Kim Duk-Koo nasce nel 1955 nella provincia sudcoreana di Gangwon, tra chilometriche spiagge e fitte pinete verdi, piantate dai nativi ad un passo dalla costa per arginare la brezza marina. Ultimo di cinque fratelli, Kim cresce in una famiglia che, come tante altre coreane negli anni successivi alla sanguinaria Guerra di Corea, si trova in assoluta povertà; una condizione aggravata ulteriormente nel 57’, quando il padre e capofamiglia muore prematuramente. Il piccolo Duk-Koo, nelle affollate strade di Chuncheon, si barcamena, fa il lustrascarpe, vive di espedienti. Finché alla metà degli anni settanta, in una Corea del Sud in costante contraddizione tra la travolgente crescita economica, dopo la guerra fratricida, e la repressione culturale, civile e politica del dittatore Park Chung-Hee, Duk-Koo scorge una vetrata, dietro la quale vede imberbi ragazzi colpire a cazzotti, ritmicamente, dei grandi sacchi neri. Così scopre la nobile arte del pugilato.
LA RIVALSA
Kim Duk Koo entra in palestra, attratto dall’atavica passione che la nobile arte infonde a chi è destinato ad essa. Fisico longilineo e nervoso, 168 centimetri ed un ingenuo sorriso, pare un ragazzo come tanti. Sul ring però la storia cambia. Kim Duk Koo è di un’altra pasta: frenetico, con una cadenza gattesca e un cardio costante. Le braccia mulinano agilmente e i pugni sfoderano una vigoria selvaggia. Dimostra di essere anche un buon incassatore, virtù necessaria per il suo stile di combattimento impavido; non indietreggia mai, avanza a testa bassa e pressa l’avversario, come se fare un passo indietro significasse cedere alla vita. Gli allenatori lo introducono al pugilato amatoriale e, nei palazzetti del Paese, il nome di Kim Duk Koo inizia a circolare.
In breve tempo la sua carriera dilettantistica segna un confortante 29-4, sufficiente per tentare il salto nei professionisti.
Il 7 dicembre del 1978, a Seoul, Duk Koo vince ai punti il suo primo incontro dominando Myung-Soo Park, un boxer di vecchia data. Gli spettatori inneggiano l’esordiente che festeggia l’inizio della sua rivalsa. Il volto del pugile è radioso, nonostante gli occhi incupiti da una melanconia genetica. Il giorno seguente combatte nuovamente, vincendo. L’indomani Duk-Koo si prepara al terzo incontro consecutivo, affronta Jong-Sil Lee e perde l’incontro ai punti, sfibrato dai combattimenti dei giorni precedenti: l’unica macchia nella sua prima parte di carriera. In questi giorni confusi di pugni e sudore, gli viene attribuito il soprannome di Gidae: l’intuizione.
LA CARRIERA PROFESSIONISTICA
La carriera di Kim Duk-Koo prosegue spedita. Eccetto un controverso pareggio con il connazionale Chang-Pyo Kim, il pugile di Gangwon non fa altro che vincere: Conquista il titolo nazionale coreano dei pesi leggeri, nel 1980, e dopo aver sostenuto ritmi infernali (con 14 incontri in meno di tre anni) nel febbraio dell’82 vince il titolo asiatico dei pesi leggeri. Lo fa in un’arena gremita, trionfando per decisione unanime al termine di 12 riprese e strappando la cintura più prestigiosa del continente asiatico dalle mani del connazionale Kwang-Min Kim. Il suo record, dopo tre difese titolate, si compone di un esaltante 17-1-1. E la sfilza di vittorie fa sì che anche oltre oceano si accorgano dell’esistenza di Gidae.
