La Vecchia Signora è più forte della lotta di classe.
Si cerca in genere un appiglio di stabilità nel rituale mattutino: barba, caffè, quotidiano, uno sguardo di sfuggita al calendario appeso in cucina. È il 1965? Sì, è ancora il 1965. Poi, una controllata veloce alla posta, in cui un signore taciturno, perfetto sconosciuto, trova una lettera attesa a lungo. È indirizzata aGuido Morselli. A mandarla, la casa editrice Einaudi, cui Guido aveva spedito il manoscritto del suo ultimo romanzo, intitolato Il comunista, nella speranza di vederselo pubblicare. L’aspirante romanziere freme con la busta color albume tra le mani; forse dirà: è la volta buona. Quando le sue dita frugano il contenuto, ne esce una missiva firmata da Italo Calvino, all’epoca direttore editoriale dello Struzzo bianco. Ma le notizie non sono buone. È l’ennesimo rifiuto, uno dei tanti che sempre riceverà Morselli, andando a catalogare le risposte negative degli editori in una cartella decorata da un fiasco tratteggiato con il lapis.
Il “no” è però giustificato: «lo lasci dire a me che quel mondo [quello dei comunisti italiani, ndr] lo conosco, credo proprio di poter dire, a tutti i livelli. Né le parole, né gli atteggiamenti, né le posizioni psicologiche sono vere. Ed è un mondo che troppa gente conosce per poterlo “inventare”».
Difficile dire se e come l’autore delle Città invisibili avesse preso un abbaglio, eppure a distanza di mezzo secolo quel libro – pubblicato solo nel ’76, rigorosamente ad autore deceduto – pare intuire con sbalorditivo anticipo molti dei problemi che avrebbero presto toccato da vicino il gigante di via delle Botteghe Oscure. Anche nel dettaglio Morselli coglie il temperamento di un’epoca e di un preciso ordine politico delle cose, all’interno del quale non manca il pallone, secondo perno (dopo la politica) attorno a cui si avviluppa la vita e la chiacchiera dell’arci-italiano. In una scena, in particolare, si nomina un incontro tra Fiorentina e Juventus, cui assistono due dirigenti di partito amici del protagonista, Walter Ferranini. A ben vedere, almeno in questo, lo sguardo acuto di Morselli – scrittore chirurgico, freddamente passionale – pare essere ben più scaltro di quanto ravvisato da Calvino.
Un sorprendente filo conduttore, infatti, annoda la storia del club piemontese a quella del Partito Comunista Italiano, ovvero il tifo dei suoi dirigenti di punta per la squadra della famiglia Agnelli. Il marxista più apertamente juventino è Luciano Lama, vicepresidente del Senato e segretario della CGIL, che giustificava la propria appartenenza calcistica proprio in virtù del suo essere romagnolo. Intervistato allo stadio nell’intervallo di un Roma-Juve degli anni ’80 dirà che la sua passione nasce in culla: «Io sono romagnolo, e i romagnoli sono tutti juventini. Lo sono – ecco un sorriso sgranato – in contrapposizione al Bologna». Ma non può essere solo questo. C’è dell’altro. E c’è, per esempio, Palmiro Togliatti.
Uomo avvolto nella leggenda, colto, legato più di ogni altro a Mosca ma anche, sembra, agli umori del campionato nazionalpopolare. Si dice che il lunedì mattina chiedesse sistematicamente a Pietro Secchia i risultati del giorno prima. In caso di risposta incerta – Secchia era un dirigente rigoroso, intollerante nei confronti delle convenzioni cosiddette borghesi – Togliatti soleva rispondere che non si può certo fare la rivoluzione senza sapere se la Juventus abbia vinto o meno. Qualche uccellino pigola che bianconero sia stato addirittura il primo pensiero al risveglio dopo l’attentato del ’48, mentre a detta di Giovanni Agnelli, non c’è dubbio che Togliatti
«come tutti i leader comunisti di una certa generazione e di una certa classe, [fosse] juventino».
È chiaro che si tratta di storie dal gusto apologetico, difficili da verificare, ma che lasciano il sospetto di una verità di fondo. E non è forse un caso che quando nel 1988 l’Unità pubblica un pezzo intitolato “GRAMSCI TIFAVA PER LA JUVE“, sulla base di lettere rivelatesi poi un falso, la notizia viene accolta dal clamore dei più, coi dirigenti bianconeri in prima fila, Boniperti su tutti, il quale dichiarò quanto facesse piacere annoverare tra i propri tifosi personaggi di spicco della storia italiana, a riprova del fatto «che la Juventus ha davvero qualcosa di particolare, un fascino che con il passare degli anni non ha perso mai vigore». Fascino che non si ferma al Congresso di Livorno, ma attraversa una parabola di nomi e dirigenti della sinistra piuttosto indicativa, a suo modo, della storia del Partito in Italia, nonché di quelli che successivamente ne hanno assunto l’eredità politica e culturale.
