Fino alla sera di sabato 29 novembre 2003 un quattordicenne interista non ha ben chiaro cosa significhi vedere la sua squadra battere la Juventus. Al sentire nominare la Vecchia Signora, al massimo, si rievocano spettri e sogni infranti che formano una cappa d’inquietudine avvolgente per il pianeta nerazzurro. Oltre alle suggestioni dell’inconscio, poi, anche la statistica è davvero impietosa: in campionato il Biscione non riesce a strappare una vittoria al Delle Alpi da oltre un decennio.
Il divario tra i due club è ben rappresentato dalle formazioni in campo quella sera.
Da una parte la Juve capolista e imbattuta di Marcello Lippi, forte di due scudetti consecutivi e che vanta tra i suoi Buffon, Thuram, Del Piero, Trezeguet e l’imminente Pallone d’oro Pavel Nedved. Dall’altra un’Inter a digiuno di Tricolore dal lontano 1989 e reduce dal mesto tramonto dell’era Cúper, segnata indelebilmente dal 5 maggio 2002, che si presenta a Torino con una difesa a tre col solo Cordoba titolare fisso coadiuvato da Adani e Gamarra. Nell’ennesimo ribaltone a stagione in corso di tipico stampo morattiano, l’allenatore subentrato all’Hombre Vertical è il mite Alberto Zaccheroni.
Nonostante tutte le premesse siano nefaste per i nerazzurri qualcosa si muove al dodicesimo minuto di gioco. Con una punizione al limite dell’area, El Jardinero scaglia il pallone all’incrocio proprio sul palo di un Buffon che guarda attonito la sfera insaccarsi in rete, tra lo stupore generale. Il bis è servito nel secondo tempo ancora da Cruz, dopo una grande azione personale di Zanetti. Mentre il successo inizia a prendere forma, persino il bonario Zac dalla panchina si lascia andare a un’esultanza come ai tempi dello Scudetto vinto nella sua esperienza dai cugini casciavit. Finirà 3-1 per i nerazzurri.
Un primo incrocio del destino tra Cruz e l’Inter avveniva già un decennio prima, a pochi chilometri da Buenos Aires, con l’arruolamento nelle file del Banfield, dove Julio faceva la conoscenza di un certo Javier Zanetti. Qui l’allenatore Oscar Lopez è l’artefice della straordinaria duttilità tattica del Jardinero. Il mister del Taladro, infatti, fa giocare Cruz in varie zone del campo, lasciando l’attacco in fondo alle priorità. Qui nasce il soprannome di Giardiniere, e non c’entra con la reale professione di ambito botanico; eppure la trovata del giornalista, che lo battezza dopo averlo visto salire su un trattore per scherzo durante gli allenamenti, calzerà a pennello per descrivere l’umiltà di Julio anche nei grandi palcoscenici.
Il grande salto sul proscenio internazionale arriva con la chiamata del River Plate, fresco campione di Sudamerica, con l’arduo compito di sostituire Hernán Crespo e affiancare Marcelo Salas nel reparto offensivo. La maglia dei Millionarios, inoltre, significa giocarsi la Coppa Intercontinentale 1996 contro la Juventus, nella cornice di Tokyo. Sarà proprio la sconfitta coi bianconeri in terra nipponica la prima vera delusione della carriera di Cruz, che con la Vecchia Signora avrà sempre un conto in sospeso dovuto a questo “rimpianto cresciuto col tempo” di una mancata laurea di campione del mondo per club.
Per la prima rivincita, El Jardinero deve attendere solo un anno e di avere addosso la maglia del Feyenoord. Dopo un avvio difficile in terra olandese, per il ragazzo di Santiago del Estero le cose cambiano radicalmente con l’arrivo in panchina del giramondo Leo Bennhakker. Don Leo conosce alla perfezione la lingua ispanica, con il suo bagaglio di avventure vissute tra Saragozza, Madrid e il Messico prima di tornare in Patria, e sa come coccolare il suo pupillo, facendolo così ambientare al rigido clima di Rotterdam.
Sempre nel mese di novembre, esattamente come un anno prima, l’avversario è la Juventus, stavolta nella fase a gironi della Champions League. Una doppietta dell’argentino stende i bianconeri e fa esplodere lo stadio De Kuip che elegge El Jardinero a idolo della tifoseria del Club van het volk (il club del popolo). Nonostante ciò il Feyenoord non riuscirà a qualificarsi alla fase successiva del torneo. Risultato non sufficiente, quindi, per considerare chiuso il conto con la Vecchia Signora.
