Il gol contro l'Atalanta ci riporta in un'altra dimensione.
Di pochi giocatori, negli ultimi anni, ci siamo innamorati come di Khvicha Kvaratskhelia. Allo stesso tempo un calciatore che “sembra venire da una contrada dove nessuno abita“, come diceva Erwin Rohde di Nietzsche, ma anche il prodotto di una scuola nazionale, quella georgiana, fin dai tempi di Stalin funambolica e creativa, opposta rispetto alla fredda scientificità del calcio sovietico e lobanovskiano – non a caso, c’era chi li chiamava “i Brasiliani del Caucaso”, i Georgiani.
Kvara è un’apparizione nel football italiano e in generale europeo, occidentale. La risposta libertaria alla tirannia delle scuole calcio, all’omologazione degli stili di gioco, al talento costruito in serie. Un giocatore antico ma moderno, reazionario e rivoluzionario, egoista (perché innamorato dell’oggetto palla come un bambino che la vuole sempre tra i piedi) ma assolutamente altruista, ultra-competitivo e che però vive e sente il calcio, e nella sua essenza, come un gioco. Kvara è la rivincita del calcio originario, puro, incontaminato; del gioco più bello del mondo.
Ennesima metafora ne è stato il gol con l’Atalanta: «un gol archetipico – come scrive oggi Marco Ciriello sul Mattino – che continuerà a segnare nell’eterno. Non lo segna una sola volta, ma per sempre». Perché Kvaratskhelia è «l’ultima risorsa del calcio bambino» che «dribbla la logica dell’efficienza, dribbla gli schemi, dribbla il cambio delle maglie tra un tempo e l’altro, dribbla i gel e i docciaschiuma, dribbla gli sguardi in telecamera, dribbla il postmoderno, dribbla l’inutile delle chiacchiere prima dopo e durante le partite, dribbla i numeri e persino i soldi e dribblando diventa epopea.
Un sorpasso dell’essenza calcistica sul calcio dei due tocchi, rifondando l’epicureismo di un futbol favoloso, che se ne infischia francamente di tutto».
E noi illusi che, per performare ad alti livelli, bisognasse diventare come loro. Come tutti, come gli altri, smettendo di puntare, ripuntare e ubriacare l’uomo. Come confessato dal suo primo allenatore, Lado Kakashvili, a Repubblica, Kvara da sempre «aveva in testa il dribbling, era una piccola ossessione per lui. E noi non gli abbiamo mai detto di smettere, di non farlo, non l’abbiamo mai chiuso in un ruolo». Pensate se fosse cresciuto in una scuola calcio avanzata ed europea, cosa ci saremmo persi. Con dei mister mitomani e maniaci che gli avrebbero detto di ripartire da dietro, di non rischiare sempre la giocata, di non correre sempre il rischio.
Forse non è un caso che i calciatori che più ci fanno sognare, oggi, sono calciatori che arrivano dalla periferia del mondo. Come quei due napoletani lì davanti, Kvaratskhelia e Osimhen, cresciuto anch’egli nella Strikers Academy di Lagos, e trasferitosi in Europa solo nel 2017, a 19 anni. Calciatori selvaggi, calciatori autentici, calciatori libertari. Una boccata d’ossigeno e una gioia fanciullesca, ancestrale, nel calcio di oggi. Per giocatori unici e irripetibili ma, paradossalmente, rappresentanti di tutti noi.