Juventino è Pier Luigi Bersani, folgorato in tenera età dalle gesta atletiche di Omar Sivori; e lo sono ancora Veltroni, Gentiloni e Fassino, il quale, prima ancora dei comizi e dei talk, scorrazzava lungo la fascia con la maglia della Juniores bianconera. Si vocifera che tifoso fosse anche Giuseppe Di Vittorio, mentre meno dubbi ci sono su Berlinguer, l’ultimo grande segretario del PCI, che tra i banchi di scuola sognava di fare il regista nella Torres Sassari, ma tra quelli della Camera seguiva con apprensione i risultati di Zoff, Capello e compagni. Ora, al netto del fatto che la scelta della squadra di calcio ha spesso a che fare con ragioni non sondabili razionalmente, o comunque difficili da assoggettare ad una regola, la lista che lega tra loro Togliatti, Berlinguer e gli altri, non può che tracciare un qualche punto interrogativo.
Com’è che la Vecchia Signora (Signora, appunto, titolo di cortesia che si doveva più alle donne di rango che alle operaie elettrici del PCI) è riuscita ad attrarre tutti questi leader storici della sinistra italiana?
Si può dire, certo, che il PCI utilizzò lo sport come terreno di contesa elettorale («Tra partito e partita – dice un personaggio del romanzo morselliano – la gente sa quel che scegliere, se non stiamo attenti»). Ma perché questo fascino per la Juve, per di più in anni così fortemente ideologici? La squadra del padrone per eccellenza, quell’Agnelli che nei cortei feriali veniva insultato come simbolo di un’egemonia da abbattere, e poi tollerato la domenica allo stadio, con i suoi stessi dipendenti assiepati in curva e i dirigenti “rossi” in tribuna, fianco a fianco con l’antico avversario? La nascita stessa del club zebrato è di per sé “borghese”, elitario già nel nome (è latino, non rustica lingua), fondato da un gruppo di studenti del liceo D’Azeglio.
Quasi fin da subito, poi, la Juve diventa il club della Fiat e in quanto tale, quello degli imprenditori, mentre è inizialmente il Toro granata a colorare i drappi e le sciarpe sventolate dal proletariato urbano. Questa rappresentazione, tuttavia, regge fino al Dopoguerra. Gli anni ’60, quelli in cui il romanzo di Morselli viene rifiutato, sono gli stessi in cui a Torino gli schieramenti di inizio secolo cedono il passo ad un nuovo status quo. Lo spiega bene il prof. Agosti in una intervista di qualche anno fa sul Manifesto, laddove afferma che grazie alla «massiccia immigrazione dei meridionali dal sud al nord tra la fine degli anni ‘60 e la fine degli anni ‘70» anche all’ombra della Mole «saltò completamente lo schema stereotipato che voleva i tifosi del Torino di estrazione popolare e quelli della Juventus borghesi».
È l’Italia del Boom economico e delle voci oracolari di Tutto il calcio minuto per minuto, in cui si crea il mito di un benessere (la vita comoda, l’elettrodomestico, la Tivù) di cui Madama Juve è al contempo emblema e miraggio. Vincente, bella, ricca. Essa diventa culturalmente il simbolo di un potere dal cui fascino non sfugge nessuno, specie i più umili, come i salariati della Brianza, della Romagna e della Campania, che tifano Juve in opposizione alle squadre del centro (Bologna, Inter, Napoli…): è il contado contro il palazzo, la provincia in lotta – collerica, d’opposizione e perciò legittimamente a sinistra – contro i centri dell’aperitivo annacquato con l’oliva.
Il paradosso di questa situazione è chiaro: la squadra che rappresenta la parte eletta del Potere, accoglie sul proprio carro a righe verticali chi da quel potere cercava di svincolarsi. Come la Torino di quegli anni, anche la Juve si fa un porto aperto a tutta la «gente nova», mentre al contrario sono i Granata a diventare riferimento simbolico delle famiglie di antico insediamento. D’altronde, lo diceva bene il poeta Giovanni Arpino:
«la Juventus è universale, il Torino è un dialetto. La Madama è un “esperanto”anche calcistico, il Toro è gergo».
