Altri Sport
29 Gennaio 2024

È iniziata l'era di Jannik Sinner

E potrebbe durare molto a lungo.

Quando a Melbourne, sopra la Rod Laver Arena, il cielo si tingeva di un rosso rosato tipico del tramonto australe, in Italia la moka iniziava a borbottare e sbuffare l’inizio di una domenica storica per lo sport azzurro. Jannik Sinner è un figlio delle Dolomiti, cresciuto tra le montagne più belle del mondo laddove, a pochi passi da casa, e mentre le sue suole stridevano sul cemento infuocato, le ragazze del circo bianco sfrecciavano all’ombra delle Tofane. Ecco perché è sembrato addirittura più strano del solito vederlo madido di sudore in un completo estivo che metteva in risalto il candore della sua pelle, così naturalmente riluttante ai raggi dei tropici. Ma oggi, nonostante le discipline andate in scena sull’Olimpia a Cortina e sulla Kandahar di Garmisch-Partenkirchen, l’unico SuperGigante è lui.

Tre-sei; tre-sei; sei-quattro; sei-quattro; sei-tre. È questo il suono del primo titolo maschile azzurro in un torneo del Grande Slam dopo 48 anni. Finalmente possiamo liberarci delle immagini sbiadite di un tempo troppo lontano, delle racchette di legno e dei capelli di Adriano Panatta, genio e sregolatezza del nostro sport che da tempo invocava la successione a un trono diventato terribilmente scomodo. Un trionfo annunciato, ad opera di un predestinato del gioco che aveva mostrato ormai da tempo le stigmate del campione, e che solo qualche normale pecca di gioventù aveva limitato, finora, per l’affermazione definitiva nel gotha di questo sport.

Eppure la mistica degli Slam non lascia spazio alla banalità, e così anche la prima perla di Jannik è dovuta passare attraverso una finale memorabile. Merito soprattutto del russo Daniil Medvedev, approdato per la terza volta all’ultima domenica di gennaio ma senza essere mai riuscito ad andare oltre il piatto d’argento. Il ragazzone moscovita è interprete sublime di un tennis esuberante ma terribilmente consapevole, che si muove tra le sue sinapsi a una velocità che forse nessuno nel circuito riesce a mettere sul rettangolo di gioco. Se lo stesso Novak Djokovic non era riuscito a trovare una tattica idonea ad arginare l’altoatesino, palesando persino la sua frustrazione nella lingua di Dante «Non so cosa ho fatto e cosa devo fare, ca**o»; Daniil Medvedev è apparso al contrario immediatamente consapevole.

«Sembra un giocatore di scacchi. Sapevamo che sarebbe stato aggressivo, ma non ci aspettavamo quel livello per due set».

Darren Cahill, coach di Jannik Sinner

Ha sfruttato la maggiore esperienza per sprintare dai blocchi e lasciare Sinner intontito a familiarizzare con la prima finale Slam in carriera. Ha giocato un tennis irresistibile per un’ora e mezza offrendo colpi piatti, con palle che rimbalzavano basse, sulle quali Sinner doveva chiedere molto sforzo alle articolazioni inferiori per rimanere nello scambio, ma soprattutto non riusciva a trovare il ritmo giusto per colpire con la consueta profondità ed efficacia. Gli angoli aperti dal russo sono tratti dal suo migliore saggio di goniometria, sempre pescati da quelle movenze sgraziate così singolari ma che, negli anni, abbiamo capito essere terribilmente efficaci. Il suo tennis attinge a piene mani da un’altra epoca, il suo gioco così cerebrale non offre molte variazioni nelle rotazioni ma non fa colpire mai due palle identiche, costringe a rimanere attivi sui piedi, trovare sempre un nuovo angolo e un nuovo copione.