Dopo tre anni a Rotterdam, coronati con un titolo di Campione d’Olanda, nell’estate 2000 è il momento di salire l’ultimo gradino per approdare nel campionato italiano, il gotha del calcio mondiale. Il presidente del Bologna Gazzoni Frascara scuce ben 20 miliardi di lire per fargli indossare la casacca rossoblù, che Cruz vestirà per tre stagioni formando una coppia da urlo con Beppe Signori.
La chiamata della vita arriva in una giornata di fine agosto 2003, allo scadere del calciomercato, da parte di un’Inter che deve sostituire Crespo ceduto al Chelsea.
Ancora Crespo da rimpiazzare come ai tempi del River Plate. A Milano la concorrenza è agguerrita, ma il biglietto da visita con cui Julio si presenta ai tifosi nerazzurri è tutto da gustare. È suo il tocco leggiadro che scavalca Lehmann e apre le danze a uno storico 3-0 rifilato all’Arsenal nel tempio di Highbury, nella prima giornata di Champions League. Forse è davvero l’anno buono per un Biscione reduce da troppe sofferenze.
Invece nulla di tutto ciò. Appena un mese dopo Moratti esonera Cúper, in seguito a una notte insonne causata dal pareggio di Brescia, e lo sostituisce con Alberto Zaccheroni. In campionato si iniziano a macinare dei punti, ma il ruolino di marcia europeo è disastroso e l’impresa londinese viene oscurata da un’altrettanto storica sconfitta nel 5-1 casalingo inflitto dai Gunners, che fanno razzie di un’Inter malandata sul prato di San Siro.
Solo quattro giorni dopo lo scempio europeo ecco quel sabato sera di novembre al Delle Alpi. L’appuntamento di Torino è da segnare in rosso sull’agenda del Jardinero, visto che cade proprio pochi giri di sole dopo l’anniversario della sconfitta di Tokyo. La doppietta di Julio nel derby d’Italia serve a regalare al popolo interista una parvenza di redenzione e uno squarcio di luce nella notte di una stagione in cui il fondo deve ancora essere toccato. Nel febbraio 2004, in seguito alla debacle interna col Brescia, al Meazza farà capolino uno striscione che reciterà: “Non so più come insultarvi”.
Nonostante l’improvvisa canonizzazione nella notte del Delle Alpi, ai nastri di partenza del 2004-2005 Cruz è la quinta scelta nell’attacco a disposizione del neo tecnico Roberto Mancini. Nella sterminata rosa nerazzurra, oggetto degli sketch comici di Ficarra e Picone in quel di Zelig, prima vengono Adriano, Martins, Vieri e Recoba. Il destino del Jardinero all’Inter sembra già segnato, ma sarà proprio il Mancio a fargli capire in che modo potrà diventare una pedina preziosa nello scacchiere nerazzurro – e di conseguenza a ritagliarsi, con intelligenza e umiltà, il suo spazio nella storia della Beneamata.
«Mancio non lo ha mai detto in pubblico, ma nello spogliatoio ci ripeteva: “All’Inter ci sono troppi capitani e pochi soldati”. Allora ho capito che io dovevo fare il soldato».
Julio Cruz
Dopo un’annata da comprimario, culminata comunque con una vittoria della Coppa Italia e con un altro gol alla Juve nell’1-0 di Torino, arriva il momento in cui Julio è chiamato a interpretare il ruolo d’inatteso protagonista. C’è bisogno del Jardinero perché le belle speranze riposte sulla giovane coppia Adriano-Martins cominciano a sgretolarsi con l’avanzare dell’ennesima stagione fatta di rimpianti (i quali verranno in parte placati dall’assegnazione dello Scudetto a tavolino dopo le sentenze di Calciopoli).
Nella delusione generale, Cruz risponde presente risultando il miglior marcatore nerazzurro, in quella che, a trentun anni, è la miglior annata della carriera dal punto di vista realizzativo con 21 reti fra campionato e coppe. Non male per l’ultimo della lista. Se ne accorge anche il ct argentino José Pekerman che lo inserisce nella lista dei convocati della Selección in partenza per la Germania, regalando così al Jardinero la sua prima e unica partecipazione a un Mondiale.
