre un secolo. Con un sottile fardello di inferiorità che si trascina da sempre, sotto lo sguardo ricco d’appeal di Praga e Budapest. Anche sfogliando le ingiallite pagine della storia dello sport locale, si ha come l’impressione di una narrazione scarna. Eppure, nascosta tra le pieghe del Novecento, si staglia la figura di un mistero. Un calciatore che ha attraversato in silenzio il Secolo Breve per sessant’anni. Anche se, per molti non sembra neppure esistito.
Ancora oggi, è il miglior marcatore di tutti i tempi della squadra per cui ha quasi sempre militato. Togliendosi il lusso di segnare la prima, storica, rete della sua nazionale. Di lui, però, non vi è traccia nella città dove è nato e vissuto sino ai suoi ultimi giorni. L’enigma in persona si chiama Jan Arpas. Un arcano. Un fantasma del pallone danubiano, accalcato tra statistiche record e un ambiguo passato. Soggetto perfetto per una spy story sullo sfondo di un campo da calcio, in un racconto che affonda le sue radici negli ultimi scampoli dell’Impero Austro-Ungarico.
Novembre 1917. Il Primo conflitto mondiale sta dissanguando l’Europa e con lei il regno degli Asburgo. Nell’allora Pressburg nasce Arpas. A molti, anche da queste parti, il nome non dice nulla. Un’ombra indecifrabile. Silente e roboante. Che lambisce, al crepuscolo della carriera, anche la nostra Serie A. Gioca sin da ragazzo nello Slovan, mettendo a segno 151 gol in 166 partite. A 21 anni, stabilisce un altro record del pallone nazionale. Tra le mura amiche dello stadio Pasienky, realizza il primo gol della neonata selezione, nel 2-0 alla Germania. I tifosi festeggiano, eppure nell’aria si respira una strana atmosfera. È il pomeriggio del 27 agosto 1939. La Storia è destinata a cambiare nel giro di pochi giorni.
Alle 4 del mattino del 1 settembre, le truppe naziste danno il via all’invasione della Polonia. Invasione alla quale prenderanno parte anche circa 50mila soldati slovacchi. Membri di uno stato fantoccio, stretto nell’abbraccio mortale del Terzo Reich.
Quando la guerra finisce e il presidente collaborazionista Jozef Tiso viene condannato a morte, la vita ritorna lentamente alla normalità. Lo sport diventa il collante per riannodare i fili di un’esistenza per chi è sopravvissuto alle bombe. Nulla, però, può tornare come prima, e anche il calcio ne risente. Il football della Mitteleuropa, che rotola da Vienna a Belgrado, non è più l’ombelico del mondo. Si vive ormai di romantiche fascinazioni del passato, mentre il cuore pulsa nello Stivale. A Torino impazza la squadra più forte del nostro calcio, i granata di Capitan Valentino. I primi, veri, galacticos. Vincono campionati a ripetizione. Il carisma di Mazzola, che da solo incuteva quel timore reverenziale simbolo dei grandissimi. Il “miedo escenico”, allora di proprietà del Filadelfia e non dell’erba di Chamartin.
Non tutti, però, nella vecchia capitale sabauda, gioiscono. La parte juventina della città, ancorata all’epica del Quinquiennio, mastica amaro. Per battere gli odiati cugini le hanno provate tutte. Non basta nemmeno quel ragazzino novarese, destinato a una folgorante carriera in bianconero, che risponde al nome di Giampiero Boniperti. Ci vorrebbe un top player al suo fianco. E allora, ecco che i dirigenti rivolgono il loro sguardo verso est. Al primo tentativo si recano a Praga e tornano con due centrocampisti: Korostelev e Vycpalek. I risultati non sono esaltanti, ma del secondo i tifosi di Madama sentiranno riparlare. Fallita la missione ceca, per l’estate del ‘47, il giovane presidente Gianni Agnelli indirizza i suoi a Bratislava. Tra le file dei belasí gioca un certo Jan Arpas. Talentuoso, esperto e bravo sotto porta. Affare fatto.
Sino a qui, appare come la classica favola del crack straniero pronto ad esplodere nel nostro campionato. La trama, però, si infittisce di dubbi e stranezze che poco hanno a che vedere con il pallone. E allora, è utile contestualizzare l’epoca. Sconfitto il nazismo, le due superpotenze hanno iniziato a guardarsi in cagnesco e tracciato una linea di demarcazione tra un universo e l’altro. Ironia della sorte, quel frammento di Danubio che separa Austria e Cecoslovacchia, abbracciato alle bianche rocce del castello di Devin, diviene lo spartiacque geografico tra i due poli. Bratislava come ultimo baluardo del socialismo. O se preferite, prima tappa del cupo e violento mondo stalinista. Una terra di confine dove regna l’ambiguità e il sospetto. Arpas arriva con la nomea di mezzala dal vizio del gol. Ha trent’anni e all’apice della carriera. Questo racconta la sua carta di identità. Alcuni, però, non ci credono.