C’è di più, però, oltre ad un’inclinazione da bar-sport in comune con le masse operaie di mezza Italia. Come suggerito dal giornalista Zambardino, in questo desiderio bianconero s’intravede la libidica, freudiana ammirazione per una forma di potere che è la stessa a cui in fondo ambisce il PCI negli anni in cui il Blocco orientale è ancora il punto di riferimento: assoluto, senza rivali, con una capacità estensiva e permeante. Sotto questa luce, l’idolatria comunista per lo Stato non si allontana molto da quello che la “Fidanzata d’Italia” e i suoi proprietari hanno rappresentato negli anni nel calcio italiano. La Juventus, società organizzata, solida e seria, diventa agli occhi dei dirigenti comunisti un ideale in cui rispecchiarsi.
Simbolo di efficienza, di disciplina, di obbedienza alle gerarchie e al contempo di consenso trasversale, la squadra della nazione (e della Nazionale) non poteva non essere guardata con ammirazione da quei politici che ambivano a guidare un partito del popolo. Magari anche con una certa invidia per quello che agli Agnelli era riuscito meglio che a tanti compagni: una squadra, un leader. Allo stesso tempo la Juve non poteva (e non può) che identificarsi con la famiglia che la guida ormai da un secolo. Padroni, nel senso latino del termine, quasi da scrivere in maiuscolo, con peculiarità proprie di un Dio, tra cui quella di assorbire tutto nell’Uno, fino ad annullarlo in Sé.
«Chi potrà raccontare – ammise sulle colonne de l’Unità Folco Portinari – la nostra amara delusione, di idealisti traditi, quando vedemmo in tribuna d’onore Palmiro Togliatti tifare Juventus accanto agli agnellini, ai giovani Agnelli. Quel giorno ci accorgemmo che la lotta di classe era finita. Era stata un gioco. Infatti perdemmo le elezioni e per andare al potere, mezzo secolo dopo, avremmo dovuto mollare su tutto, sul nome, sulla falce e il martello, sui simboli. Lì incominciò anche la fine del Toro. Non c’era più spazio per le bandiere. È anche per questa ragione che non amo la Juventus. Sarò più corretto: è per questa ragione che odio la Juventus».
A distanza di tanti anni, la sconfitta di quel sogno operaio pare indiscutibile. Le famose masse operaie? Inesistenti, spinte ad avere gli stessi desideri e le stesse ambizioni del datore di lavoro; e d’altra parte non sono forse i comunisti a essere diventati juventini anziché il contrario?
Nel frattempo, seguendo il filo rosso dei dirigenti bianconeri di sinistra (Veltroni, Bersani, Civati…) e quello dei partiti derivati dallo smembramento del sogno gramsciano (Pds, Ds, Pd…) si tocca con mano una storia che cambia. I partiti sono altri, i leader pure. Persino l’elettorato è “borghese” oramai da decenni, mentre le antiche battaglie sul lavoro hanno lasciato posto a quelle sui diritti civili (e nel realizzarlo ci si chiede se sia azzardato definire anche quest’ultime come borghesi; dicerto non nuove, alle volte dal sapore piuttosto scontato).
Col senno di poi, la scelta tra «partito e partita» pare compiuta e irreversibile. Come del resto questa crisi all’apparenza senza fine, sorprendentemente anticipata da Morselli nel libro che non vide mai pubblicato. Nella sua lettera di risposta a Calvino, egli si lascia andare ad un’amara ammissione: «politicamente sono in crisi, con quasi nessuna speranza di uscirne». Nel luglio del 1973, deluso, intrappolato, non accolto dalle case editrici, l’autore si spara un colpo con la sua Browning 7.65, consegnandosi inconsapevolmente alla fama postuma e ai pastelli tenui delle copertine Adelphi.
Per il resto il PCI non esiste più, mentre a suo modo, seppur zoppicante e talvolta irriconoscibile, resite il pallone tricolore.
E con lui Madama Juve: a tutti gli effetti l’ultimo “schieramento” nazionalpopolare ad aver superato indenne il Novecento. Crollati i partiti di massa, la squadra degli Agnelli rimane probabilmente l’unico elemento capace ancora oggi di unire gli italiani al di là di qualsiasi appartenenza locale. Fosse anche quand’essi si associano esclusivamente per il fatto di odiarla.