La rincorsa per guadagnarsi un posto riprende immediatamente al rientro dalle vacanze, quando Julio trova alla Pinetina dei nuovi compagni di reparto come Zlatan Ibrahimovic ed Hernán Crespo, freschi titolari inamovibili. In effetti, rispetto alla stagione precedente, le presenze per Cruz si dimezzano, ma a Ibrahimovic, un tipo non proprio tenero con tutti, non spiace per nulla avere il buon Julio affianco quando si presenta l’occasione di formare questa coppia di opposti che si attraggono (e il sentimento viene ricambiato).
“Di tutti i partner che ho avuto in avanti, Zlatan è quello col quale mi sono trovato meglio: io e lui ci divertivamo proprio. E quanti gol…”
Vedi una delle partite più iconiche di tutta l’esperienza del Jardinero in nerazzurro, ovvero il derby dell’11 marzo 2007. Subentrato a partita in corso e con l’Inter in svantaggio a causa del doloroso gol dell’ex Ronaldo, il più amato e il più odiato, l’argentino fa esplodere il Meazza, ferito nell’orgoglio, dopo neanche un minuto dal suo provvidenziale ingresso. A seguire un colpo di tacco alto di poco sopra la traversa posticipa la rimonta, che si concretizza con l’assist dello stesso Cruz servito su un piatto d’argento a Ibra per il 2-1 finale. In quel clima da derby d’altri tempi giocato di domenica pomeriggio, anche Massimo Moratti si fa trascinare dalla foga collettiva con un gesto dell’ombrello immortalato dalle telecamere e consegnato ai posteri.
Il feeling di Julio con Zlatan toccherà l’apice nell’annata successiva. A trentatre anni suonati, Cruz veste ancora i panni di uomo giusto al momento giusto e Mancini lo promuove a partner ideale della stella svedese. In una rinnovata scalata delle gerarchie vengono progressivamente scalzati Suazo, Crespo e Adriano. Nella vetrina della Champions League, Julio timbra i cartellini che lo rendono il terzo marcatore nella storia dei nerazzurri nella competizione, mentre nel derby della Madonnina, contro un Milan neocampione del mondo, la sua firma apre la rimonta nerazzurra proprio come nel marzo precedente.
In totale fanno 19 reti stagionali, tra cui quelle fondamentali per la vittoria dello Scudetto, stavolta sofferto fino all’ultimo per la concorrenza della Roma. Inoltre, a proposito di quel vecchio conto in sospeso, El Jardinero si toglie lo sfizio di punire la Juventus per quattro volte tra campionato e Coppa Italia, due a San Siro e due a domicilio. Dopo un decennio di collezione di scalpi bianconeri forse la fame di rivincita per quell’Intercontinentale, sfumata nella lontana Tokyo, può considerarsi in parte saziata.
L’arrivo di José Mourinho nell’estate 2008 segna il viatico per il ritorno del Biscione sul tetto d’Europa dopo quasi mezzo secolo, ma per Cruz si apre la stagione che porta ai saluti, contraddistinta da poche occasioni, perlopiù spezzoni di partita, per essere ancora decisivo. Sembra quasi una beffa che il suo ultimo trofeo della carriera, la Supercoppa italiana vinta con la Lazio, arrivi proprio contro l’Inter, nell’agosto 2009 a Pechino.
Il 22 maggio 2010, Julio vivrà solo da spettatore l’apoteosi nerazzurra nella notte di Madrid che vedrà molti dei suoi vecchi compagni e amici fra i protagonisti. Il non esserci al Bernabeu sembra un’altra beffa per colui che è stato un punto di riferimento nel passaggio dai capitoli bui a quelli lucenti dell’Internazionale. Per colui che è stato gregario tra i capitani, alcuni dei quali non ce l’hanno fatta a mantenere le promesse in quell’epoca di lunghe attese.
Un finale che sa quasi di “buttare lì qualcosa e andare via”, citando Giorgio Gaber. Arrivando in silenzio e andandosene senza schiamazzi, El Jardinero avrebbe fatto rumore con il suo esempio, garantendosi quindi un posto riservato tra i Grandi della storia del Biscione.