Un’arte marziale nata sulla strada, divenuta bandiera ideale di un intero popolo.
Ogni popolo, nel corso dei secoli, ha assunto dei tratti distintivi che l’hanno reso unico rispetto agli altri. Caratteristiche influenzate anche, e soprattutto, dagli eventi storici e dalla reazione dei popoli. Quando si parla del popolo ebraico, il primo fattore che viene subito in mente è l’incredibile capacità di adattamento. Combinata ad un’ostinazione e ad una resilienza senza eguali, questa capacità ha permesso agli appartenenti del “popolo eletto” di resistere ai duri colpi che la storia ha loro inferto. Una lunga rotta, lastricata di difficoltà, coronata con la creazione e la difesa dello Stato d’Israele.
L’orgoglio e lo spirito di appartenenza che gli israeliani nutrono verso la terra di cui sono diventati padroni vanno a braccetto con la combinazione accennata in precedenza. Non a caso, dunque, l’arte marziale israeliana per antonomasia nasce sulla strada, dalla precisa necessità di far fronte alle difficoltà della vita di tutti i giorni. Per conoscerne le origini bisogna tornare indietro alla seconda metà degli anni ’30 del secolo scorso, periodo in cui l’antisemitismo era una realtà consolidata in gran parte dell’Europa, in particolare nell’Europa centrale.
La Cecoslovacchia ad esempio, caduta sotto il dominio nazista, fu una delle nazioni più coinvolte nelle politiche discriminatorie. E proprio nella Bratislava di quegli anni Imre Emerich Lichtenfeld si ritrovò a combattere ogni giorno contro gruppi di giovani hitleriani.
“Quando le gang della Hitler-Jugend cominciarono ad aggredire noi ebrei per le strade, la vita ci mise di fronte due opzioni: reagire o scappare. Io scelsi di reagire”.
Il Krav Maga nasce da questa presa di coscienza. In ebraico moderno, il termine Krav Maga significa “lotta di contatto” ed è proprio ciò che Imi Lichtenfeld e compagni facevano. Il lottatore di origini ungheresi, con un solido retroterra di lotta libera e pugilato, iniziò a riunire gruppi di ebrei preparati nella lotta per reagire alle spedizioni punitive naziste. Fu così che nacque una versione rudimentale di quest’arte marziale, che prevedeva come principio base la simultaneità di difesa e attacco, ottenuta grazie a movimenti naturali.
“Sebbene non fosse solito usare la violenza, era un’iradiddio quando veniva provocato”.
Così scrive John Bierman a proposito del compagno Imi nel suo libro Odyssey, una cronaca della fuga degli ebrei dall’Olocausto. Lichtenfeld, figlio di un poliziotto maestro nelle arti marziali (suo padre Samuel aprì nel 1906 una scuola di Jiu Jitsu denominata “Ercole”), capì subito che quelle guerriglie urbane differivano totalmente da ciò a cui era abituato in palestra. Affinò quindi la nuova arte marziale attraverso la pratica, introducendo in ogni confronto nuovi accorgimenti. Uno di questi è tutt’oggi universale: mai utilizzare due mani nella stessa mossa difensiva. Osservando degli allenamenti di Krav Maga, si può notare come questo principio sia rimasto imprescindibile. Nelle tecniche di disarmo, ad esempio, con una mano si gira il carrello mentre con l’altra si sfila la pistola dallo stesso.
Ad essere ancora più precisi, la prima versione del Krav Maga era definita “Kapap”, ovvero “combattimento faccia a faccia”. Una versione più evoluta vide poi la luce nel dopoguerra. Lichtenfeld, finite le ostilità in Europa, riuscì ad imbarcarsi sul Pentcho, l’ultima nave che partì dalla Cecoslovacchia verso la Palestina. Dopo una serie di peripezie, nel 1942 arrivò a destinazione.
A causa di un’infezione all’orecchio trascurata rischiò seriamente la morte; tuttavia nel corso di due anni si rimise in sesto e nel 1944 subentrò come uno dei principali addestratori del Palmach, un apparato paramilitare degli Yushiv durante la penetrazione nella Palestina britannica, che si rivelò decisivo nella guerra del ’48 (gran parte degli ufficiali comandanti del Palmach poi formarono l’esercito regolare israeliano). Fu in questo periodo che il combattente nato a Budapest ebbe modo di affinare i movimenti e la filosofia della sua arte marziale.
