Estero
17 Marzo 2022

Immaturi

La Juventus non può fare la grande squadra.

Una debacle, un fallimento, un disastro. La sconfitta per tre a zero rimediata a Torino dalla Juventus contro il Villareal non può prestarsi a retoriche di sorta, è netta nel risultato e richiede di esserlo nei giudizi. Contro la settima compagine del campionato spagnolo, seppur campione d’Europa (minore) in carica e allenata da un maestro di coppe come Emery, non possono bastare un buon primo tempo dove si è sprecato troppo e una buona metà del secondo in apparente controllo. Apparente, appunto, perché le tre pappine arrivate in sul calar della sera non sono state di certo casuali.

Sbaglia dunque Max Allegri a dire che “hanno deciso gli episodi”, giustificazione sempreverde nel nostro calcio che però si scontra questa volta con la banale constatazione che, se gli episodi sono tre, non sono più episodi. Il fallo da rigore di Rugani è stato ingenuo, certo, e le recriminazioni sull’assenza della coppia di senatori Chiellini-Bonucci sono lecite, ma nulla giustifica il successivo crollo dei bianconeri, che anziché reagire si sono liquefatti sotto i colpi di Pau Torres, lasciato solo in area a insaccare di piatto destro sugli sviluppi di un corner, e Danjuma, anche lui freddo dal dischetto come Gerard Moreno in occasione del primo gol.

Dice bene invece Claudio Marchisio (e per una volta concediamoglielo), che dai microfoni di Amazon Prime ha parlato di “problemi profondi”, altro che episodi, essendo tre anni che la Juve si ferma agli ottavi di Champions contro avversari abbordabili (prima del Villareal è stato il turno di Lione e Porto). Quei problemi, strutturali, a partire dagli interpreti a centrocampo, già li conosciamo ed è inutile tornarci qui – quando poi si sommano le assenze dietro di due garanzie come Bonucci e Chiellini, davanti degli unici in grado ci creare qualcosa come Chiesa e Dybala, in mezzo al campo dell’energia grezza del nuovo acquisto Zakaria e di McKennie, le contraddizioni si acuiscono solamente.

Ma la mancanza più grande mostrata ieri sera è in realtà di stampo caratteriale.

Perché il Villareal non ha di certo vinto grazie al bel gioco, anzi. Come spesso gli è capitato, è stato la quintessenza del risultatismo, capitalizzando al massimo ogni ripartenza di un secondo tempo sapientemente anestetizzato, senza nemmeno il bisogno di mantenere il possesso palla. Come cacciatori di frodo gli spagnoli si sono riversati nella metà campo avversaria solo quando il nemico era troppo tramortito per reagire, facendo scorpacciata di gol dopo aver parcheggiato a lungo davanti alla propria porta il loro blindatissimo sottomarino giallo. In poche parole sono stati più avveduti, più maliziosi, più maturi e più consapevoli di una Juve che, mentre il suo allenatore predicava calma, manifestava invece una fragilità emotiva non certo da grande squadra, per usare un eufemismo.



Qui sta il grande errore di Allegri: un errore di valutazione. Stamane si parla molto dei cambi arrivati 10-15 minuti dopo, ed è vero, ma questo è l’effetto non la causa. L’effetto dell’illusione che la Juventus stesse controllando la partita, o meglio che potesse farlo; che avesse la forza, la mentalità e la fiducia per farlo. Nella conferenza pre-partita lo stesso allenatore bianconero aveva dichiarato di allenare “un gruppo granitico”, prospettando una partita da giocare come una finale, da vincere con pazienza, che sarebbe divenuta tattica se la Juve non avesse sbloccato presto il risultato. Concetti condivisibili, per carità, ma c’è da chiedersi quanto fossero fondate le previsioni riguardo la maturità dei suoi di fronte a un match del genere.