Difficile dire quale partita avremmo commentato se Daniil Medvedev non fosse stato Daniil Medvedev. Bello e brutto di un giocatore come lui, che ha poco da recriminare a una finale per lunghi tratti impeccabile, ma che ha molto da rimpiangere le maratone affrontate nel corso del torneo. Le inutili ore spese sul campo per sbarazzarsi dei mediocri Atmane, Ruusuvuori, Borges, oltre ai match complicatissimi trascinati al quinto set contro Hurkacz e Zverev, sono stati un fardello pesantissimo per lui. 20 ore e 40 minuti (!) complessivamente trascorse sul campo, che sono entrate di diritto nella storia rendendolo il giocatore con più ore nelle gambe ad accedere a una finale Slam.

Una circostanza che, si sapeva, avrebbe presentato il conto giocando un ruolo fondamentale in un eventuale match prolungato. Per citare lo stesso Medvedev: «Ieri, mentre mi allenavo, mi sono detto: dannazione, come giocherò la finale, come mi muoverò. Abbiamo lavorato duramente soprattutto con il mio fisioterapista, ha fatto un lavoro straordinario per far sì che ogni volta che entravo in campo in campo fossi di nuovo pronto. Durante la partita, ogni volta è stata la stessa storia, dopo due set, il mio livello di energia calava perché non avevo dormito perfettamente». Infine l’ammissione:

«Quindi, diciamo che è colpa mia perché avevo bisogno di vincere partite più facili, ma a volte è dura».

Daniil Medvedev

Fatto sta che, per i primi due set Sinner, è stato spettatore privilegiato nella domenica di Melbourne Park. Il suo tennis spumeggiante è rimasto nella borsa, e il servizio che l’aveva sostenuto per lunghi tratti del torneo ha fatto registrare medie decisamente insufficienti per quasi due ore. Ma è qui che Sinner ha costruito il suo capolavoro. In una giornata atipica rispetto all’andamento del torneo, ha avuto la capacità di incassare i colpi dell’avversario senza scomporsi più di tanto, accettando l’idea di non poter fare corsa di testa, ma di dover aspettare con pazienza il momento adatto a una rimonta. Jannik è rimasto aggrappato al match con tutte le sue forze, non tanto fisiche quanto mentali. Dopo aver perso i primi due set, molti sarebbero potuti crollare alla prima finale Slam, consapevoli dell’impresa da compiere per riuscire a ribaltare l’incontro.

Sinner ha invece accettato il ritmo imposto da Medvedev e ha avuto la lucidità di trasformare con cinismo l’unica palla break concessa in tutto il set: quella decisiva anche per il terzo parziale. Da lì la consapevolezza dell’altoatesino è cresciuta, e gradualmente la fiamma del russo si è spenta. I passi di Medvedev in difesa si sono appesantiti, la ricerca della palla è stata meno precisa, così come i suoi colpi. Le traiettorie hanno cominciato ad alzarsi e Jannik ha ritrovato di colpo il timing con cui ha annichilito chiunque negli ultimi tre mesi. Qualche lungo braccio di ferro da fondo campo, finito oltre i 30 colpi, ha chiarito in modo ineluttabile quale fosse l’inerzia del match. E ancora Sinner, come aveva fatto nel set precedente, è riuscito a trasformare il break decisivo alla prima palla utile per regalargli anche il set.



Il quinto atto, dal punto di vista sportivo, è stata una formalità. Jannik ha sfruttato le occasioni offerte dal russo sul suo servizio ed è stato glaciale nei suoi turni, lasciando complessivamente a Medvedev una sola chance di break negli ultimi tre set (settimo gioco del quarto set). «Ho provato ad allungare la partita: sapendo che lui aveva speso così tante ore in campo più di me, era probabile che stessi un po’ meglio fisicamente. Credo che questa sia stata la chiave del match».

Via via negli occhi di Medvedev si è capito come la partita gli stesse sfilando via dalle mani: dalla testa e dalle gambe, sempre più stanche. I suoi sguardi si sono fatti vuoti, liquidi. La consapevolezza di essere inerme di fronte alla piega degli eventi ha ricordato molto da vicino la drammatica finale che, proprio alla Rod Laver Arena, aveva perso nel 2022 contro Rafael Nadal. Lì, se possibile, il dominio era stato ancor più netto nei primi due parziali, ma alla fine il destino è stato crudele allo stesso modo. Se poi si pensa che Medvedev solo tre volte in carriera ha perso al quinto dopo aver vinto i primi set, e due volte è successo nella finale degli Australian Open, questo ben descrive la maledizione del russo verso nel torneo, altro che happy slam.