Uno dei burattinai della boxe mondiale, Robert Arum, detto Bob, è alla ricerca di un avversario per il suo pupillo, neo campione WBA dei leggeri: Ray “Boom Boom” Mancini, il cui volto sfacciato e il sorriso malizioso conquistano le copertine dei giornali sportivi. Mancini, pugile statunitense di origini siciliane, è fulmineo, intelligente, forte, ferocemente aggressivo. Dopo innumerevoli vittorie, ed una sconfitta per il titolo WBC contro la leggenda Alexis Arguello, conquista a soli 21 anni il titolo mondiale dei pesi leggeri WBA, battendo Frias per KOT alla prima ripresa, e lanciandosi nella stratosfera della grande boxe.
Bob Arum e la federazione pugilistica statunitense desiderano un profilo dignitoso, internazionale, bravo ma non al punto da poter scalfire il regno della nuova stella della boxe.
Scelgono Kim per la prima difesa titolata di Boom Boom, ritenendo lo sconosciuto atleta asiatico la perfetta vittima sacrificale per il giovane talento made in USA. Per Duk-Koo è l’opportunità della vita, mentre Mancini è affascinato dalla sfida con un pugile di una scuola così lontana. Tutti gli addetti ai lavori danno per scontato il trionfo del pugile di Youngstown, al primo round. Tutti, tranne Mancini, che teme saggiamente la rabbia, la fame e la volontà del giovane Kim. “The fight will be a war”, ripete.
LA GUERRA DEL CAESARS PALACE
Kim aveva combattuto fuori dai confini coreani solo una volta, a Manila, nelle Filippine. Prima di partire alla volta degli Stati Uniti, bacia la madre e la fidanzata, incinta del suo primo figlio. Il suo sguardo non ammette repliche. Nelle settimane che precedono la lotta, Kim è in uno stato di concentrazione ai limiti dell’alienazione. Alcuni giornalisti riportano addirittura di aver sentito Duk-Koo pronunciare la frase “O muore lui o muoio io”. In una delle notti prima dello scontro, il giovane coreano osserva le luci screziate di Las Vegas dalla vetrata del suo albergo. Ai suoi piedi vi è un mondo diametralmente opposto al paesaggio ameno di Gangwon, con la soffice brezza marina a pettinare le pinete. Prima di coricarsi Duk Koo impugna una penna e scrive sul paralume della lampada della sua stanza “vivere o morire”.
Kim Duk-Koo non è un pugile che vuole conquistare la ribalta internazionale. È un uomo in missione.
L’incontro si svolge in un’arena esterna al Caesars Palace di Las Vegas, sotto un sole radioso. Nell’indifferenza generale Duk-Koo sale sul ring: guantoni rossi, vestaglia gialla. Zampilla da un lato all’altro del ring, sciogliendo i muscoli delle braccia, con il volto serioso e saturnino. Il pubblico, con colpevole ritardo, comprende che quel ragazzo anchilosato è lo sfidante: lo subissa di fischi. Poco dopo entra in scena il campione, Ray Mancini, con il cappuccio alzato a celare il volto mediterraneo e i capelli corvini. Gli spettatori esplodono in un boato. A bordo ring analizza i dettagli dei due contendenti l’iconica voce di Gil Clancy, accompagnato dalla leggenda Walker Smith Jr., entrato nei libri di storia con il nome di “Sugar” Ray Robinson.
Clancy sentenzia il risultato scontato dell’incontro, mentre sventolano fiere le bandiere a stelle e strisce. Il ring announcer Chuck Hull introduce i due combattenti. “The main event of the afternoon, for the WBA lightweight world title”. Intona il nome dello sfidante, ricoperto ancora da mugugni. Duk-Koo agita la testa convulsamente, come se il suo collo fosse una molla impazzita; alcuni presenti sogghignano. Poi si ferma, sul volto stampata un’espressione serena. Alza il pugno, accennando un sorriso. Finalmente l’occasione di una vita. Vivere o morire. Il nome del campione è scandito da una memorabile ovazione.
