Ascesa e dominio del ciclismo britannico, da Tom Simpson a Froome e ai gemelli Yates, passando per Boardman, Cavendish e Wiggins.
La bandiera britannica sventola nell’orizzonte ciclistico da diversi decenni. Questo va detto fin da subito, nella speranza che possa bastare per tenere lontano chi pensa di ridurre al solo doping anni e anni di storia. Si può affermare che l’Inghilterra (e limitrofe) non rappresenti uno dei motori principali della storia di questo sport: è giusto e lecito, ma da qui a considerarla una terra “nuova”, ce ne corre. Il primo grande campione inglese è Tom Simpson. Prima di collassare sul Ventoux (era il 1967), si toglie diverse soddisfazioni: Milano-Sanremo, Giro delle Fiandre, Giro di Lombardia, Campionato del Mondo, Parigi-Nizza, due tappe alla Vuelta e la maglia gialla del Tour de France indossata almeno per un giorno (era il 1962). Da Simpson in poi, l’Inghilterra (da estendere, in alcuni casi, a Gran Bretagna) ha potuto contare su altri buoni corridori: Barry Hoban, Michael Wright, Malcolm Elliott, Sean Yates, Robert Millar (oggi Philippa York, ma questa è un’altra storia), Chris Boardman, Maximilian Sciandri, Roger Hammond, David Millar. Fino ad arrivare, in tempi più recenti, ai trionfi di Mark Cavendish, Bradley Wiggins, Chris Froome ma anche Stephen Cummings, Geraint Thomas e i gemelli Yates. E’ innegabile, però, che il ciclismo britannico ad un certo punto abbia cambiato pelle: da realtà interessante e talvolta vincente, a vero e proprio movimento. Quando e come è avvenuta questa trasformazione?
Le due manifestazioni chiave sono le Olimpiadi del 1992, tenutesi a Barcellona, e le successive, Atlanta1996. Nelle prime, quelle spagnole, la Gran Bretagna colleziona cinque ori. Uno di questi arriva dall’inseguimento individuale su pista: è firmato Chris Boardman ed è la prima medaglia d’oro che il ciclismo britannico conquista dal 1920. Quattro anni più tardi, accade qualcosa di simile. Bronzo nella prova a cronometro, il collo al quale viene appeso il riconoscimento è ancora quello di Boardman. A questo punto, entra in scena Peter Keen, l’allenatore del pistard. Butta giù un dettagliato piano d’azione con due obiettivi: non lasciare niente al caso e invogliare la Lotteria Nazionale Inglese a scendere in campo con importanti investimenti. Le medaglie vinte rappresentano un biglietto da visita niente male. L’idea di Keen suscita emozioni contrastanti: perché puntare così tanto sulla pista lasciando completamente perdere la strada, da sempre la disciplina più popolare e remunerativa del ciclismo? I motivi sono sostanzialmente due. Il primo è legato al momento che il ciclismo su strada stava attraversando tra la fine degli anni ’90 e l’inizio del nuovo millennio: doping, blitz e inchieste giudiziarie erano all’ordine del giorno e spingere verso questo professionismo dei ragazzi appena ventenni equivaleva a condannarli a morte sicura. Il secondo, invece, guarda con maggiore attenzione all’aspetto sportivo: dar vita ad un ciclo e ad una tradizione vincente su pista prevedeva tempi minori rispetto alla strada. Di quattro anni in quattro anni, da Olimpiade a Olimpiade. Il progetto si rivela azzeccato. Tra il 2000 e il 2004, arrivano altre medaglie e il nome di BradleyWiggins inizia a circolare con insistenza. Se su pista i risultati vengono portati a casa con continuità, su strada invece il ciclismo britannico attraversa un momento grigio e apatico. Il biennio 2007-2008 sarà fondamentale.
Nel giro di pochi mesi, la situazione cambia in modo radicale. Il 7 luglio 2007, Londra ospita la Grand Départ del Tour de France, un evento che segna inevitabilmente i luoghi che attraversa. La figura centrale del movimento non è più Peter Keen, bensì DaveBrailsford: in verità la successione risale al 2003 ma è solo dal 2007, dai mondiali su pista di Palma de Mallorca, che inizia una nuova era per il ciclismo britannico. Le Olimpiadi di Pechino 2008 portano in dote altri otto ori (Francia e Spagna, le prime inseguitrici nel medagliere, si fermano a due). Brailsford, come ricorderà a tutti di lì a breve, ha il cuore da stradista: è lì che vuole testare i suoi ragazzi. Gli anni bui sono ormai alle spalle e buttarsi sulla strada non rappresenta più un rischio. Lo sponsor che più di ogni altro ha appoggiato il team olimpico è stato James Murdoch, Mr. Sky. Il passo è breve: nel settembre 2009, il neonato TeamSky ottiene la licenza dell’allora UCI ProTour; qualche mese più tardi, inizierà la sua storia su strada. Il velodromo di Manchester è il cuore della squadra, che nasce con all’interno diversi elementi di spicco del ciclismo britannico. Il caso vuole che Bradley Wiggins, colui che vestirà gli scomodi panni di faro (se non pioniere) del movimento, abbia appena centrato il risultato più incredibile della sua carriera da stradista: quarto al Tour de France 2009.