Quello che invece è passato davanti agli occhi di Sinner è francamente difficile da decifrare, anche perché lui non ha fatto molto per farcelo capire. Consueto tuffo supino sul cemento al match point, scalata di ordinanza ad abbracciare il team nel proprio angolo, poi poco altro. Nessuna manifestazione primordiale di gioia, nessuna lacrima, nessun urlo, nessun volto contatto dalla gioia. La certezza è che in molti salotti italiani le reazioni siano state ben più scomposte, ma forse questa è esattamente la ragione per cui Jannik ha riportato un trofeo del Grande Slam in Italia. Solo una grande consapevolezza d’altronde, unita a una buona dose di pragmatismo, consente di primeggiare in questo sport illogico e totalmente imprevedibile.

La stessa lucidità che ha dimostrato anche fuori dal campo, i cui risultati ora si vedono compiuti. Quando Sinner ruppe il suo vincolo adolescenziale con Riccardo Piatti molti gridarono allo scandalo, portando alla sbarra argomentazioni insensate come la riconoscenza o il rispetto. Jannik è ripartito da Vagnozzi e da Darren Cahill, uno che fatto primeggiare Lleyton Hewitt, ha reso Agassi il numero 1 più anziano della storia e portato Simona Halep al primato in classifica WTA. Sotto la guida del nuovo team è migliorato tecnicamente e tatticamente, dimostrando a tutti che gli obiettivi il ragazzo li ha ben chiari, così come la via per raggiungerli. Allo stesso modo ha saputo dribblare con indifferenza le critiche su alcune mancate convocazioni con la maglia azzurra, regalandoci la seconda Davis nella storia.

«Il tennis italiano è in buone mani. Jannik Sinner ha battuto i migliori per conquistare il suo primo Slam. Con il suo gioco a tutto tondo e la sua giovinezza, è destinato a vincerne molti altri».

Rod Laver


Come Alberto Tomba prima di lui, nello sci, Jannik Sinner sta riuscendo nell‘impresa di far appassionare tutti gli italiani a un gioco che, fino a poco tempo fa, era solo considerato un intrattenimento borghese; e fa sorridere pensare che un emiliano abbia attirato il Bel Paese verso lo sci, e ora un altoatesino lo stia portando nel campo da tennis. A differenza di Albertone però, Jannik non ha l’effervescenza tutta italiana tipica di un Tomba, con le sue battute strafottenti e quel modo unico di rivolgersi a se stesso usando la terza persona singolare. Sinner è semplicemente un vincente, un campione consapevole. E forse la ragione per cui non l’abbiamo visto scomporsi a Melbourne, con quella coppa luccicante tra le mani, è che sta già guardando ad altro.

«Con Simone [Vagnozzi ndr], parlavamo già dopo la partita di quanto ci sia ancora da migliorare. Ovviamente aver vinto questo trofeo è una sensazione bellissima».

Jannik Sinner

Sa che è il primo trofeo di questo peso, ma non vuole assolutamente che sia l’ultimo. La prima posizione mondiale poi dista circa 1.500 punti, e i Master 1000 sul cemento americano sono una ghiotta occasione per ridurre il gap. Insomma Sinner è proiettato verso le vette di questo sport, e aspira a colmare il vuoto dei Grandi 3 che hanno ormai imboccato il viale del tramonto: chi già smettendo (Roger), chi quasi (Rafa), chi gestendo il finale di carriera (Nole). Proprio la semifinale vinta contro Djokovic – il vero capolavoro del torneo dell’altoatesino – è stato l’ennesimo segnale dell’imminente successione, e ora sta a lui prendersi la corona. A ventidue anni è già probabilmente il tennista azzurro più forte di sempre. Ma di questo a Jannik, siamo sicuri, interessa davvero poco. Ad Maiora.

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