Dopo i convenevoli l’incontro comincia. Il primo round è stordente. Kim fa capire quanto male veste i panni di vittima sacrificale, partendo all’attacco con un’energia che scuote Mancini: il coreano evita un diritto destro e rifila un preciso quanto potente gancio che fa sussultare sia il campione che l’intera platea.Kim è richiamato dall’arbitro, Richard Green, che ritiene la sua avanzata a testa bassa scorretta. Lui si scusa, inchinandosi. Quel gesto, cordiale ed elegante, sfumatura della millenaria cultura asiatica, stona meravigliosamente con la sua irruenza animalesca. Ma il primo, epico, round del sudcoreano non è un fiore nel deserto. I due boxer si sfidano a viso aperto: Mancini pulito e preciso, Kim rapido e a tamburo battente, meno raffinato dell’avversario ma altrettanto efficace. Anche Sugar ammette quanto sorprendente sia la prestazione dell’asiatico. “He is a very strong guy”.
Durante il settimo round, nell’apoteosi della prestazione del coreano, il tintinnio della campanella salva il campione dall’assalto di Kim, con l’americano chiuso ermeticamente nella sua guardia. Non tutti i colpi giungono a destinazione, ma la quantità di colpi che Kim riesce a sferrare (scoprendosi e beccandosi molti diretti di rimessa) rende impossibile schivarli tutti, anche per un pugile atletico e tecnico come Mancini. Nel suo angolo il coreano è imperturbabile: lo zigomo sinistro emaciato e il volto gonfio. Il campione, però, sembra messo peggio: l’orecchio sinistro è lacerato e l’occhio sinistro tumefatto.
All’ottavo round, però, l’irruenza barbara di Kim scema per la fatica e l’inerzia del match vira verso un pimpante Mancini.
Il coreano comunque non indietreggia, ma questo gioca a favore di Mancini, che lo ha sempre sotto tiro, specialmente con il poderoso diritto destro. L’ultimo guizzo di Kim è un montante sinistro, nel nono round. I due round successivi sono un massacro: Kim è piegato dallo sfiancamento, Mancini arriva con accuratezza chirurgica sul suo volto. Alla fine dell’undicesimo round finisce al tappeto, stordito dalla furia del boxer americano. Si rialza, arrancando. Dodicesimo e tredicesimo round sono una lenta agonia per Duk-Koo. In quest’ultima frazione Mancini sferra 39 colpi: Duk-Koo, però, non arretra d’un passo che sia uno. Guardia alzata e aggressività belluina.
LA FINE
Mancini è ora sereno, prima della penultima frazione; agita il paradenti, scuotendo la testa, come un animale pronto all’attacco. All’angolo opposto Kim, il cui volto è deformato e violaceo per la raffica di pugni assorbita, annuisce stancamente al proprio coach. Gli occhi a mandorla chiusi dal gonfiore. Spesso china la testa, come fosse sul punto di addormentarsi, poi la solleva di scatto. La campanella del quattordicesimo round rintocca. È l’ultimo squillo della carriera di Kim Duk-Koo, ma anche della sua vita.
I due guerrieri lottano ancora come selvaggi, si scambiano brutalmente colpi su colpi. Mancini scaglia un gancio sinistro alle tempie del pugile coreano, che ciondola. Altro gancio. Poi un diritto destro, perfetto. La luce di Kim si spegne: frana al suolo. La testa batte sul ring, provocando un tonfo sordo. Kim si issa ghermendo con forza le corde, in uno slancio di disumana volontà: le gambe vacillano, e il corpo trema come una foglia inghiottita dal vento. Richard Green interrompe la contesa. TKO. Vittoria di Mancini. Il ring è invaso dai giornalisti e dalla squadra dello statunitense, che solleva Ray sopra un trono di braccia. Il pubblico esulta. La regia inquadra il sorriso del padre del campione, Lenny, la cui carriera pugilistica fu stroncata da una granata durante la seconda guerra mondiale.
Mentre Duk-Koo, nell’angolo, si accovaccia su sé stesso con occhi assenti.
