Frontman dei Sex Pistols, malato di Arsenal e nemico del calcio moderno.
Avete mai avuto la sensazione di essere stati imbrogliati? Di aver creduto per anni di poter davvero fare la rivoluzione, di cambiare le cose, la società e le persone con la vostra arte, la vostra pelle e il vostro spirito? Magari no, perché diJohn Lydon ce ne è uno. Si faceva chiamare ancora “Johnny Rotten” (Johnny il Marcio, per via dei denti poco curati), Lydon, quando pose la domanda di cui sopra al pubblico di San Francisco il 14 gennaio del 1978, durante quello che sarebbe stato l’ultimo concerto dei leggendari Sex Pistols, fondati neanche 3 anni prima.
Di quel gruppo, Lydon/Rotten era frontman e principale autore dei dissacranti testi che consegnarono alla storia la band londinese, divenuta de factosinonimo stessodella musicapunk. Il genere nacque negli Stati Uniti, più precisamente a New York, grazie alla venuta del primo omonimo disco dei “Ramones”, ma esplose dapprima in Inghilterra e poi a livello globale grazie agli stessi Sex Pistols, creatura musicale nata dalla mente di Malcolm McLaren.
Un po’ di storia: produttore discografico britannico di discreto successo, McLaren dopo essersi brevemente occupato con scarsi risultati dei “New York Dolls”, un gruppo glam rock famoso per il suo immaginario drag queen à la “Rocky Horror Picture Show” (fu proprio McLaren a portare il gruppo allo scioglimento, con l’infelice scelta di cambiare drasticamente il look della band), tornò a casa aprendo a Londra insieme alla moglie stilista Vivienne Westwood un negozio di articoli per feticisti dal nome inequivocabile: “Sex”, in cui venivano venduti tra le altre cose giubbotti di pelle, jeans strappati e spillette varie che contribuirono a definire l’abbigliamento punk.
L’allora diciannovenne Lydon era un assiduo frequentatore del negozio: nato in una famiglia di immigrati irlandesi, ebbe un’infanzia difficile, tra una meningite fulminante che gli causò a sette anni una momentanea perdita della memoria e un’espulsione dalla scuola a quindici dopo una rissa con un insegnante. Lydon finì rapidamente in balia della strada, oltre che vittima di frequenti episodi di bullismo e razzismo per via delle sue origini irlandesi. Sin dalla più tenera età divenne membro di varie gang teppistiche del posto e più tardi inizio anche a frequentare locali gay e “reggae club” (in cui erano presenti immigrati giamaicani), posti nei quali a detta dello stesso Lydon nella sua autobiografia “potevi essere te stesso, nessuno ti discriminava”.
McLaren lo notò bazzicare nel suo negozio con una maglietta “personalizzata” con su scritto “I Hate Pink Floyd”. Gli chiese di fare un provino come cantante per un gruppo punk che stava cercando di formare e a cui mancava solamente una voce solista, la meno pulita possibile: Lydon cantò “I’m Eighteen” di Alice Cooper, e McLaren lo promosse immediatamente cantante del nuovo gruppo: appunto, i Sex Pistols (nome aggressivo e provocatorio al tempo stesso, l’ideale per creare scandalo insomma), con Steve Jones alla chitarra, Paul Cook alla batteria e Glen Matlock al basso.
Il gruppo fece immediatamente parlare di sé per la violenza delle esibizioni (che terminavano quasi sempre con risse tra pubblico e band), ma fece il botto definitivo nel 1977 con la pubblicazione del singolo “God Save the Queen”, dissacrante attacco alla monarchia britannica. Malgrado il totale boicottaggio delle radio che si rifiutarono di trasmetterlo, il pezzo raggiunse comunque il secondo posto nella classifica di vendite nel territorio inglese (McLaren ebbe poi l’idea geniale di farlo uscire il giorno precedente alle celebrazioni del Giubileo d’Argento della Regina Elisabetta, all’insaputa del gruppo stesso), seguito dalla pubblicazione in ottobre dell’unico disco della band, l’iconico “Never Mind the Bollocks, Here’s the Sex Pistols”, che si guadagnò addirittura il disco d’oro, segno che ormai il messaggio punk era riuscito ad invadere le case di milioni di ascoltatori.
Eppure, l’armonia della band (ossimoro nel mondo punk) durò pochissimo, portando all’allontanamento del bassista Matlock, accusato da McLaren di essere “poco punk”, sostituito da un amico d’infanzia di Lydon, John Ritchie, meglio noto col soprannome di Sid Vicious: inizialmente accolto con grande favore dallo stesso Lydon/Rotten, l’entrata di Vicious/Ritchie creò ancora più problemi alla band, non tanto perché non sapesse minimamente suonare il basso (per McLaren l’unica cosa che contava era la sua “attitudine punk”) quanto per la sua dipendenza dall’alcool e soprattutto dall’eroina, impossibili da gestire per il resto del gruppo.