Dal punto di vista prettamente tecnico, il Krav Maga non ha nessuna regola base; per via di questa caratteristica, è la miglior arte marziale che si possa apprendere sul breve termine (si apprende molto più in un mese di allenamenti di Krav Maga che in trenta giorni di esercitazioni di pugilato o altri stili di lotta). Coloro che praticano il Krav Maga, tuttavia, sostengono che l’obiettivo di quest’arte non sia vincere un combattimento, bensì evitarlo.
Essa rappresenta un ibrido dal momento che il suo retaggio è legato a discipline come Muay Thai, Judo e il Jiu-Jitsu. Si predilige la lotta in piedi e, grazie alle leve e alle rotazioni, chi pratica Krav Maga sa essere efficace anche contro avversari ben più grossi. Oggi gli insegnanti hanno implementato diversi stratagemmi per restituire uno scenario quanto più realistico possibile: il bendaggio dell’allievo, la pratica della tecnica solo dopo un allenamento fisicamente e mentalmente stressante (per calarsi meglio in un’evenienza concreta), quindi l’allenamento outdoor su varie superfici.
Come in ogni arte marziale, la componente mentale fa la differenza. Chi pratica il Krav Maga impara a distinguere l’aggressività emotiva da quella fisica, allontanandosi dalla prima per abbracciare totalmente la seconda.
“Un allievo dev’essere mentalmente pronto, cosicché non vada mai nel panico. L’autodifesa è educativa: il mio compito è rendere l’allievo una persona migliore, non una persona aggressiva”.
Dietro i movimenti e i colpi del Krav Maga c’è una precisa analisi di ogni aspetto: in primis dell’ambiente circostante, quindi dei punti più vulnerabili dell’avversario e degli oggetti contundenti a sua disposizione, in particolare delle armi bianche. Ad esempio si insegna che in un coltello a lama fissa, la parte più pericolosa non è la punta né la lama, bensì il manico, in quanto può facilmente essere usato per colpire gli occhi. Altri punti vulnerabili vengono considerati la gola, le costole, le dita e le ginocchia.
Il Krav Maga è emerso definitivamente a partire dal 1949. Lichtenfeld in quell’anno si affermò come maestro dell’IFD (Israelian Force Defence), servendo per vent’anni per poi ritirarsi dall’esercito. Tra gli altri Lichtenfeld addestrò gli agenti speciali del Mossad, il principale servizio segreto israeliano. Quattro dei dodici agenti che catturarono nel 1960 il colonnello nazista Adolf Eichmann a Buenos Aires, poi processato a Gerusalemme (processo di cui parla anche la filosofa e sociologa ebrea Hannah Arendt nel suo libro “La banalità del male”), vennero addestrati da lui.
Colui che si occupò della cattura in prima persona fu Zvi Malkin, uomo eclettico e cinica spia. In pieno rispetto dei princìpi del Krav Maga, agì disarmato affidandosi “al senso comune, all’immaginazione e alla capacità di improvvisare”: un vero e proprio manifesto ideale.
Gli agenti del Mossad hanno sempre avuto un’educazione militare e marziale di altissimo livello, e la furtività con cui sono costretti ad agire in situazioni al limite ben si sposa con gli insegnamenti del Krav Maga. Quando nel 1954 una squadra operativa si occupò delle ricerche di Alexander Ivor, ex ufficiale della Marina d’Israele diventato informatore per l’Egitto, bisognava impedire che Ivor prendesse un volo da Roma (dove si era rifugiato) per Il Cairo. Il ramsad Isser, capo del Mossad, nell’impartire ordini alla squadra operativa si raccomandò di evitare scene teatrali e disse loro:
“Ivor non deve salire su quell’aereo. Inscenate una rissa, immobilizzatelo, feritelo se necessario”.