Il campione gira per il ring con la cintura dorata stretta alla vita. Prima di essere intervistato, Ray tenta di avvicinare l’angolo del coreano per stringergli la mano: impossibile. Quella porzione di ring è intasata da volti atterriti. Il vociare di un malore dell’atleta coreano si diffonde. Il telecronista bofonchia “we hope that the young man is alright”. Kim perde i sensi. Entra in coma. Mancini si complimenta con l’avversario al microfono del giornalista di turno, abbracciato dai genitori. Duk-Koo è trasportato fuori dal ring, in barella, tra il baccano del pubblico e medici indaffarati. È incosciente. Occhi chiusi, volto enfio. Petto fasciato dalla cintura della barella. Braccia a penzoloni che sfiorano il pavimento.
MORTE E CONSEGUENZE
“One of the greatest physical feats I had ever witnessed”, dichiara settimane dopo il giornalista Ralph Wiley, presente a bordo ring, parlando del gesto di Duk-Koo di risollevarsi, a dispetto delle gravi condizioni. Quattro giorni dopo il match, al Desert Springs Hospital la vita di Kim Duk-Koo, nonostante i tentativi dell’equipe medica, si spegne. Il neurochirurgo, l’indomani, dichiara ai giornali che l’ematoma è stato causato da un singolo pugno, probabilmente l’ultimo diritto destro di Mancini. Un solo colpo tra decine e decine. Un solo maledetto pugno. E la nobile arte del pugilato muta persempre.
La vicenda avviluppa l’intero mondo pugilistico, e perseguita gli involontari protagonisti. La madre di Duk-Koo, partita subito per gli Stati Uniti per assistere il figlio, tre mesi dopo si suicida per l’insostenibile dolore. L’arbitro dell’incontro fa lo stesso, un anno dopo, straziato dai sensi di colpa di non aver arrestato la contesa. Ray Mancini, sul trampolino di lancio per diventare uno dei nuovi fari della boxe mondiale, cade in una profonda depressione che, sostanzialmente, mina la sua carriera. Due anni e perde il titolo mondiale. Il suo agente, Bob Arum, afferma che dopo quel giorno
“Ray has never been the same”.
«Ero sdraiato sul letto in hotel con la borsa del ghiaccio su un occhio, mi si avvicinò il mio allenatore con un’espressione seria e mi disse: “Ray, il tuo avversario è in pericolo di vita, devi prepararti al peggio”. Ma io non mi ero neanche accorto che Kim lo avessero portato in ospedale. Guardai le mie mani e mi chiesi: come è potuto succedere? Non ci potevo credere. Pensai che avrei potuto essere io al suo posto. Nel giro di un paio d’ore, passai dal momento più esaltante della mia vita alla disperazione più profonda».
Il mondo scopre in diretta mondiale il lato oscuro della boxe. Una mortalità che aleggia nei palazzetti e negli stadi come un’imminente catastrofe annunciata. Gli spettatori comprendono che i leoni sul ring, inneggiati e glorificati, possono rimetterci la vita per una raffica di pugni, talvolta per uno soltanto. Come sempre in questi casi parte la gogna mediatica, che fa correre ai ripari le federazioni pugilistiche nel tentativo di eliminare il rischio di decessi sul quadrato. Un’intenzione nobile, ma irrealizzabile per una disciplina la cui componente di pericolo è impossibile da sradicare – e che, probabilmente, rende la nobile arte così ammaliante agli occhi degli appassionati.
Quello che resta del tristemente celeberrimo Mancini vs Kim del novembre del 1982 sono macerie, tristezza e una dolorosa scia di morte. Ma la storia di Kim Duk-Koo è anche quella di un giovane ragazzo del Gangwon che, in direzione ostinata e contraria, ha preso a cazzotti la vita e un destino già segnato, fino a giungere sul palcoscenico più importante della sua disciplina. Un’audacia antica di un atleta puro, un uomo in missione che era disposto a tutto per provare a vivere veramente, anche a non veder nascere suo figlio. “Vivere o morire”: come aveva scritto sul paralume della lampada, accanto al letto, la notte prima del suo ultimo incontro.