Lo stesso Lydon si rese conto di come McLaren puntasse unicamente sull’atteggiamento autodistruttivo e instabile di Vicious per il successo del gruppo, ignorandone del tutto le condizioni mentali, aggiungendo a tutto ciò ritardi sui pagamenti accumulati nel tempo (e mai sanati). Ritornando così a quel fatidico 14 gennaio 1978, durante l’ultima data del tour americano dei Sex Pistols, Lydon/Rotten dopo aver suonato una cover di “No Fun” degli Stooges, pronunciò queste esatte parole: “Avete mai avuto la sensazione di essere stati imbrogliati? Buonanotte!”, abbandonando il gruppo e l’identità di Johnny Rotten quella stessa sera.
Dopo la fine della breve ma intensa esperienza con i Pistols, John fondò pochi mesi dopo i PIL (Public Image Ltd.), formati insieme al chitarrista Keith Levene, il bassista Jah Wobble e il batterista Jim Walker, abbandonando del tutto i territori del punk rock per addentrarsi in quelli più ricercati del post-punk, miscelando abilmente influenze provenienti dalla psichedelica più dissonante sino alla world music più sperimentale. La nuova creatura di Lydon fu in attività per quasi 15 anni, prima di sciogliersi nel 1993 e riformarsi in un secondo momento nel 2009.
Nel 1997 inoltre Lydon rilasciò il suo unico album solista “Psycho’s Path”, in cui il nostro flirta abilmente con la musica elettronica. Ma John Lydon è più di un semplice musicista, è soprattutto un personaggio, uno che fa discutere, provoca, spiazza e irrita con le sue dichiarazioni sulla società e sull’attualità sempre pungenti e dirette. Anche troppo, se è vero che gli hanno provocato accuse di incoerenza col suo percorso artistico e “politico”, che il nostro ha sempre bellamente ignorato definendosi soprattutto e soltanto libero: libero dai condizionamenti del pensiero unico e libero da qualsiasi tipo di pregiudizio sociale.
un vero punk, fino alla fine dei suoi giorni
Troppe le querelle che lo hanno reso protagonista: dalla pubblicità per una marca di burro nel 2008, che realizzò unicamente per finanziare il ritorno dei PIL sulla scena musicale, alla contestata partecipazione ad un reality show 4 anni prima, in cui il nostro, come sempre senza peli sulla lingua, mandò a “fare in c**o” l’audience del reality stesso. Ma questa è solo roba di poco conto: molte più controversie generarono la decisione di suonare in Israele con i PIL nel 2010, nonostante le aspre critiche ricevute da diversi giornalisti e artisti, tra cui Elvis Costello, che lo accusarono di essere complice del regime israeliano. Questa la risposta di Lydon: “se il fo****o Elvis Costello vuole ritirarsi da un concerto in Israele perché prova compassione per i palestinesi, allora buon per lui (…). Finché però non vedrò un paese arabo con una democrazia, non capirò come qualcuno possa avere un problema con il modo in cui vengono trattati”.
Qualche anno dopo però chiarì meglio le sue affermazioni: “Io non supporto alcun governo (…), nessuna istituzione, nessuna religione (…) quando vado in un posto come Israele non è perché sono anti-arabo o pro-governo sionista. Vado a suonare per le gente”.
Anche il suo recente supporto a Donald Trump da una parte e a Nigel Farage dall’altra destò infinite polemiche, accuse di incoerenza e insulti alla persona di Lydon: inizialmente era un sostenitore sia di Barack Obama (acquisì la cittadinanza americana proprio sotto la sua presidenza, affermando di supportare l’Obamacare), che della permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea (definì “stupida e suicida” la possibilità di una Brexit), per poi rimangiarsi tutto qualche tempo dopo divenendo un sostenitore di Donald Trump(dopo che anni prima lo aveva pesantemente criticato, pur difendendolo dalle accuse di razzismo) affermando di averlo votato perché “non voleva più un politico a guidare il mondo”, accusando inoltre il Partito Democratico statunitense di “non sapere nulla del mondo dei lavoratori della working-class, delle minoranze latine e afro-americane dentro e fuori le grandi città”.
John Lydon avrà forse cambiato gusti musicali oggi, e soprattutto avrà forse cambiato ideologia politica, ma se c’è una cosa che nella sua vita non cambierà mai è la passione per l’Arsenal, la sua squadra del cuore, una certezza che non può essere in alcun modo sostituita. Dove nasce e come si sviluppa la passione di John per i Gunners?
Quando cresci sin da piccolo praticamente accanto allo stadio di Highbury è quasi impossibile non innamorarsi dell’Arsenal, come ben spiega lo stesso John in un’intervista radiofonica del 2010 per “Absolute Radio”, tra l’altro intervistato da una leggenda assoluta del club come Ian Wright:
“Tifo da quando avevo quattro anni. Vivevo a Benwell Road (…), poi mi sono trasferito a Seven Sisters Road, dove tutta la mia vita è stata avvolta intorno all’Arsenal, e io sono il tipo che crede che dovresti supportare la tua squadra locale”.