Questa sarebbe stata l’extrema ratio, senza mai forzare la mano ricorrendo ad armi e operazioni plateali. Un’altra dimostrazione dell’utilità pratica degli insegnamenti del Krav Maga si può ricondurre ad un episodio datato 29 gennaio 1971 che coinvolse Meir Dagan, ramsad dal 2003 al 2011 e abilissimo nel calcio del coltello. Durante una ronda in un campo profughi palestinese, il veicolo su cui viaggiava Dagan incrociòun taxi all’interno del quale riconobbe Abu Nimer, pericoloso terrorista arabo. Nimer, che si accorse del pericolo, scese dal taxi brandendo una granata, alla quale aveva tolto una delle sicure.
Con un invidiabile sangue freddo, prima Dagan urlò ai commilitoni di stare attenti, poi si gettò a capofitto sul terrorista, scippandogli la bomba e mettendolo spalle a terra. La leggenda narra che in seguito Dagan lo abbia anche ucciso a mani nude. Proprio questo spaccato di vita reale mette in luce un insegnamento teorico del Krav Maga: la componente psicologica è fondamentale.
Negli anni ’70 il Mossad salì alla ribalta dei notiziari sportivi quando si occupò di eliminare tutti i terroristi di Settembre Nero, l’organizzazione che causò 11 morti israeliani nell’attentato al villaggio olimpico di Monaco ’72. L’eliminazione fisica dei principali componenti del gruppo giordano, che prese il nome di Operazione Ira di Dio (o operazione Baionetta), richiese diversi anni e passò alla storia come il lavoro più efferato compiuto dai servizi segreti d’Israele. Ogni obiettivo aveva un proprio dossier dedicato ed una squadra dedicata, supervisionata dall’allora primo ministro Golda Meir.
L’ultimo ad essere ucciso fu nel 1979 il responsabile diretto dell’attentato di Monaco, Ali Hassan Salameh, denominato “Principe rosso”. Ma non prima di un clamoroso scambio di persona passato alla storia come “Affare Lillehammer”. Nel maggio del ’72 un cameriere marocchino, Ahmed Bouchiki, fu scambiato proprio per Salameh e freddato sotto gli occhi della moglie. Questa svista fu un’onta per il Mossad, in un brutale omicidio di un innocente totalmente estraneo alla vicenda.
Dagli anni ’60 in poi il Krav maga è stato insegnato anche ai poliziotti ordinari, e nel 1978 Lichtenfeld aprì la prima scuola dedicata a civili. Per le dinamiche d’origine, il Krav Maga non può essere considerata un’arte marziale classica, dal momento che non è praticata su nessun tappeto specifico e non è nata in palestra, ma dalle necessità di una quotidianità tormentata. È combattimento nella vita di tutti i giorni, tanto che gli stessi maestri del Krav Maga sanno bene che quest’arte è sempre esistita. Si tratta di lotta per la vita, allo stesso tempo intima e collettiva: proteggere sé stessi e successivamente anche la Nazione.
Nel corso degli anni la tecnica del Krav Maga è stata esportata anche all’estero. In Italia ci sono diverse scuole, e anche negli Stati Uniti questa ha avuto un discreto successo. Proprio negli USA alcuni osservatori hanno rintracciato delle somiglianze tra le tecniche utilizzate dall’esercito israeliano e la modalità con cui Derek Chauvin ha brutalmente ucciso George Floyd nel maggio scorso, facendo pressione col ginocchio sulla sua testa.
Sono state messe alcune immagini a confronto ed è innegabile che una matrice comune ci sia, sebbene il Krav Maga originariamente non prevedesse l’uccisione. Nel corso dei decenni, tuttavia, la filosofia dietro questa tecnica di combattimento ha visto dei cambiamenti sostanziali. Nella puntata dedicata a Israele del documentario Fightworld, un approfondimento su varie arti marziali in giro per il mondo trasmesso da Netflix, Eitan Cohen, maestro di Krav Maga della squadra anti-terrorismo d’Israele, ha infatti esplicitamente dichiarato:
“Il Krav Maga non è uno sport e non è salutare […] in pratica nel Krav Maga si impara quello che può aiutarmi ad uccidere qualcuno”.
In Medio Oriente, dove la situazione non è certo delle più pacifiche, gli israeliani sanno quindi come difendersi ma anche come attaccare a loro volta: è il Krav Maga a temprare le loro anime, preparandoli agli scontri più inaspettati e cruenti.