Dal 2010, anno in cui il Team Sky diventa operativo e viene raggiunto da Wiggins, la scalata al successo è rapida e travolgente. Quest’ultimo, in dieci giorni appena veste la maglia gialla sui Campi Elisi e quella di campione olimpico nelle prove contro il tempo nella sua Londra. Mark Cavendish continua a sfoggiare saggi di cannibalismo con una continuità disarmante (nel 2011 arriverà anche il mondiale). Alle loro spalle, in rampa di lancio, una schiera di corridori di mezz’età pronti al definitivo salto di qualità. Il più pronto di questi è indubbiamente Chris Froome, che dal 2013 a oggi ha conquistato quattro Tour de France, una Vuelta, un Giro d’Italia, senza considerare successi parziali, piazzamenti vari, brevi corse a tappe e medaglie olimpiche e mondiali. E non è finita qui. Una menzione la merita la frangia femminile del movimento, vincente tanto quanto la maschile; atleti del Team Sky (passato e presente) che vengono rammentati troppo poco, da Cummings a Stannard passando per Thomas, Rowe e Kennaugh; e anche quei corridori che battono bandiera britannica ma che non corrono nelle file del Team Sky, i gemelli Yates su tutti. La cultura del pedale si è ormai radicalizzata e infatti, all’orizzonte, si intravedono già talenti cristallini (Tom Pidcock è solo il più impressionante). La pista, intanto, non ha minimamente risentito dell’attenzione rivolta alla strada.
Ovviamente, la rapida ascesa del movimento britannico ha avuto anche dei passi falsi, che talvolta si sono trasformati in vere e proprie zone grigie. Trattandosi di ciclismo (la combinazione ciclismo+successo, poi, è devastante dal punto di vista mediatico), non si può non parlare di doping. A riguardo, va detto che il Team Sky, il quale condivide con la pista ambienti e strutture, raramente si è speso nel mettere a tacere certe questioni. Tra le più note, ricordiamo l’attacco hacker alla banca dati della Wada che svelò i TUErilasciati a Wiggins (si parlava di triamcinolone, un cortisonico) tra il 2011 e il 2013, e ancora la famosa borsa che venne recapitata al non-ancora-baronetto durante il Giro del Delfinato del 2011: cosa c’era al suo interno? Triamcinolone? O semplicemente del Fluimucil, come sostiene Brailsford? Altre due figure controverse sono Brian Cookson e Shane Sutton. Il primo, presidente UCI dal 2013 al 2017, non verrà certo ricordato per la gestione lungimirante e rivoluzionaria. I più maliziosi vedono in lui, inglese, la figura che ha permesso al movimento britannico di esplodere, tutelandolo e garantendo per esso. La questione dell’Adverse Analytical Finding notificato a Chris Froome (quello relativo al salbutamolo e alla Vuelta 2017) non aiuta di certo: erano i giorni in cui Lappartient succedeva a Cookson, ed è fin troppo facile immaginarsi lo scenario del castello che crolla e del vaso di Pandora che viene scoperchiato. Shane Sutton, invece, ha ricoperto ruoli di primo piano tanto nel Team Sky quanto nella Federazione Inglese. È stato sospeso nell’aprile 2016: secondo testimonianze dei diretti interessati, avrebbe usato parole poco ortodosse nei confronti di Jessica Varnish e di alcuni atleti paralimpici. Anche le metodologie utilizzate nell’ambiente hanno fatto storcere il naso. Il ciclismo britannico si avvale di studi estremamente specifici tanto dal punto di vista atletico e sportivo, quanto da quello psicologico. Le pressioni sono forti, tanti gli atleti che nel corso degli anni sono crollati. Ogni corridore viene costantemente monitorato, osservato, studiato; richiamato, se necessario. C’è chi parla di selezione darwiniana: dei circa settanta apprendisti che ogni anno vengono scelti per la pista, soltanto otto andranno a comporre il team olimpico. Sia chiaro: lo sport è una cosa seria e che, oggigiorno, concede un margine di errore ridotto all’osso. Più volte, però, i metodi usati dai britannici hanno fatto discutere. La punta dell’iceberg è sicuramente rappresentata dai “marginal gains”, filosofia che viene interamente attribuita a Brailsford ma che in realtà mutua dalla cultura giapponese, e che in passato ha influenzato colossi come Toyota e Ford. Se migliori anche solo dell’1% ogni aspetto che riguarda il pedalare, se riesci ad avvicinarti il più possibile a quel limite, se riesci a spostarlo anche solo una tacca più in là: ecco, tutti questi piccoli accorgimenti diventeranno fondamentali e decisivi una volta sommati. Questa, in parole povere, è l’idea di fondo.
Come abbiamo visto, la Gran Bretagna e il ciclismo hanno un rapporto antico, fatto di esperienza e buoni risultati. Il boom avvenuto nell’ultimo decennio non è casuale: è frutto di investimenti, competenza e di una mentalità che non ha eguali. Sarà la storia a dirci quanto questo approccio sia rimasto nei limiti fissati dalle leggi in materia. Fino ad ora, va detto per una questione di chiarezza e onestà, ci sono stati tanti piccoli episodi ma poco o nulla di netto, eclatante o sconvolgente. David Walsh, il giornalista che fece saltare il sistema di Lance Armstrong e che non vede di buon occhio il colosso britannico, ci è andato giù pesante dalle pagine del Sunday Times affermando che le vittorie di Bradley Wiggins andrebbero registrate con accanto un asterisco (come a dire che non avrebbero resistito alla storia). In un altro passaggio, invece, ha sintetizzato in poche parole quello che da anni viene imputato al Team Sky: “Quello che fanno è legale, ma non è giusto”. Qual è il confine tra legale e illegale, giusto e sbagliato, etica e risultato?