La prima partita Lydon la vede lo stesso anno, sempre quando aveva solo quattro anni, perché il tifo più verace e più autentico può nascere solo da piccoli, quando ci si emoziona più facilmente d’altronde: “Penso che fosse contro il Birmingham o qualcosa del genere, e credo che abbiamo perso 3 a 1, ed ero arrabbiatissimo. Ricordo di aver visto sciarpe blu agitarsi continuamente ed esserne davvero infastidito”. Primo dolore al primo vero “bagno” allo stadio per il piccolo John, ma è solo nei momenti difficili che la passione si rafforza davvero.
E si rafforzerà talmente tanto che il nostro diverrà, almeno negli anni adolescenziali pre-Sex Pistols, un vero e proprio ultras, una presenza fissa nelle tribune popolari di Highbury, con annessi scontri, come rivelato nel suo nuovo libro “I Could Be Wrong, I Could Be Right”, uscito ad inizio 2021: “Una partita di calcio era l’occasione per lasciare andare tutta la rabbia e l’aggressività, perché anche le rivolte più grandi finivano in pochi minuti (…) è spaventoso quando tutto inizia, ma di solito le persone da temere di più erano i poliziotti stessi (…). La polizia era con i manganelli dalla punta chiodata in qualsiasi luogo, ovunque. Tutti lo sapevano. La polizia era pronta ad uccidere.”
Lasciando perdere ogni controversia legata al mondo ultras, John ha vissuto quasi tutta la sua esistenza ad Highbury, vedendo passare innumerevoli calciatori, tanti fuoriclasse ovviamente, ma anche tanti “bidoni” (negli ultimi anni poi…), ha visto con i suoi occhi tanti trofei alzati al cielo, ma anche tante annate di vacche magre, dove comunque la passione è rimasta intatta e fresca come negli anni giovanili.
Partendo dagli attori principali del pallone, ovvero i calciatori, quali sono i protagonisti Gunners che hanno fatto luccicare gli occhi al giovane Lydon, facendolo perdutamente innamorare dell’Arsenal? Il nostro non ha dubbi: “I giocatori del Double (si riferisce alla “doppietta” First Division-FA Cup che l’Arsenal realizzò nell’annata 1970/1971, ndr)”. Parliamo di una squadra priva di grandi stelle insomma, ma che con l’impegno e l’unione di gruppo è riuscita ad ottenere grandi risultati, come il già citato “Double” e anche la Coppa delle Fiere (antenata della Coppa Uefa/Europa League) la stagione precedente. Il suo giocatore preferito, però, rimane il francese in maglia 14: “mi manca, era splendido da vedere”, e non è necessario aggiungere altro.
Molto più controverso invece il rapporto con Arsene Wenger, che dopo aver scritto importanti pagine della storia dell’Arsenal “non è stato in grado di riconoscere i propri errori, anzi ha continuato a ripeterli anno dopo anno”. Per questa ragione Lydon, prima di lasciare per sempre l’Emirates, ha più volte chiesto ai tifosi dell’Arsenal di non andare allo stadio. Lydon vive a Los Angeles ma si sveglia “ogni sabato alle quattro e mezza del mattino per vedere la partita”. Amore più autentico non ci potrebbe essere. La sua ultima presenza sugli spalti è datata 27 febbraio 2011, in occasione della finale di League Cup tra il suo Arsenal e il Birmingham City, giocata a Wembley e terminata con la sorprendente sconfitta dei Gunners per 2 a 1: ironia della sorte, proprio la stessa squadra contro cui da bambino Lydon vide per la prima volta una partita allo stadio 50 anni prima, e anche allora il risultato finale fu una sconfitta. Una beffarda quanto amara chiusura del cerchio.
Ma c’è un’ultima critica che Lydon non ha potuto trattenere: quella al nuovo stadio, su gentile concessione degli Emirati Arabi.
“In questi giorni, se sei un tifoso, non ti è concesso fare nulla: non puoi fumare, non puoi bere, non puoi bestemmiare, non puoi neanche stare in piedi. È tutta me**a.”
Come contro-esempio virtuoso Lydon, nella stessa intervista rilasciata ad un magazine tedesco, ha elogiato il tifo presente nel Westfalenstadion del Borussia Dortmund: “Non puoi vedere il calcio stando seduto. Guarda la Curva Sud del Dortmund: stanno tutti in piedi, cantano e fanno un rumore tale che la curva sembra la faringe di un enorme mostro ruggente ed è fantastico.” E ancora: “Se ti siedi alla partite, è come se non facessi più parte di quello che sta accadendo. A quel punto il calcio diventa come il tennis o come una lezione di matematica, una me**a”. Chiaro, diretto e mai banale: John Lydon, prendere o lasciare.