Un dettaglio non da poco nell'epoca dei ruoli (e dei calciatori) liquidi.
A guardarlo da lontano, Filip Kostic non ha niente di speciale. Il suo sguardo è freddo e forastico e sulle sue guance cresce una lanugine molle ed incostante. È alto più di un metro e ottanta, eppure non sembra. Il suo fisico nerboruto rende il suo incedere pesante, quasi difficoltoso. Non ha tatuaggi e usa di rado i social network. Il suo profilo Instagram è spoglio e, se tra le sue foto non comparisse un pallone ogni tanto, nemmeno si direbbe che è un calciatore professionista. Durante le poche interviste che rilascia spesso balbetta in maniera impacciata e guarda verso il basso. È timido e riservato e ama i riflettori soltanto se illuminano il prato verde.
Nei suoi occhi brilla una fioca luce inconsueta: è famoso, ma sembra quasi non volerlo essere.
Il suo stile è spoglio, desueto. La sua corsa è autorevole, ma sgraziata. Kostic non gioca a calcio per il piacere di farlo e nemmeno per prolungare la sua infanzia. È un esterno atipico: non è un solitario e nemmeno un esibizionista. È come il Batistuta di Valdano: “non dribbla perché non lo sa fare, non inventa perché non è la sua specialità e non polemizza perché si distrae”. Kostic non ha niente di speciale, eppure i suoi allenatori non rinunciano mai a lui.
La sua carriera cambia quando Adi Hütter, a Francoforte, lo fa diventare un esterno sinistro di fascia a tutto campo. Da allora, Kostic ricerca il fondo del campo come un uccello fa col suo nido: sente di appartenergli e di dover tornare a esso ogni volta che può. È come se Kostic, per incidere davvero, avesse bisogno di far fatica. Di ricercare lo stress, di inseguirlo e di lottare costantemente con esso. La sensazione è che per lui non farebbe differenza se il campo fosse lungo 100, 200 o 300 metri: Kostic giocherebbe sempre allo stesso modo. Ecco perché le sue caratteristiche si sposano così bene con la filosofia calcistica di Massimiliano Allegri.
Perché Kostic gioca un calcio semplice, anacronistico. Perché è un uomo che ha compreso che nella vita esistono le categorie e che ha accettato il suo umile destino: stare zitto, correre e portare la palla a quelli più bravi là davanti.
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Con Kostic è come con la vecchia imbellettata di Pirandello. Quando lo vedi la prima volta ridi. Poi però capisci. Capisci che i suoi cross insistiti sono quelli di un metodico, un professionista che ricerca la perfezione in ogni piccolo gesto. Un artigiano di una tecnica oramai perduta: il cross. A volte quando arriva sul fondo sembra contare i suoi passi, come fa un tuffatore quando è in pedana o un tennista prima del suo servizio di battuta.
Kostic ha sempre tutto sotto controllo: ritmo, forza e coordinazione. Ogni pallone che butta in mezzo all’aria ha in sé una sfumatura di speranza, un promettente anelito di successo. Tanto da riuscire in un’impresa unica: rendere imprevedibili azioni che all’apparenza non lo sono. Ecco cosa lo rende un unicum: ricercare (e trovare), parafrasando Victor Hugo, lo straordinario nel profondo dell’ordinario.
In un calcio sempre più monotono e ipertattico, anche un cross fatto bene è acqua nel deserto.
“Si sbagliano di brutto quelli che credono che le misure fisiche e gli indici di velocità e di forza determinino l’efficacia di un giocatore di calcio, come si sbagliano di brutto coloro che credono che i test di intelligenza abbiano qualcosa a che vedere con il talento o che esista una qualche relazione tra la misura del pene e il piacere sessuale. I buoni giocatori di calcio possono non essere dei titani scolpiti da Michelangelo e anche molto meno.
Nel calcio, l’abilità è più determinante delle condizioni atletiche, e in molti casi l’abilità consiste nell’arte di trasformare i limiti in virtù”.
E. Galeano, Splendori e miserie del gioco del calcio
Kostic non sarà mai Didì, che trattava la palla con lo stesso affetto che nutriva per sua moglie. E neanche Kopa, che disegnava arabeschi per il campo. È e sarà sempre un giocatore essenziale, di quelli che fanno giocare meglio chi ce li ha. Più di tutto, è e sarà sempre un uomo umile che ha compreso il suo posto nel mondo. Forse, a ripensarci meglio, è proprio questo il suo pregio più grande: non avere niente di speciale ed essere straordinariamente normale. Che, come diceva qualcuno, è oramai un’impresa eccezionale.