Proprio Boniperti sembra avere più di un dubbio. Nel suo libro “Una vita a testa alta” scrive: «un personaggio mitico e inquietante. Di una intelligenza sopraffina». Di anni pare ne abbia avuti circa 45. Fisico asciutto, ma lontano dal poter essere schierato sempre in campo. E poi, la velocità con cui apprende la lingua di Dante stupisce tutti. Come se fosse arrivato a Torino pronto. Per cosa? Di sicuro, non occorreva conoscere l’italiano a memoria. In campo erano più che altro ordini e imprecazioni. E allora? Qualcosa non torna. Ancora Boniperti.
«Si informava di tutto, tranne del calcio, che era l’ultimo dei suoi pensieri».
Una curiosità maniacale, confermata anche da Renato Tavella, autore di “101 gol che fanno grande la Juventus”. Con particolare attenzione alle vicende Fiat. Della azienda di famiglia vuol sapere ogni dettaglio. Il numero di stabilimenti, quello dei dipendenti. Annota ogni parola sul suo taccuino, inseparabile amico durante il periodo torinese. Nel mezzo, si dedica anche al calcio. Arpas è vecchio, ma non se la cava male. Segna sei gol in diciotto partite e manda spesso in porta Boniperti, capocannoniere del torneo. Non basta per spodestare il Torino dal trono, ma non è questo il problema. La storia assume contorni poco chiari in primavera.
Aprile ‘48. Al raduno per l’allenamento, il mister Renato Cesarini si accorge che il ragazzo non c’è. Lo smaliziato italo-argentino, che in carriera ne ha vissute tante, intuisce. O ha fatto tardi in un night o è tornato dalla sua famiglia. Passano due giorni ed ecco arrivare un telegramma da oltre cortina. «Sto bene. Per favore, inviatemi il nulla osta per tornare a giocare per lo Slovan».Su di lui non si saprà mai più nulla. Anche perché, nella sua squadra, ora brilla la stella di uno dei più grandi calciatori del Ventesimo Secolo. Laszlo Kubala.
I giornali sportivi sono sicuri: non si è ambientato. Altri gridano al bidone. Forse, la verità risiede altrove. «Per me era una spia», dirà senza esitazioni Boniperti. Gli fa eco Tavella. «Singolare che il suo arrivo coincida con l’ascesa dell’Avvocato alla guida della azienda e della Juve». Di certo, il contesto storico italiano non può che favorire questa ipotesi. Una giovane repubblica, guardata con diffidenza sia dagli Alleati che dai Paesi dell’Est. Lembo di frontiera perfetto per scorribande di agenti segreti, militari, mercenari. Per qualcuno, il ventre molle dell’Occidente. «Comparso misteriosamente altrettanto misteriosamente l’anno dopo sparì», conclude Boniperti, il quale aggiunge un particolare oscuro.
«Ogni volta che mi recavo in Cecoslovacchia e chiedevo di lui, nessuno mi rispondeva». La reazione degli interpellati era sospettosa e vaga. Come se nascondessero un passato torbido, desiderosi di dimenticarlo.
Chi era Jan Arpas? È davvero esistito? Oppure era solamente l’identità di un infiltrato sotto copertura? A distanza di decenni, la domanda non ha ancora una risposta precisa. Le memorie storiche del tifo Slovan, che bazzicano attorno al Tehelné Pole, lo stadio dei campioni in carica, raccontano che fosse finito a fare il taxista ai ricchi della città. Il governo locale ha messo a disposizione un database, dove si possono rintracciare sia le persone spiate che le spie vere e proprie. Spesso, si trattava di semplici cittadini, di cui l’apparato si serviva. Ma neanche lì, tra migliaia di identità, appare il nome di quell’indecifrabile giocatore.
La Slovacchia del Terzo Millennio, in ambito pallonaro, vive di sporadiche emozioni. Sudafrica 2010, Marek Hamsik e poco altro. I giovani crescono a pane e hockey, i più anziani sono fermi all’impresa del ‘76. Del lungo periodo socialista, fatto di paure, rivoluzioni annegate nel sangue e fughe mal riuscite, il football non rappresenta che uno spicchio troppo esiguo per indagare nel profondo. Di Jan Arpas resta la tomba, al Martinsky Cintorin. Anonima, uguale alle altre centinaia che le stanno attorno. Il nome, le date, null’altro. A oltre cent’anni dalla sua nascita, il mistero Jan Arpas resta un caso irrisolto. Un piccolo giallo mitteleuropeo. Dove i confini tra la realtà e il verosimile, restano opachi e confusi. D’altronde, come diceva un Kevin Spacey da Oscar nel finale cult de “I Soliti Sospetti”:«La beffa più grande del Diavolo è stata quella di far credere al mondo che lui non esiste. E come niente…sparisce».