Le scene iconiche sono la colonna portante della storia del cinema. Una serie di inquadrature rimaste per sempre impresse nella memoria e nel cuore di coloro che si sono abbandonati di fronte alla pellicola, concedendosi alla sua travolgente passione senza opporre resistenza.
Ritagliarsi uno spazio nell’Olimpo cinematografico delle immagini sacre è un privilegio esclusivo. Un vanto di cui possono fregiarsi le sequenze che ritraggono le gesta del tenente colonnello William Kilgore e dei suoi uomini sul campo di battaglia in Vietnam, nel film di Francis Ford Coppola “Apocalypse now”.
Per dimostrare il primato dell’esercito americano, l’ufficiale ordina ai soldati radunati attorno a lui di surfare sul delta del fiume Mekong durante l’operazione che si sarebbe svolta all’indomani, pronunciando con veemenza la celebre frase «Charlie don’t surf!». Un gioco di parole in gergo militare: Charlie sta per Victor Charlie, ossia Viet Cong. Bombe al napalm piovono quindi sulla striscia di giungla, mentre i nipotini dello Zio Sam si esibiscono in acrobazie sulla cresta dell’onda. «It smells like victory» dice soddisfatto Kilgore. Uno scenario al limite del reale partorito dall’immaginazione di John Milius al quale venne affidata la sceneggiatura del colossal, scritta a quattro mani con Coppola. L’uscita del film nelle sale avvenne nel 1979.
«Avrei dato tutto ciò che avevo per diventare un marine. Trascorsi molto tempo tra le onde con i ragazzi della base di Pendleton. Quando venni scartato alla leva per problemi d’asma mi sentii devastato. A partire da quel giorno sviluppai una vera e propria ossessione per la guerra». Ci fu un prima e un dopo il Vietnam per ogni americano e Milius non fece eccezione. Non c’è da rimanere sorpresi allora nello scoprire che il suo “Un mercoledì da leoni”, uscito un anno prima di “Apocalypse now”, sia anch’esso imprescindibilmente legato al conflitto nel sud-est asiatico.
Non poteva essere altrimenti dato che ad infoltire le fila dei milioni di combattenti mandati sul fronte vi furono moltissimi surfisti. La chiamata alle armi fu l’ariete di cui si servì il mondo reale per abbattere le porte del loro tempio. La spensierata giovinezza alla ricerca dell’onda perfetta svanì oltre l’orizzonte. Come il sogno di una notte di mezza estate cede il campo all’alba del risveglio di fine stagione.
«Si cavalcavano onde altissime. Si compivano imprese eroiche e di destrezza incredibile. Si cementavano caratteri. A diciotto anni avevamo degli imperi. Mai mi sarà conferita gloria più grande di quando, percorrendo la spiaggia con la mia Big Orange sottobraccio, sentii i ragazzini mormorare: Milius sta uscendo. Faccia a faccia con un’onda maestosa ci si sentiva onorati di essere uomini. Come avrebbe potuto gestirci la società? Violavamo tutte le leggi. Non avevamo alcun rispetto per la proprietà privata, e avremmo dato fuoco a una casa se si fosse trovata tra noi e le onde.
In realtà non avevamo nulla contro la società che ci circondava, se non il fatto che era civilizzata e viveva nell’entroterra. Non eravamo ribelli per frustrazione, ma per arroganza. Eravamo dei re e, per la maggior parte di noi, a venticinque anni era tutto finito».
È questa la terza via del surf. «Quella che rifiuta il sogno americano, che non vuole saperne di un lavoro fisso, della casetta con il giardino, del cane, dei figli, del football, del baseball, del basket. La gioventù del surf non è attratta neanche dall’autodistruzione, dalla ribellione senza una causa, molto in voga in quegli anni». (F. A. Fiorentino, T. Lavizzari, Surf. Un mercoledì da leoni 40 anni dopo, 2018).
Per comprendere a fondo la potenza narrativa di “Un mercoledì da leoni” è necessario che lo spettatore abbia ben chiari alcuni aspetti. La bellezza senza tempo del film è data infatti dalla sublime resa artistica di alcuni temi ancestrali cari agli uomini.
L’opera di John Milius non è soltanto un elogio del dovere di servire la patria sotto le armi, se necessario anche a costo di fare prima la guerra con la propria coscienza («Right or wrong, my country»). È l’amicizia il leitmotiv assoluto che lega le vicende dei tre protagonisti. Amicizia intesa nel senso più nobile del termine ossia come un’affinità cavalleresca attraverso la quale, prendendo in prestito le parole di Vittorio Mathieu, l’uno coltiva l’altro, lo aiuta a conoscersi e conoscere il mondo; lo forma spiritualmente e lo rivela a sé stesso.
Il ciclo delle stagioni e delle mareggiate scandisce gli eventi della vita di Matt, Jack e Leroy mettendo in risalto come il passare del tempo non scalfisca la fratellanza d’acciaio che li unisce. L’eterno ritorno alla spiaggia simboleggia il loro centro di gravità permanente, per dirla alla Franco Battiato.
L’amore incondizionato per il surf, la tribù e l’impetodell’oceano pacifico è più forte di qualsiasi cosa provi ad interferire con il cammino comune di cui sono artefici. Il desiderium di vivere momenti di gloria prevale infatti su ogni difficoltà. Lo sguardo dei ragazzi nel momento in cui si accingono a sfidare le onde è un’ode alla conquista. Milius, cullando il sogno dell’eternità, ha fatto della settima arte il deus ex machina per far emergere la sua poesia interiore: un trionfo di epica, etica ed estetica.
«Immagino un uomo che sogna e rimpiange la giovinezza. Il cinema ci mostrerà i begli ambienti, il volto dell’amore, il futuro proiettato nella forma abbellita e malinconica che la memoria gli presta quando crede di ricordare. E, accanto a queste immagini completamente fantastiche, il passato così com’era.
L’anima sognatrice, colta in flagrante, in pieno movimento di deformazione sentimentale, e che si denuncia da sé, sia per la propria capacità di illudersi, sia per la natura degli oggetti su cui indugia».
–Louis Martin-Chauffier
La mistica del nativo di Saint Louis, che affonda le proprie radici nella tradizione letteraria di Melville, Conrad e Kerouac, è intrisa di valori Zen, cameratismo ed entusiasmo virile per l’azione. È una Weltanschauung che concilia l’individualismo eroico (ed antieroico), tipico degli autori citati, con lo spiccato sentimento comunitario che ha caratterizzato la generazione alla quale Milius fieramente apparteneva.
Nel suo mondo inoltre trovano spazio alcuni precetti spirituali orientaleggianti legati al senso della disciplina. John infatti non fece mai mistero di essere stato folgorato dalla fascinazione per la cultura guerriera giapponese negli anni dell’adolescenza. Finì per diventare un samurai sui generis destreggiandosi tra cineprese, bikini e onde alte mille piedi.
E i suoi ragazzi? Decisioni cruciali si stagliano sulla loro rotta:c’è una giovinezza da risolvere. Il rifiuto di arrendersi al tempo viene travolto dalla realtà. Si fa largo l’accettazione serena del destino. Il passaggio del testimone dalle mani degli interpreti della Golden Age anni ’60 a quelle degli idoli della successiva Silver Age è inevitabile. Ed è a questo punto che Milius esalta l’importanza di lasciare in eredità il migliore dei mondi possibili. «Nessuno surfa per sempre» mette in guardia Bear, sempre pronto a suggellare le imprese dei tre con una parola o un semplice sguardo.
Eppure c’è chi non ha smesso di surfare. E mai lo farà.