La fine delle rivalità attraverso la stracittadina all'ombra della Mole.
Questo pezzo è stato scritto spontaneamente, di getto, ma ha radici profonde in un malessere di cui mi faccio portatore da tempo. Non sento più rivalità calcistiche. Niente più odio, niente più dolore per le sconfitte, niente peso sullo stomaco prima del derby, niente di niente. Di questo fatto inizialmente me ne vergognavo, ed anche parecchio. Anzi, non ne facevo parola con nessuno. Mi sentivo inadatto, anomalo, quasi malato. O meglio, quasi del tutto curato dalla malattia che è il tifo. Quella che da ragazzino ti porta ad imparare a memoria tutti gli undici iniziali della Serie A, per cui ti interessi anche alla classifica del campionato di prima categoria in cui milita la tua squadra locale.
Era quella malattia così forte da far rammaricare il me bambino perché il mio miglior amico delle scuole elementari tifava Juve. Io Toro. Nella mia ortodossa ingenuità calcistica vedevo questa rivalità sportiva come una maledizione extraterrena che avrebbe compromesso per sempre il nostro legame. Probabilmente è una sensazione analoga a quella cui Renzo e Lucia si trovarono davanti una volta palesato l’interessamento di Don Rodrigo nei confronti della giovane.
Raggiunti i vent’anni, progressivamente, tutto sparito. Ho cercato spiegazioni, prima in me che all’esterno, perché non è elegante puntare il dito a priori.
Ho sospettato che le mie frequentazioni in ambito artistico, tra luoghi e persone che si rapportano al calcio con ribrezzo, mi avessero in qualche modo fatto disaffezionare dal calcio e dal tifo. Poi, eventualmente, ho capito che le cose stavano come pensavo da principio: non riesco più a tifare perché l’attuale stato del calcio me lo impedisce. Se il calcio è specchio della società, d’altronde, non c’è da stupirsi se anche esso sia diventato, come teorizzato da Zygmunt Bauman, liquido. Lo è la politica che è arte ben più complessa del calcio, perché non dovrebbe dunque esserlo anche il tifo che in fin dei conti altro non è che tribalismo?
Nella tarda modernità in cui ci troviamo immersi che spazio è rimasto per le tribù urbane? Come teorizza il sociologo Andy Bennett, nella post-modernità non possiamo che avere post-sottoculture, in cui gli ideali vengono a meno ed in cui sopravvivono solamente gli aspetti più superficiali, ovvero quelli estetici. Se ci identifichiamo ancora con un colore, uno stemma, una sciarpa o una divisa, cosa rimane invece dei sentimenti autentici, profondi, e viscerali?
In un calcio svuotato di umanità ed umanesimo (inteso come centralità dell’individuo, sia tifoso che calciatore, nello sport) quale rivalità genuina ci si può aspettare, dopotutto?
I Mods non odiano più i Rockers, tantomeno i Paninari, così come le rivalità calcistiche rimangono macchiette nostalgiche su cui costruire innocui sfottò da social media e chat Whatsapp del gruppo del calcetto settimanale. Di conseguenza, mentre nuove generazioni crescono prive diquel senso di appartenenza sottoculturale e/o politica che in passato faceva di molti giovani dei militanti, in alcuni casi anche armati in nome di un ideale, non c’è da stupirsi se le rivalità calcistiche stracittadine siano state diluite fino a renderle per l’appunto liquide, dunque intangibili ed innocue.
L’appartenenza alla curva, già di per sé demonizzata dai media, viene resa attività obsoleta e priva di fascino davanti all’estesa ma piatta offerta di intrattenimento contemporanea. Oggi il Ras della Fossa e Sandrino il Mazzolatore andrebbero a fare l’apericena assieme, altro che spranghe ed inseguimenti in metro. La Lol culture, novello nichilismo 2.0, ci ha rapidamente portati a minimizzare e sminuire tra un meme ed un ‘Ok boomer’ le posizioni di chi ancora vorrebbe battersi per un ideale tribale quale la fede calcistica.
Non solo il tifo, ma il calcio tutto, si è fatto indistinguibile amalgama di mercenari e divise intercambiabili, quasi fossimo davanti ad un non meglio identificati Rossi contro Blu, come al biliardino o nella confezione base del Subbuteo.
La non necessaria presenza del tifo alla ripartenza dei campionati, d’altronde, la dice lunga sulle priorità del calcio di oggi.
Se l’inizio della fine potrebbe essere fatto risalire ad una dozzina di anni fa con Vieri e Maldini imprenditori della moda, siamo certi del fatto che la polarizzazione della ricchezza nel mondo del pallone non ha aiutato a mantenere la fiamma accesa. Molte rivalità storiche – una su tutte quella tra Torino e Juventus – risultano quasi naif quando obiettivi, rose e capitali sono così discrepanti.
Non c’è da stupirsi se gli articoli ed i post pieni di retorica e ridondante aspettativa che anticipano l’ultimo derby della Mole mi appaiono vuoti e distanti. Diventa infatti difficile fare mia tanta enfasi su un tema così obsoleto come una rivalità sbiadita, un po’ come quando la provincia, dopo aver fatto il suo quinquennale o decennale scatto in avanti, si cristallizza su certe mode e modi, mentre la città prosegue spietata la sua famelica corsa al futuro.
Tutto questo superficiale ed abusato scrivere e ricamare su rivalità e romanticismo risulta oggi tanto anacronistico quanto parlare di fascismo e comunismo in una società post-ideologica, eppure anche questi sono termini obsoleti che ci vengono vomitati addosso quotidianamente. Ah, dimenticavo, anche la Serie A, fantasma di ciò che fu, ce la stanno forzando giù per la gola ogni settimana, epurata di ogni sentimento e genuinità.
Il 'Principino' è stato fondamentale per il rilancio della juventinità, qualità indispensabile per ricostruire il ciclo vincente ancora in corso. Apologia di Marchisio, digià dimenticato.
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