All or Nothing: Tottenham Hotspur rispecchia perfettamente la svolta che lo sport ha preso dall’avvento delle pay-tv. È l’emblema di un calcio ormai americanizzato, in cui le telecamere all’interno degli spogliatoi sono considerate un fatto usuale e in cui, addirittura, ci è concesso assistere a un furibondo litigio tra un giocatore e un allenatore. In generale, guardando questa serie, si ha la sensazione di aver sprecato del tempo. A tenere in piedi il prodotto è soltanto José Mourinho, attore mediatico ossessionato dalla vittoria e perfettamente a suo agio in questo nuovo modello di calcio.
MOURINHO, ONE MAN SHOW
Si può dire con tranquillità: almeno davanti agli schermi, Mourinho è ancora il numero uno. Certo, i tempi delle conferenze stampa graffianti e provocatorie sembrano essere lontani. José non ha più dalla sua parte dei risultati strabilianti e qualcosa dal punto di vista tecnico sembra essersi fatalmente sgretolato. La sensazione è che Mourinho abbia capito di essere il migliore di un’epoca ormai conclusa e che il capolinea della sua incredibile carriera si stia avvicinando.
Eppure, nonostante ciò, è ancora terribilmente carismatico. Ci tiene incollati lì, ansiosi di conoscere la prossima scusa per giustificare i suoi sempre più frequenti insuccessi. È un genio della comunicazione, un mago mediatico. Talmente bravo da farci commuovere di fronte alla notizia della morte del suo cane o al suo dolore per la diffusione della pandemia. È un Mourinho diverso, meno sicuro di sé ma ancora perfettamente a suo agio in quello che fa.
La verità è che questa serie televisiva non poteva giungere in un momento migliore della sua carriera. Josè ha saputo sfruttare l’occasione al meglio per rilanciarsi agli occhi del mondo come l’allenatore più geniale di tutti. Almeno in apparenza. Perché la realtà è ben diversa e a pensarci bene, più che un manifesto di bravura, sembra tutto un diversivo che nasconde un mesto e nostalgico canto del cigno.
28 aprile del 2010: José Mourinho in estasi dopo essere uscito indenne dal Nou Camp di Barcellona (foto di Michael Regan/Getty Images)
L’INDIVIDUO FA LA COMUNITÀ
Nella prima puntata vediamo il Tottenham esonerare Pochettino e scegliere dunque Mourinho. José arriva in ufficio e per prima cosa arreda la stanza con cimeli preziosi: una foto che celebra la Champions vinta con il Porto e una pagina della Gazzetta che lo glorifica per il Triplete nerazzurro. Il messaggio è chiaro. A prescindere da come andrà la sua esperienza a Londra, il suo passato non può essere cancellato: sarà sempre lui lo Special One. Oltre a un evidente narcisismo, c’è dunque una spiccata concezione individualistica del mondo.
E tutto ciò si ripropone in maniera chiara quando Mou ha il primo colloquio con Kane, il capitano. I due si presentano e il portoghese rivela all’attaccante ciò che ha in mente: incrementare lo status internazionale del giocatore, facendogli raggiungere in questo modo i livelli mediatici, guarda un po’, proprio di Mourinho. E le sue parole sono eloquenti: “Il mondo guarda al calcio inglese con incredibile rispetto, ma si pensa che le movie-stars del calcio siano da altre parti. Io sono un allenatore con una dimensione universale e, se stai con me, penso di poterti aiutare in questo senso”.
Il punto non è migliorare o ottenere successi collettivi. Il punto è che per essere qualcuno, in questo calcio, bisogna pensare a sé stessi.
Il vero obiettivo è diventare delle icone internazionali vendibili e sacrificabili sull’altare della spettacolarizzazione e del profitto. Se vuole assurgere alla dimensione di Messi o Ronaldo, Kane deve dunque abbandonare l’intrinseca (e terribilmente affascinante) bruttezza del calcio inglese e sposare in toto il divismo tutto marketing dei nostri giorni. Deve adeguarsi al calcio europeo a stelle strisce, a un calcio arrivista dimentico delle proprie origini e totalmente asservito alle logiche di mercato. Un calcio che rappresenta per i giocatori un mezzo e non il fine delle loro carriere.
