È uno dei paradossi più grandi della storia del calcio; da neonato hai rischiato la vita per problemi respiratori e nella tua carriera diventi il calciatore che dei polmoni ha fatto il suo marchio di fabbrica. Quel piccoletto era Javier Adelmar Zanetti. Tutti conosciamo le imprese del capitano dell’Internazionale sul tetto d’Italia, d’Europa e del Mondo: la Coppa Uefa vinta al Parco dei Principi nel 1997 in una finalissima italica contro la Lazio coronata con un gran goal alle spalle di Marchegiani, i vari Scudetti e Coppe Nazionali alzate al cielo, il Mondiale per Club e l’attesa Champions League agognata da tutti i tifosi ambrosiani nel 2010, dopo quarantacinque anni di attesa. Ma prima dell’approdo alla corte di Massimo Moratti, chi era il capitano dell’Inter? Un predestinato, un talento innato o il frutto di qualcosa di inspiegabile creato dagli Dei del Calcio?
Javier nasce a Buenos Aires nel 1973 ma cresce nel sobborgo portuale del Partido di Avvelanada, Dock Sud, da una famiglia umile, umilissima, dove Rodolfo e Violeta riescono, con fatica, a tirar su una casa tra mille stenti. Il calcio è la passione argentina per eccellenza e anche Javier ne viene folgorato: corre e scalcia per le strade di quel quartiere povero sognando di giocare per la sua squadra del cuore, l’Indipendiente.
A nove anni un dirigente sportivo gli offre una possibilità, giocare per una vera squadra, dalla camiseta roja: accetta senza battere ciglio. Come si può rifiutare l’offerta? A solo nove anni, Javier Adelmar Zanetti giocava, seppur nelle giovanissime fila, per i Diablos Rojos, un segno del destino. Passano sette anni di sacrifici: questi, però, non fanno crescere il corpo gracile di Javier e questo particolare non convince dirigenti e preparatori atletici sulla reale possibilità di un futuro da calciatore per il giovane Zanetti: gracias e arriverderci. Una delusione. Quell’abbandono sancisce la prima (e unica) sosta di Javier dal calcio giocato; per oltre un anno si dedica solamente allo studio e al lavoro.
Dalle prime ore dell’alba alle otto di mattina si portano i cartoni di latte nelle case, dopo scuola e infine si aiuta il padre a fare il muratore: l’umile cultura del sacrificio zanettiano prende forma in quella routine di rito, con in testa il sogno di ritornare a giocare. Il duro lavoro rafforza il corpo di Javier, è cresciuto muscolarmente e il corpo gracile dell’adolescente rifiutato dai dirigenti dei Diablos è un lontano ricordo. La realizzazione personale di un figlio è la missione celata di ogni padre e qui Rodolfo entra prepotentemente nella vita del figlio con un monito:
“Torna a giocare Javier, devi realizzare i tuoi sogni”.
Detto, fatto. Il fratello Sergio, che militava nel Tellares, gli offre la possibilità di giocare con lui: ma per evitare le voci di eventuali raccomandazioni attende il trasferimento del fratello prima di candidarsi e fare un provino; altro punto della formazione di Javier su cui potremmo scrivere trattati: nessuno regala niente, tutto si deve guadagnare con il sudore della fronte. Encomiabile. Preso senza riserva: qui cominciava realmente la carriera di Pupi; si Pupi, vecchio soprannome del fratello, perché in campo nel Tellares c’erano già cinque Javier. Latte, lavoro da muratore e Tellares: nuova routine di Javier prima dell’arrivo di Paula De La Fuente, la sua unica fidanzata e l’attuale madre dei suoi figli conosciuta nel 1991 e all’epoca cestista di un certo livello. Ora moglie e sposa di mille battaglie sociali con la fondazione Pupi che aiuta i bambini dei quartieri poveri argentini e non solo.
Nelle giovanili Javier dimostra di essere pronto per esordire in prima squadra allenandosi duramente, mescolando doti tecniche invidiabili ad una prestanza fisica fuori dal normale: non è un tuttofare qualunque, è un trattore, el tractor. Esordisce nel professionismo il 22 agosto 1992 in Primera B Nacional subentrando ad un compagno infortunato; da lì non lascerà più il campo. L’anno successivo approda nella massima serie argentina, per i bianco-verdi del Banfield, dove dimostrerà per due anni di essere uno dei migliori prospetti difensivi del Sud America, conquistando la convocazione in pianta stabile nella Seleccion di Daniel Passarella e gli occhi di qualche osservatore Europeo. Corsa, grinta, doti da leader, possesso palla, rispetto, incursioni, diagonali perfette, duttilità fuori dal comune: caratteristiche tecniche che rendono Zanetti unico, appetibile per qualsiasi squadra.
Un giocatore così stabilizza la formazione in campo, non ti fa vincere le singole partite con le giocate alla Houdini ma ti permette di vincere i campionati, a testa bassa e con costanza. La vita di Zanetti stava per cambiare, inevitabilmente. La nazionale argentina era riuscita a dare visibilità a quel tuttofare del quartiere portuale molto riservato e aveva conquistato un ex calciatore argentino, Antonino Angelillo, molto vicino ad una squadra del Nord Italia. A Milano, migliaia di chilometri di distanza da Banfield, Massimo Moratti diventava presidente dell’Internazionale: una nuova dirigenza porta sempre nelle squadre di calcio una ventata di novità e di nuovi acquisti, ma pochissime volte negli almanacchi si è visto che ilprimo acquisto di un neo presidente diventi l’emblema, il simbolo vincente e di stile di una società per i successivi diciannove anni da calciatore e tantissimi avanti da dirigente.
Javier Adelmar Zanetti diventa un calciatore dell’Internazionale Milano il 13 maggio del 1995, l’inizio di una nuova era: quella del trattore argentino atterrato in punta di piedi a Malpensa e pronto a conquistare con sudore l’affetto degli ambrosiani e di tutti gli amanti del calcio. L’allora storico capitano dell’Inter, Beppe Bergomi, preannunciò il profilo di Pupi dal primo momento designandolo come suo erede:
“Primissimo allenamento, facciamo possesso palla. Lui non la perde mai, gli resta sempre incollata al piede. Quel giorno pensai che avrebbe fatto la storia dell’Inter”.
Una benedizione quasi divina. Senza dubbio azzeccata. Tutto il resto è stato già scritto: chilometri e chilometri cavalcati con i capelli sempre a posto, riga laterale e mascella squadrata, l’eleganza nel portamento amalgamata con un agonismo unico, il temperamento signorile ma capace di farsi rispettare da ogni avversario e dal proprio spogliatoio, la fedeltà per i colori della Bauscia che l’ha reso leader nelle notti di gioia e in quelle di dolore. Proprio come a rispettare una promessa antica come il tempo: quella del matrimonio, tra lui e l’Inter. Zanetti è stato tutto quello che c’è di romantico nel calcio e che pian piano vediamo scomparire. Un gentiluomo d’altri tempi. Un calciatore unico.