Il ritiro ha fatto bene ai bianconeri.
Quel genio irresistibile di Giovanni Arpino scrive che «la Juventus è universale, il Torino è un dialetto. La Madama è un “esperanto” anche calcistico, il Toro è gergo». Ora, senza planare su scivolose metafore stracittadine, è difficile smentire lo scrittore istriano sul carattere cosmopolita della Vecchia Signora. Questa Juventus, vittima dei suoi mostri in campionato, in Europa cambia pelle. 4-2 allo Zenit significa quattro partite e quattro vittorie nel girone. Dodici punti e approdo agli ottavi di finale con due giornate di anticipo. Non accadeva dalla stagione 2004/05, quando in panchina per i bianconeri c’era un altro arcitaliano: don Fabio Capello.
Che ieri ha chiesto ad Allegri, a fine partita, come mai nel primo tempo Chiesa giocasse a destra e Bernardeschi a sinistra. Come se non sapesse, Capello, che la differenza rispetto a Verona (e mettiamoci pure il Sassuolo) non è questione di tattica, ma di testa. La Juventus ha aggredito l’avversario dal primo minuto, esponendosi al contropiede ma avanzando compatta, corta tra i reparti e con almeno sempre tre giocatori pronti a riempire l’area. Sarà l’aria di 4-4-2, sarà anche il ritorno di Chiesa dal 1’ – quando vede la Champions, il 22 bianconero fa paura – e un’altra prova brillante di Paulo Dybala, che ha reso omaggio a Platini superandolo con 106 reti, ma è dell’atteggiamento dell’undici bianconero che il tecnico livornese può sorridere. Come ha scritto Roberto Beccantini, la Juventus ieri sera è stata
coraggiosa e aggressiva. Al di là dei moduli, contano le idee, le gambe, la fame: tutto quello che era mancato fra Sassuolo, Hellas e in altre, sciagurate notti. Quattro su quattro, dunque: la Fiorentina, sabato, ci dirà se siamo di fronte alla classica rondine o a uno stormo.
«Zitti e pedalare», aveva detto Max dopo Verona. «C’è solo da provare vergogna», aveva aggiunto in seconda battuta. Il ritiro, che l’ultima volta (2016) portò a quell’incredibile rimonta scudetto, magari non avrà lo stesso effetto del precedente, ma intanto già fa vedere un cambiamento. Un modulo quadrato ma volto all’attacco (la Juventus ha tirato 26 volte verso la porta avversaria contro lo Zenit), un pressing asfissiante dal 1’ al 90’, la cui costanza è testimoniata dai cambi di Allegri arrivati dopo il 78’ (mai quest’anno il tecnico livornese aveva cambiato così tardi); fluidità di manovra difficilmente paragonabile ad altre sfide stagionali e tanta corsa da parte di tutti. Dai due esterni a Dybala, da Morata ai due centrocampisti, Locatelli e McKennie, forse gli unici insostituibili in un reparto che fa acqua da tutte le parti.
Allegri ha rimproverato ai suoi ragazzi la «gestione dei momenti», perché al di là dell’autogollonzo di Bonucci prendere due gol dallo Zenit, nel contesto di una partita dominata, non va bene. Questa Juventus, che di limiti ne ha tantissimi, non può far altro che lavorare sulla testa. Locatelli, significativamente, ha ribadito il concetto puntando sugli attributi della squadra: «siamo uomini prima che giocatori. I tifosi ci hanno fatto vincere la partita». Ci avevano assicurato un clima da caccia alle streghe in quel di Torino. Non è vero niente, e fa bene Locatelli a sottolineare l’apporto dei tifosi, travolgente ed emozionante fin dai primi minuti. Il ritiro non fa miracoli, ma unisce. La Lazio di Sarri lo ha dimostrato, la Juventus ci ha dato appena un assaggio. Ancora poco, ma è già molto.