Perché se c’è una cosa che ha mostrato ieri la sua Juve, è proprio di non avere la minima idea di cosa significhi giocare con pazienza, di non avere assolutamente l’esperienza per poter vincere una finale, di non saper gestire quelle fasi di match da affrontare sul filo del rasoio. E così viene da chiedersi se non fosse più giusto preparare la partita in maniera differente, magari caricando meno l’ambiente, puntando su un gioco meno nevrotico; ed è lecito interrogarsi sull’atteggiamento della Juventus nel secondo tempo, che ha controllato il pallone ma non la partita, senza mai creare neanche il miraggio di un pericolo (la strategia del Villareal si è dimostrata, nella sua banalità, mille volte più lucida).


Forse, in questo, ha pesato un’altra illusione: quella nazionale, grazie a cui i bianconeri erano reduci da 15 risultati utili consecutivi, e dal miglior ruolino di marcia italiano del 2022. Ecco, possiamo confessarlo: solo ed esclusivamente in Italia la Juventus, questa Juventus, poteva centrare un simile filotto. Un’Italia ormai periferia del pallone, lenta, vecchia e stanca – per non dire scarsa. Un’Italia con 4 squadre su 4 fuori dalla Champions già a marzo, e con le due qualificate in Europa League uscite già a febbraio; un’Italia, infine, che può fregiarsi delle sole Atalanta e Roma in campo internazionale: la prima comunque retrocessa in EL dalla Champions, la seconda ancora in corsa in una coppa rivedibile con sulle spalle il 6-1 incassato dai norvegesi del Bodø/Glimt.

Insomma, chi si fa ingannare dagli stati di forma, dai risultati o dalla competitività del nostro campionato per sviluppare teorie universali (o almeno europee) sbaglia di grosso: i rapporti di forza non si possono lontanamente tradurre dalla periferia al centro. In Europa, soprattutto in Champions League, le logiche sono diverse, così come i ritmi, la qualità e la personalità. Come ha detto ieri sera Clarence Seedorf nel post-partita, uno che di questi confronti se ne intende:

“In Champions il risultato devi andare a prendertelo, non aspettare che arrivi”.

E attenzione, ciò non vuol dire con il “bel gioco”, come oggi rilanciano in molti confusamente – tralasciando il fatto che il Villareal con tutto ha vinto tranne che con un gioco propositivo. Il punto è andare a prendere la vittoria in qualsiasi modo, come Seedorf sa bene: con il carattere, con la personalità, con la consapevolezza; con le giocate individuali o con il gioco collettivo. Ci sono diverse strade per vincere, per andare a prendertelo quel risultato, ma la Juventus non è stata in grado di seguirne nessuna.



D’altronde lo sappiamo, Allegri è un allenatore vecchia scuola, alla Ancelotti: uno di quelli per cui “le squadre si vedono da marzo” (concetto ribadito sempre da entrambi), quando pesano risultati e pallone, quando deve emergere la personalità e la voglia/abitudine di vincere. Peccato che Ancelotti alleni il Real e Allegri invece questa Juve. Perché poi dobbiamo dircelo: la Juventus, soprattutto con le assenze, questa è. Da parte sua, Max ha probabilmente sopravvalutato la capacità dei suoi di saper reggere le pressioni della partita, di interpretarne i momenti; ha creduto che la squadra fosse già matura, e si tratta di un errore di valutazione importante, forse viziato anche dal passato – pure recente – e dalla tradizione della Vecchia Signora.

Un sentire condiviso anche dalla dirigenza, come confermano le parole di Pavel Nedved, che prima della partita aveva chiesto a tutti i giocatori “una partita da Juve”. Ma di quale Juve stiamo parlando? Questo è il punto. Immaginando che il riferimento fosse alla supersquadra vincitrice di nove scudetti consecutivi, viene da chiedersi se una compagine a malapena qualificatasi in Champions lo scorso anno – e quest’anno partita in maniera terrificante in un campionato scadente –possa rispondere in qualche modo a una chiamata alle armi del genere. Poi certo, la ricerca ossessiva della vittoria fa parte della cultura juventina da sempre. Ma se questa cultura la si ostenta troppo a parole di fronte alle telecamere, forse è segno che prima di tutto si stia tentando di convincere qualcuno. Magari se stessi.

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