Se il pensiero commenta Inghilterra-Germania.
Martin Heidegger freme nei preparativi. Agitato, ansioso, incapace di allontanarsi dalla propria dimora. In difficoltà nel dover scegliere i propri compagni di viaggio filosofici, tra i tanti della propria biblioteca, nel viaggio verso Wilflingen, a casa di Ernst Jünger. Ha scelto, tra gli altri, anche La città di Dio di Agostino. Sua moglie Elfride è un po’ perplessa:
«Oh, Martin, io avrei scelto qualcosa di molto più leggero, dopotutto vai a Wilflingen per vedere una partita di calcio e non per una conferenza».
Un brivido, intanto, lo attraversa. Qualche linea di febbre. Elfride lo tranquillizza. Ma Heidegger è inquieto oltre misura: «Non sono fatto per le partenze. Anche un solo giorno lontano da questa casa mi sconvolge, è come se mi tremasse il terreno sotto i piedi. Lo sbandamento è totale. Ma avrò passato del tempo assieme a te? È questo che a volte mi chiedo. Con la mia devozione ai libri, mi pare che ti abbia rivolto la parola soltanto nei ritagli di tempo». Risponde, la sua Elfride: «Il tempo che mi hai dedicato è stato tantissimo. Poteva forse il mondo fare a meno delle tue riflessioni?»
Ma il tempo stringe. È il 30 luglio del 1966. A Wembley ci si prepara per la finale della coppa del mondo: è Inghilterra-Germania Ovest. Jünger vi scorge un’esperienza straordinaria. Sublimazione calcistica de Le tempeste d’acciaio e di Essere e tempo. Una finale di calcio diviene un simbolo e una sfida che supera gli angusti limiti del campo di gioco.
Heidegger non può mancare. Pur nella sua riluttanza, pregusta la sfida con gli inglesi (“sempre loro come primi nemici”). Poi la squadra sembra promettere bene. È la Germania Ovest di Tilkowski, Beckenbauer, Seeler. Ne parla con Manfred, il suo autista, che ostenta un certo ottimismo: «Si vincerà e sarà Seeler a punire gli inglesi. Sì, sarà lui.»
A Wilflingen arrivano in perfetto orario. Jünger lo accoglie evocando quella partita come una simulazione di guerra. Come simbolo di quell’ordigno chiamato Tecnica, ormai incombente sull’umanità. I due filosofi richiamano la finale del 1954. L’Ungheria di Ferenc Puskás, favorita oltre ogni misura e piegata dal pragmatismo e dalla fisicità teutoniche. C’era Fritz Walter in quella Germania Ovest: «Se non ricordo male, Fritz Walter era nei paracadutisti» sottolinea Jünger. Intanto comincia la finale. La Germania è ancora sfavorita, ma la sua difesa tiene:
«Osservi come siamo coperti dietro, un catenaccio italiano, si potrebbe dire».
Sottolinea Heidegger. Ma la sua fragilità emotiva emerge. Si distrae volutamente non appena gli inglesi superano il centrocampo. Intanto, legge Husserl. «Le pare questo il momento di leggere Husserl?» lo prende in giro Jünger. «Ognuno ha il proprio sistema difensivo. Io al posto di Schultz, Schnellinger e Weber ho Husserl, Tommaso d’Aquino e Schleiermacher». Ragionamento che non fa una piega.
Intanto, la Germania va in gol, con Haller. Esulta Jünger. Gli ricorda un fuciliere Haller, con lui nella Prima Guerra Mondiale. Intanto la filosofia si intreccia con il discorso calcistico: «Il fatto che stiano assistendo tutti a questa partita è impressionante. Si può ben dire che la mobilitazione è davvero totale. Come reagirebbero tutti gli abitanti del pianeta se d’improvviso si sospendesse questa sfida?» osserva Jünger. Il calcio è un fenomeno mondiale. Nessun pensiero filosoficamente maturo e attento alla realtà può permettersi di ignorarlo. Intanto, il campo è della reazione inglese. Hurst e poi Peters indirizzano la partita in favore dei leoni.
Heidegger è di nuovo febbricitante. Ma la Germania non cede. Quasi a tempo scaduto Weber riporta il risultato in parità. Tempi supplementari. «Il tempo! Quanto tempo ho dedicato al tempo!». Heidegger ora è pienamente sereno. Ad un tratto, però, avviene l’irreparabile. All’11° del primo tempo supplementare Stiles lancia Ball che crossa per Hurst e gira verso la rete. La sfera picchia sotto la traversa e rimbalza sulla linea bianca. Sulla linea o oltre la linea? Il gol fu convalidato infine. Jünger scatta in piedi. La convalida è il simbolo di una semplificazione ormai imperante, di un nichilismo già descritto in Oltre la linea:
«Avrà sbagliato l’arbitro? Ma anche lui deve semplificare, come ovunque impone il mondo togliendo ogni interiorità. Sono le regole del Leviatano. Sì, ormai tutto ciò che si contrappone al mondo e al suo ritmo feroce, rimane fuori».
È 3 a 2 per gli inglesi. La Germania non si riprende. L’Inghilterra si porta sul 4-2, ancora con Hurst. Il rito collettivo della finale mondiale si conclude con una sconfitta. «È brutto perdere con gli inglesi», ammette Jünger. Una nuova Somme. Una nuova Africa o un fronte russo. Gli scontri mondiali non sembrano fatti per la Germania. La filosofia si fa campo da gioco e ritorna in sé arricchita e complessa. Intanto però quel pallone non è chiaro quanto fosse oltre la linea.
«È probabile che in futuro la tecnica diventerà così sofisticata e la volontà di potenza così potentemente potenziata che forse si potrà stabilire la verità su quanto accaduto […]. Gol oppure non gol. A questo punto, stabilita la verità, si dovrà riscrivere tutta la storia. Ma gioverà forse a noi tedeschi?» Val la pena di aggiungere: gioverà forse al mondo?
Liberamente tratto da “Oltre la linea. Jünger e Heidegger a Wembley”, di Fernando Acitelli (ES, 2018)