Sia chiaro: Mourinho non è il diavolo e Kane non è un santo. L’attaccante nel colloquio infatti annuisce, confermando e condividendo le intenzioni dell’altro. La conversazione è breve, ma non tocca mai aspetti tecnici. In più, né Mourinho né il capitano Kane menzionano gli altri compagni. La verità è che l’unione del gruppo, mantra assoluto delle vittorie passate del portoghese, oggi non sembra più sostenibile: i tempi in cui Mourinho opponeva un “noi” agli “altri” sono irrimediabilmente lontani.
Lo Special One ha compreso la svolta in atto del calcio e si è adattato perfettamente a essa. La sensazione è che Mourinho voglia instaurare con Kane un rapporto di reciproca convenienza, al cui interno ciascuno dei due può servire all’altro per raggiungere obiettivi strettamente personali. I traguardi di squadra non sono più sufficienti. I successi sportivi – da raggiungere a ogni costo – devono essere capitalizzati per alimentare la propria e personale visibilità mediatica.
L’uragano, Harry Kane (foto di Laurence Griffiths/Getty Images)
VINCERE O VINCERE
Questo sistema di valori non poteva trovare un interprete migliore di Mourinho, da sempre ossessionato dalla vittoria. La quale, come la neve di Simenon, deve essere sporca. Il fil rouge della serie è chiaro: per vincere bisogna essere dei figli di puttana; se sei corretto, perdi. Il portoghese è perfettamente calato nella logica dello star system odierno. Il suo pragmatismo di stampo machiavelliano gli impone di ricercare il successo in qualunque modo. È consapevole di vivere in un mondo competitivo, in cui solo i primi possono essere ricordati.
Parlare di Mourinho significa dunque partecipare inevitabilmente alla delicata querelle sul concetto di vittoria. Il punto di partenza è il solito: è davvero l’unica cosa che conta? A ben guardare, il mondo dello sport ci regala esempi di personalità diverse ma altrettanto vincenti. Come ad esempio Julio Velasco, secondo cui il successo non può essere il paradigma per tutto. Perché se così fosse, in fondo, “gli atleti che sanno di non poter vincere non andrebbero alle olimpiadi”.
O Jorge Valdano, secondo cui «quel messaggio che si definisce pragmatico è la strada più breve verso l’individualismo, l’assenza di solidarietà, gli ansiolitici. Ma soprattutto è falso. Esistere è assai più importante che vincere una partita di calcio. Il gioco serve a sentirsi almeno un po’ felici, per evadere dalle questioni serie, per fare amicizia; quel fondo di fascismo che si annida dietro la filosofia del risultato è tipico di gente che divide il mondo in dominatori e dominati, in ricchi e poveri, in bianchi e neri, in vincitori e vinti». Porre fine a questo dibattito secolare è chiaramente utopistico.
Tuttavia, nell’osservare Mourinho che cerca di inculcare ai calciatori-discepoli del Tottenham il dogma della vittoria, si ha la netta sensazione di qualcosa di stridente. Josè sembra non avere negli occhi lo stesso fuoco di un tempo: le delusioni degli ultimi anni gli hanno fatto perdere credibilità. A tratti sembra un uomo infelice, fatalmente imprigionato nel personaggio del macho vincitore.
La sensazione è che Mourinho, smettendo di vincere, abbia perso l’essenza della sua carriera di allenatore, il suo daimon socratico. Lo Special One è vittima della stessa logica che lo ha reso famoso e che lui stesso ha contribuito ad alimentare, dalla quale potrebbe uscire soltanto tornando a fare ciò che lo ha reso unico: vincere. Oppure potrebbe cambiare. Ma vi immaginate Mourinho dire ai suoi calciatori: “figli di puttana, vincere non è l’unica cosa che conta”?